Cenni biografici  


Evariste Kagorora

Evariste Kagorora, un giovane tutsi del Ruanda, nei primi giorni di aprile del 1994, dopo l’inizio del drammatico genocidio, si rifugia nella chiesa della “Sainte Famille” di Kigali pensando sia un luogo sicuro. Dopo tre giorni la chiesa venne circondata. Uomini armati hutu entrano e obbligano gli uomini a uscire fuori (solo gli uomini, perché secondo la tradizione ruandese l’etnia si comunica per via maschile). Evariste è con loro. Sa cosa lo aspetta. Ha con sé solo la Bibbia. Mentre sta uscendo vede la sorella, gli consegna la Bibbia e le dice: “Mi uccideranno, prendi questa Bibbia, è la cosa più preziosa che ho: è la mia stessa vita”. Giunto sulla soglia della chiesa Evariste viene ucciso. Quella Bibbia è dal 3 gennaio 2004 nella Basilica di San Bartolomeo.

Christian de Chergé

Priore del monastero trappista di Notre Dame de l'Atlas, a Tibihirine in Algeria, fu rapito e ucciso dai terroristi del Gruppo Islamico Armato, assieme a sei suoi confratelli, il 21 maggio 1996. Lo sdegno per l'assassinio dei fratelli trappisti fu enorme in Algeria e all’estero. Il Monastero di Tibihirine era un luogo di preghiera, dialogo e incontro, molto conosciuto e apprezzato dalla popolazione musulmana algerina. Frère Christian era da anni amico della Comunità di Sant’Egidio. Malgrado l’inasprirsi della crisi e l’aumento degli attacchi, i frati avevano deciso di non abbandonare il monastero e di condividere pericoli e sofferenze con l’Algeria e con i loro amici musulmani. Già da tempo infatti, Frère Christian e i suoi confratelli avevano ricevuto minacce e “visite” notturne da parte di gruppi armati. Dopo una di queste “visite”, frère Christian scrisse un Testamento nel quale, pur lucido sui pericoli, non abbandona la sua fiducia in Dio e il suo amore per il popolo algerino e per il dialogo con l’Islam a cui aveva dedicato tutta la sua vita : "Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo Paese... Che essi accettassero che l'unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell'indifferenza dell'anonimato. La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l'innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro per quella che, forse, chiameranno "grazia del martirio", il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'islam. Conosco il disprezzo con il quale si è giunti a circondare gli algerini globalmente presi. Conosco anche la caricatura dell'islam che un certo islamismo incoraggia. E' troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con l’integralismo dei suoi estremisti. L'Algeria e l'islam, per me, sono un'altra cosa: sono un corpo e un'anima. L'ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo, imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno frettolosamente trattato da ingenuo o idealista: "Dica adesso quel che ne pensa!". Ma costoro devono sapere che sarà finalmente soddisfatta la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutto della sua passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e malgrado tutto. In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e al centuplo, accordato come promesso! E anche a te, amico dell'ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi. Sì, anche per te voglio dire questo grazie e questo “ad-Dio” con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inch Allah!!

Floribert Bwana-Chui

Floribert ha conosciuto la Comunità di Sant’Egidio a Goma e ne è divenuto membro nel 2000. Studiava diritto e faceva parte di un gruppo di studenti universitari piuttosto impegnati. Veniva da altre esperienze del mondo cattolico e lo colpì la proposta della Comunità di seguire il Vangelo e mettersi al servizio dei bambini poveri. Era particolarmente impegnato con i bambini di strada e la scuola della pace animata dalla Comunità. Nel 2002 durante l’eruzione del vulcano che distrusse la città, assieme agli altri amici organizzò la distribuzione degli aiuti. Era attivamente e fraternamente presente nella vita della Comunità, di cui amava con entusiasmo la preghiera e gli incontri con gli altri giovani. A Pasqua del 2007 aveva partecipato con gioia alla settimana Santa e aveva confidato con orgoglio che si era laureato ed aveva trovato lavoro come direttore dell’ufficio della dogana per la verifica della qualità delle merci. Un posto importante in una città di frontiera come Goma. Questo aveva rivoluzionato un po’ tutta la sua vita, e stava già facendo progetti per sposarsi e mettere su famiglia. Cominciò a svolgere il suo lavoro con grande scrupolo e senso del dovere. Il suo compito era quello di verificare la qualità delle derrate alimentari in transito sulla frontiera e certificarne la buona qualità. Da quando questo ufficio era stato installato a Goma, è opinione comune che mai nessuno dei suoi direttori è stato esente dalla corruzione ed era facile trovare qualsiasi tipo di prodotto avariato nei mercati di Goma con il timbro di certificazione dell’OCC. L’arrivo di Floribert ha segnato per l’ufficio un cambio di rotta improvviso che nessuno degli operatori economici della zona si aspettava. Il mese prima della sua morte, il suo servizio tecnico aveva stilato un rapporto molto dettagliato su una importante partita di riso avariato, e anche questa volta aveva ricevuto telefonate e pressioni anche da parte di autorità pubbliche per chiudere un occhio e prendere il suo compenso come avevano sempre fatto tutti. Ma lui è rimasto inflessibile e ha fatto distruggere tutta la partita (sembra di 4 o 5 tonnellate di riso). Pubblicamente aveva affermato che la salute dei cittadini valeva di più della somma di denaro che gli era stata offerta, perché la vita delle persone non ha un prezzo che si possa pagare. Un sabato ha ricevuto una telefonata e si è presentato ad un appuntamento. Per tutta la giornata di domenica non si sono avute sue notizie e lunedì pomeriggio verso la 15:00 hanno ritrovato il suo corpo sulle rive del lago, non lontano dalla frontiera. Prima di essere ucciso Floribert è stato torturato. I militari congolesi non sono pagati da tempo e il loro salario medio si aggira intorno ai 5-6 $; questo fa si che molti militari si danno alle esazioni contro i civili, o si prestano come manovalanza criminale: bastano 10 $ per commissionare un omicidio.

Il crocifisso della chiesa di San Martí de Palafrugell e la croce di Padre Josep Maria Noguer i Tarafa

Il 4 ottobre 1934, dopo le elezioni vinte dalla destra nel novembre 1933 e in seguito a una crisi di governo, fu proclamato uno sciopero generale, che diede luogo a un moto rivoluzionario in tutta la Spagna destinato presto a esaurirsi in gran parte del paese. Nelle Asturie, tuttavia, i rivoluzionari conquistarono il controllo dei bacini minerari e del capoluogo, Oviedo. Ogni manifestazione religiosa fu proibita, le chiese vennero bruciate, la cattedrale di Oviedo fu bombardata, il palazzo vescovile e il seminario furono incendiati. Era l’inizio della guerra civile spagnola, durata dal 1936 al 1939, durante la quale centinaia di cristiani, uomini, donne, sacerdoti, religiosi e laici, persero la vita con la sola colpa di professare la loro fede. Tra di essi Padre Josep Maria Noguer i Tarafa, parroco di Santa Pau, Catalogna, fucilato il 9 agosto 1936, o i seminaristi claretiani di Barbastro, che hanno lasciato scritto nel loro Testamento: «...Trascorriamo il giorno infondendoci coraggio per il martirio, pregando per i nostri nemici e per il nostro caro istituto; quando giunge il momento di designazione della vittima c'è in tutti serenità santa e ansia d'ascoltare il proprio nome per avanzare e porci nelle file degli eletti; aspettiamo il momento con generosa impazienza. Quando è giunto abbiamo visto chi ha baciato le corde con cui lo legavano, altri dirigere parole di perdono alle turbe armate; quando sono saliti sul camion verso il cimitero, li abbiamo sentiti gridare: Viva Cristo Rè! E la folla rispondere rabbiosa: Muoiano! Muoiano!, ma niente li ha intimiditi.». Tra i martiri di Spagna vi è anche lo zingaro Ceferino, che si offrì per salvare la vita di un sacerdote.

Beati martiri di San Joaquín: padre José Trinidad Ranger, padre Andrés Solá y Molist e Leonardo Pérez Larios

José Trinidad Ranger

Nacque nel rancho (fattoria) "El Durazno" della città di Dolores Hidalgo, Guanajuato, in Messico, il 4 giugno 1887, vigilia della Santissima Trinità, in un'umile famiglia cristiana. Da giovane sentì la vocazione al sacerdozio, ma per le scarse risorse economiche della famiglia dovette rimandare l'ingresso nel seminario fino al compimento dei 20 anni. Entrò nel seminario gratuitamente come studente esterno nel 1909. Una borsa di studio gli permise di diventare seminarista interno. Durante la rivoluzione di Carranza il seminario fu occupato e di conseguenza le lezioni furono sospese. Dovette quindi continuare gli studi a San Antonio, in Texas, negli Stati Uniti d'America. Dopo un anno tornò nella Diocesi di León, dove poté concludere gli studi nel seminario che nel frattempo era stato riaperto. Il 13 aprile 1919 ricevette l'ordinazione sacerdotale. La prima destinazione come sacerdote fu quella di ascritto alla parrocchia del Sagrario de León, in qualità di membro del Centro catechetico di La Salle. Fu vicario della parrocchia di Silao, Zangarro en Marfil, Ibarra, incaricato della parrocchia di Jarapitio, vicario di San Felipe e rettore del Templo del Perdón a Silao, città che dovette abbandonare per non avere adempiuto alla legge civile che imponeva di iscriversi come sacerdote nel registro del Governo, e si rifugiò nella città di León. A León, dove viveva come rifugiato a casa delle sorelle Josefita e Jovita Alba, strinse amicizia con il claretiano Padre Andrés Solá, anch'egli rifugiato, con il quale condivise timori e difficoltà, e nel quale trovò un aiuto nella sua esperienza sacerdotale. Rifiutò l'offerta di suo fratello Agustín di lasciare il Paese e di rifugiarsi negli Stati Uniti d'America e accettò la proposta del suo superiore ecclesiastico di andare a celebrare clandestinamente gli uffici della Settimana Santa dalle Sorelle Minime di San Francesco del Rincón, dove fu arrestato e trasferito al comando della città di León prima di subire il martirio.

Andrés Solá y Molist

P. Andrés Solá nacque il 7 ottobre 1895 nella masseria conosciuta con il nome di Can Vilarrasa, situata nel municipio di Taradell, parrocchia di Santa Eugenia de Berga, provincia di Barcellona, Diocesi di Vich, in Spagna. Era il terzo di undici fratelli e i genitori erano agricoltori. Lui e suo fratello sentirono la vocazione religiosa ed entrarono nel seminario claretiano che i missionari avevano a Vich. In questo seminario studiò lettere. Passò poi al noviziato di Cervera, dove l'anno seguente emise la professione religiosa. Terminato il noviziato, realizzò gli studi di filosofia e teologia necessari all'ordinazione sacerdotale, che ricevette il 23 settembre 1922 nella cappella del palazzo episcopale di Segovia, in Spagna. Per un anno si preparò al ministero della predicazione ad Arande de Duero. Terminato il corso di preparazione, ricevette la prima destinazione, in Messico, ossia Veracruz, dove si recò con altri cinque claretiani, il 20 agosto 1923. In Messico svolse diversi uffici. Fu professore nel seminario minore dei missionari claretiani a Toluca, predicatore, partecipò a missioni popolari, incaricato della parrocchia di Axila della Diocesi di San Luis de Potosí. Nel dicembre 1924 ricevette insieme ai suoi fratelli della comunità di León la notizia delle leggi anticattoliche e anticlericali del Presidente Calles, e decise di rifugiarsi in casa delle sorelle Josefina e Jovita Alba, per evitare l'espulsione dal Paese. Dal suo rifugio ascoltava le confessioni e portava la comunione ai malati. Fu nominato Vicario con giurisdizione in tutta la città; celebrò numerosi battesimi e matrimoni e svolse un'attività pastorale costante e non esente da pericoli. Nel marzo 1927, quando si acutizzò la persecuzione religiosa, obbedendo al Superiore locale, P. Fernando Santesteban, lasciò León e si diresse a Città del Messico, dove stette diversi giorni, ritornando poi con il permesso del Superiore Provinciale a León, dove risiedette ed esercitò il suo ministero missionario. Pochi giorni dopo il suo ritorno, il 23 aprile, il superiore della comunità gli consegnò una lettera in cui gli comunicava l'esistenza di un mandato di cattura contro di lui e lo invitava a sospendere ogni attività, a fuggire o a nascondersi, e a cambiare domicilio. Padre Solá non diede importanza a quella lettera, pensando che nulla di male potesse accadergli. Il giorno dopo fu arrestato. Un arresto che non fu il frutto della sua imprudenza, ma piuttosto dell'ingenuità delle due sorelle Alba che, pensando di fare il bene, si recarono al comando per invocare la libertà per l'altro sacerdote ospitato, don Rangel. Quando i soldati entrarono nella casa delle sorelle Alba non riconobbero subito Padre Solá come sacerdote. Solo dopo aver perquisito la sua stanza lo individuarono, poiché trovarono una fotografia nella quale stava amministrando la prima comunione a una bambina. Padre Solá non negò mai la sua condizione sacerdotale, anzi dichiarò il suo nome e il suo stato, il che bastò per farlo arrestare insieme al signor Leonardo Pérez, che si trovava nella cappella della casa. Fu quindi portato al comando militare e successivamente ucciso.

Leonardo Pérez Larios

A Lagos di Moreno, nello Stato messicano di Jalisco, nacque Leonardo il 28 novembre 1883. Fu il terzo figlio degli undici che ebbero i suoi genitori. Veniva da una famiglia semplice, dove ricevette una buona educazione cristiana. Iniziò gli studi nella scuola di Encarnación Díaz. Alla morte del padre la famiglia si trasferì a vivere a León. In questa città iniziò a lavorare a "La Primavera", negozio di abbigliamento in cui erano dipendenti altri due suoi fratelli. Pochi anni dopo decise di aprire un proprio negozio di stoffe ma l'impresa andò male e dovette tornare a lavorare a "La Primavera". Era una persona che viveva intensamente la sua vita cristiana, con una profonda devozione al Santissimo Sacramento e alla Vergine Maria. Apparteneva a una Congregazione Mariana i cui membri facevano voto di castità e si riunivano settimanalmente per adorare il Santissimo Sacramento. Fu arrestato nella casa delle sorelle Alba, dove aveva partecipato all'Eucaristia e all'Ora Santa che Padre Solá aveva organizzato dopo la celebrazione della Santa Messa. I soldati, nel vederlo vestito di nero lo scambiarono per un sacerdote. Fu inutile il chiarimento sullo stato civile del signor Leonardo che diedero Padre Solá e le persone che si trovavano in quel momento in casa. Quando i soldati chiesero al signor Leonardo se era un sacerdote lui negò, ma affermò di essere cattolico, apostolico e romano. Fu condotto al comando e da lì al martirio.

Santi Martiri: Julio Alvarez Mendoza, Pedro Esqueda Ramírez, José Isabel Flores Varela, David Galván Bermudes, Jenaro Sánchez Delgadillo

ULIO ÁLVAREZ MENDOZA

Nato a Guadalajara, Jalisco, il 20 dicembre 1866. Parroco di Mechoacanejo, Jalisco (Diocesi di Aguascalientes). In questo luogo trascorse tutta la vita sacerdotale. Parroco affettuoso, padre ed amico dei bambini, povero che visse tra i poveri, sacerdote semplice. Aveva imparato il mestiere di sarto e ciò gli servì per cucire vestiti a quanti erano in necessità. Amò come un figlio la Santissima Vergine di Guadalupe. Dedito al suo ministero di parroco di campagna, mentre percorreva una strada di campagna, fu riconosciuto come sacerdote e arrestato dai membri dell'esercito. Venne condotto tra mille difficoltà a Villa Hidalgo, Jalisco, a Aguascalientes, a León, Guanajuato ed infine a San Julián, Jalisco. Il 30 marzo 1927 fu posto su un cumulo di spazzatura per essere fucilato e disse: «Sto per morire innocente. Non ho fatto nessun male. Il mio delitto è quello di essere ministro di Dio. Io vi perdono». Incrociò le braccia ed attese la scarica.

PEDRO ESQUEDA RAMÍREZ

Nacque a San Juan de los Lagos, Jalisco (Diocesi de San Juan de los Lagos) il 29 aprile 1887. Vicario di San Juan de los Lagos. Si dedicò con particolare cura alla catechesi dei bambini. Fondò vari centri di studio ed una scuola per la formazione catechistica. Nel mezzo della persecuzione organizzò una veglia perenne a Gesù Sacramentato con varie famiglie. Nel momento dell’arresto fu malmenato. Il 22 novembre 1927 lo portarono fuori dal carcere per giustiziarlo; i bambini lo circondarono e il Padre Esqueda ripeté con insistenza ad un piccolo che camminava al suo fianco: «Non tralasciare di studiare il catechismo, né per alcun motivo tralascia la dottrina cristiana». Su un foglio di carta annotò le sue ultime raccomandazioni per le catechiste. Quando giunsero nella periferia del paese di Teocaltitlán, Jalisco, gli spararono tre colpi che lo uccisero.

JOSÉ ISABEL FLORES VARELA

Nacque a Santa María de la Paz, della parrochia di San Juan Bautistadel Teúl, Zacatecas (Arcidiocesis di Guadalajara) il 28 novembre 1866. Cappellano di Matatlán, della parrocchia di Zapotlanejo, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara). Per 26 anni svolse il suo ministero in quella cappellania, mostrandosi a tutti come un padre affettuoso. Un vecchio compagno che era stato protetto da Padre Flores, lo denunciò al capo di Zapotlanejo e venne incarcerato il 18 giugno 1927, quando stava dirigendosi verso una fattoria per celebrare l'Eucarestia. Fu nascosto in un luogo sporco, tenuto prigionero e maltrattato. Padre José Isabel ripeté più volte: «Preferisco morire piuttosto che deludere Dio». Il 21 giugno 1927 venne condotto, di notte, nel camposanto di Zapotlanejo per l'esecuzione.

DAVID GALVÁN BERMUDES

Nacque a Guadalajara, Jalisco il 29 gennaio 1881. Professore nel Seminario di Guadalajara. La sua attenzione verso i poveri e gli operai lo spinsero ad organizzare ed aiutare il gruppo dei calzolai, lavoro che effettuò a fianco di suo padre. Aiutò una ragazza perseguitata da un militare, che, già coniugato, desiderava contrarre matrimonio con lei. Questo fatto procurò al Padre Galván l'inimicizia del tenente che, alla fine, divenne il suo giustiziere. Il 30 gennaio 1915 mentre cercava di aiutare i soldati feriti in un combattimento avvenuto a Guadalajara, fu fatto prigioniero e fucilato.

JENARO SÁNCHEZ DELGADILLO

Nacque a Zapopan, Jalisco (Arcidiocesi di Guadalajara) il 19 settembre 1886. Vicario di Tamazulita, della parrocchia di Tecolotlán, Jalisco (Diocesi di Autlán). Il suo parroco elogiava la sua obbedienza. I fedeli ammiravano la sua rettitudine ed accettavano la fermezza del Padre Jenaro quando chiedeva una buona preparazione per poter ricevere i sacramenti. I soldati ed alcuni coloni lo individuarono mentre insieme ad alcuni fedeli suoi amici andava per i campi. Vennero tutti lasciati liberi, mentre il Padre Jenaro venne condotto su un colle vicino a Tecolotlán e su un albero prepararono la forca. Padre Jenaro posto di fronte al plotone, con eroica serenità proferì le seguenti parole: «Paesani, mi impiccheranno; io li perdono; che anche Iddio, mio Padre, li perdoni e che sempre viva Cristo Re!». I carnefici tirarono la corda così forte che la testa del martire batté violentemente su un ramo dell'albero. Dopo poco morì in quella stessa notte del 17 gennaio 1927. L'astio dei soldati continuò e, tornati all'alba, fecero scendere il cadavere, gli spararono sulla spalla e una pugnalata quasi attraversò il corpo ormai inerte.

Beato Franz Jägerstätter

Il 9 agosto 1943, in un carcere vicino Berlino, mentre su gran parte dell'Europa gravava la notte oscura del domino nazista e della guerra mondiale, veniva decapitato un contadino austriaco di 36 anni, cattolico e padre di tre figli. La sua colpa: essere un oppositore del nazismo ed essersi rifiutato strenuamente, in nome della sua fede cristiana, di combattere agli ordini di Adolf Hitler. Quest'uomo si chiamava Franz Jägerstätter, e scelse di testimoniare con la sua vita la sua fedeltà al Vangelo ed il suo rifiuto di seguire l'ideologia e la prassi nazista. Franz Jägerstätter, vissuto in un piccolo villaggio a pochi chilometri dalla Baviera e dai luoghi in cui Joseph Ratzinger ha passato alcuni anni della sua infanzia, è stato proclamato beato da Benedetto XVI. La vicenda di Franz Jägerstätter è per molti versi impressionante. Nel pieno della guerra e del clima di isterica propaganda bellica creato dalle autorità naziste, questo giovane padre di tre figlie, nato e cresciuto a soli trenta chilometri dal villaggio natale di Hitler, ebbe molto chiara nella sua coscienza l'impossibilità per un cristiano di essere soldato in un esercito comandato da un potere iniquo e anticristiano. Tale chiarezza era per lui semplicemente un dono, una grazia, da accogliere con umiltà e riconoscenza. Affermava infatti: «Se Dio non mi avesse dato la grazia e la forza di morire se necessario per difendere la mia fede, forse farei semplicemente ciò che fa la maggior parte della gente». Si chiedeva poi con grande chiarezza: «Si può essere allo stesso tempo soldato di Cristo e soldato per il nazionalsocialismo, si può combattere per la vittoria di Cristo e della sua Chiesa e contemporaneamente combattere perché vinca il nazionalsocialismo?». Le sue lettere scritte in carcere, dopo la sentenza di morte, sono di una serenità che non può che stupire, considerate le condizioni nelle quali affrontava tale prova e le preoccupazioni evidenti che doveva serbare per la sua famiglia. Con estrema lucidità Jägerstätter considerava il dilemma morale nel quale si trovava, e di fronte al quale non era disposto a compromessi di alcun genere: «Per quale motivo preghiamo Dio e i sette doni dello Spirito Santo, se dobbiamo comunque prestare in ogni caso cieca obbedienza? A che pro Dio ha fornito agli uomini un intelletto ed una libera volontà se non ci e neppure concesso, come alcuni dicono, di giudicare se questa guerra che la Germania sta conducendo sia giusta o ingiusta?». Tali considerazioni sono contenute in una lettera scritta da Franz Jägerstätter alla fine di luglio 1943, mentre si trovava con le mani legate perché ormai vicino all’esecuzione della condanna. L'originale di questo prezioso documento è stato solennemente consegnato il 4 novembre 2005 dal Cardinale Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della Conferenza episcopale austriaca, a don Angelo Romano, Rettore della Basilica di san Bartolomeo, per essere esposto nella cappella dedicata ai testimoni della fede vissuti sotto il regime nazista. Qui, alla vigilia della morte, il giovane austriaco scriveva: "Io credo che si possa anche prestare cieca obbedienza, ma solo se così facendo non si danneggia nessuno. Scriverò solo qualche parola, così come essa mi esce dal cuore. Scrivo con le mani legate, ma è meglio così che se fosse incatenata la volontà. Talvolta Dio ci mostra apertamente la sua forza, che Egli dona agli uomini che lo amano e non preferiscono la terra al cielo. Né il carcere, né le catene e neppure la morte possono separare un uomo dall’amore di Dio e rubargli la sua libera volontà. La potenza di Dio è invincibile. Siate ubbidienti e sottomettetevi alle autorità: queste parole vi arrivano oggi da ogni parte, anche da persone che non credono quasi per nulla in Dio e alle Sacre scritture. Se ci si dedicasse con la stessa assiduità con cui si è tentato di salvarmi dalla morte terrena a mettere in guardia ciascun uomo contro il peccato mortale, e perciò contro la morte eterna, ci sarebbe davvero già il paradiso in terra. C’è sempre chi tenta di opprimerti la coscienza ricordandoti la sposa e i figli. Forse le azioni che si compiono diventano giuste solo perché si è sposati e si hanno figli? O forse l’azione è migliore o peggiore solo perché la compiono anche altre migliaia di cattolici? Forse anche fumare è diventato una virtù perché lo fanno migliaia di cattolici? Si può allora anche mentire perché abbiamo moglie e figli e per di più giustificarsi attraverso un giuramento? Cristo stesso non ha forse detto: “Chi ama la moglie, la madre e i figli più di me non è degno di me”? Per quale motivo preghiamo Dio e i sette doni dello Spirito santo, se dobbiamo comunque prestare in ogni caso cieca obbedienza? A che pro Dio ha fornito agli uomini un intelletto e una libera volontà se non ci è neppure concesso, come alcuni dicono, di giudicare se questa guerra che la Germania sta conducendo sia giusta o ingiusta? A cosa serve allora saper distinguere tra bene e male? Se al giorno d’oggi gli uomini fossero un po’ più sinceri ci dovrebbe essere, credo, anche qualche cattolico che dice: “Sì, mi rendo conto che quello che stiamo compiendo non è bene, tuttavia non mi sento ancora pronto a morire. Forse molti pensano di essere tenuti a testimoniare e a morire per la loro fede solo quando si pretenderà da loro di abbandonare la Chiesa. Io mi azzardo a dire molto apertamente che chi è pronto a soffrire e a morire, piuttosto che offendere Dio con il più piccolo peccato veniale, è anche disposto a morire per la propria fede. Questi avrà maggior merito di chi viene condannato pur di non abiurare pubblicamente la Chiesa, perché in questo caso si ha semplicemente il dovere, se non si vuol commettere peccato grave, di morire piuttosto che obbedire. Un santo disse: “Anche se una sola menzogna detta per adeguarsi alle circostanze permettesse di spegnere tutto il fuoco dell’inferno, non bisognerebbe dirla perché mentendo, anche per necessità, si offende Dio”. Qualcuno potrà pensare che simili considerazioni nel XX secolo possono sembrare ridicole. Sì, è vero, noi uomini siamo cambiati in molte cose, ma Dio non ha tolto uno iota dai suoi comandamenti. Perché poi si vuole sempre cercare di rimandare la morte, come se non si sapesse che prima o poi dovrà arrivare? Forse i nostri santi si sono comportati così? Non credo proprio. O forse dubitiamo della misericordia di Dio, come se potesse davvero aspettarci l’inferno dopo la nostra morte. In realtà me lo sarei meritato, con i miei numerosi e gravi peccati, ma Cristo non è venuto nel mondo per i giusti, bensì per cercare ciò che era smarrito. E affinché nessun peccatore debba avere dubbi, ce ne ha dato un esempio proprio in punto di morte, salvando il buon ladrone. Non avremmo mai alcuna serenità su questa terra se sapessimo che Dio, il Signore, non ci perdona e perciò dopo la morte dovremo vagare per sempre nell’inferno. Se pensieri del genere non portano alla disperazione l’uomo, ciò significa che egli non crede più in una vita oltre la morte, o che si immagina l’inferno come un locale di divertimenti, dove c’è sempre allegria. Se un nostro buon amico ci proponesse un lungo viaggio di piacere, naturalmente gratis e con trattamento di prima classe, cercheremmo di rimandarlo continuamente o addirittura lo terremmo in serbo per la vecchiaia? Non credo proprio. E cos’è dunque la morte: non si tratta anche in questo caso di un lungo viaggio che dovremo fare, anche se da questo non ritorneremo? Ma può esservi un momento più gioioso di quello nel quale ci accorgeremo di essere felicemente approdati sulle rive del paradiso? Naturalmente non dobbiamo dimenticare che prima ci dovremo purificare nel purgatorio, ma esso non dura in eterno e chi in vita si è sforzato di aiutare con le proprie preghiere le povere anime dei morti ed è stato devoto alla Madre di Cristo può essere sicuro di non doverci stare a lungo. Si potrebbe quasi svenire nel pensare alle gioie eterne del cielo! Come ci rende subito felici una piccola gioia che proviamo in questo mondo! Eppure che cosa sono le brevi gioie terrene rispetto a quelle che Gesù ci ha promesso nel suo regno? Nessun occhio ha mai visto, nessun orecchio ha mai udito e nessun cuore d’uomo ha mai conosciuto ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano. Quando Sant’Agostino volle scrivere un libro sulle gioie celesti, san Gerolamo che, come si seppe più tardi, era morto in quello stesso giorno, gli apparve in sogno e disse: “Come non puoi contenere il mondo intero in una mano, così non potresti raccogliere le gioie del cielo in un libro prima di trovarti tu stesso in quel luogo nel quale ti sforzi di giungere”. Se dunque le gioie del Cielo sono così grandi, non dobbiamo disprezzare tutti i piaceri di questa terra?”

Eugen Bolz

Eugen Bolz, uomo politico cattolico, deputato del Zentrum al Reichstag per oltre venti anni e poi presidente del Land Baden-Wuerttemberg fino all’ascesa al potere di Hitler fu ucciso in un carcere di Berlino, nel gennaio del 1945. ''La Chiesa - scriveva - deve avere il diritto di intervenire contro quelle leggi che mettono in pericolo gli interessi vitali delle Chiese e il bene dei credenti. Se una legge è in contraddizione con le leggi naturali o il diritto divino, essa, secondo i cattolici, non può vincolare la coscienza. Davanti all'uso evidente e ripetitivo della violenza da parte dello Stato il popolo ha diritto a ribellarsi”. Già nell’estate del 1933 fu internato in un campo di concentramento perché si opponeva pubblicamente al nazionalsocialismo in nome della sua fede di cattolico. Liberato, ebbe vari contatti con il gruppo di resistenza di Carl Goerdeler, ex sindaco di Lipsia. Dopo l’attentato a Hitler del luglio 1944, a cui non aveva preso parte, fu arrestato e condannato a morte. Alla figlia e alla moglie, che più volte gli aveva portato di nascosto la Comunione in carcere (la custodia in cui veniva conservata l’ostia consacrata è custodita nella cappella dei martiri del nazismo), aveva scritto prima di morire: “Mi sono preparato per mesi interiormente a questo momento. Devo congedarmi da voi e dalla vita. Mi è molto difficile lasciarvi. Vi prego accettatelo come la croce che il Signore ha voluto per me. Io ho almeno la grazia di morire preparato e forse di sfuggire ad un tempo difficile”.

Paul Schneider

A metà degli anni Venti Paul Schneider divenne pastore evangelico in due piccole località della Renania. Per la sua azione pastorale entrò in contrasto con il responsabile della sezione locale del partito nazista. Paul Schneider ha 33 anni, è sposato con Margarethe e ha già quattro figli, quando, l'8 ottobre 1933, dopo aver ricevuto una prima denuncia, scrive: "La scorsa domenica ho predicato di nuovo su Romani 1,16. Infatti non mi vergogno dell'Evangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del giudeo prima e poi del greco. Non credo che la nostra Chiesa evangelica potrà evitare uno scontro con lo Stato nazista, e neppure che riuscirà a differirlo ancora a lungo…”. E' il febbraio del 1934, quando dopo essersi pronunciato dal pulpito contro Goebbels e contro i Deutsche Christen, associazione cristiana evangelica asservita al Führer, Paul Schneider viene trasferito nei villaggi di Dickenstein e Womrath, nell'Hunsrück (500 fedeli in tutto). Il suo rigore evangelico lo porterà ad additare esplicitamente alti gerarchi nazisti e lo stesso Hitler. In questi anni difende pubblicamente gli ebrei, predica, si oppone all'abolizione delle scuole confessionali, chiuse dal regime, applica la penitenza cristiana secondo la tradizione Riformata ad un esponente del partito nazionalsocialista che turbava la vita delle piccole comunità. Appoggia la Chiesa confessante. Subisce un primo arresto per essersi opposto a un capo locale nazista che ad un funerale aveva usato espressioni paganeggianti. A quell’arresto ne seguiranno altri, sino al 1937. La compagnia di Margarethe, dalla quale ha appena avuto il sesto figlio, lo sostiene condividendo con lui un'esperienza di fede profonda. Le pagine del suo diario sono intrise di amore tenero per i suoi cari. Il 31 giugno del 1937 viene portato dalla Gestapo nella prigione di Coblenza, per otto settimane, al termine delle quali gli sarà notificato un decreto di espulsione dalla Renania. L'inosservanza voluta e scelta del decreto, per obbedienza al Vangelo e per amore delle piccole comunità che gli erano state affidate, lo conducono ad un nuovo arresto e alla deportazione a Buchenwald. Dall'ultima omelia, 50 giorni prima della Pasqua: "Cara comunità, oggi varchiamo nuovamente una porta, la porta che ci immette nel tempo santo della Passione: il nostro amato Signore e Salvatore, infatti, vuole prendere anche noi con sé, e dirci: "Ecco noi saliamo a Gerusalemme"…Anche per i discepoli e per la comunità…la via che porta alla corona non può che passare dalla croce…Uno sguardo alla Russia dovrebbe insegnarci molte cose. Là, qualsiasi tipo di organizzazione ufficiale di chiesa è smembrato e sciolto, i pastori sono spariti, gli edifici sacri sono stati quasi smantellati. Eppure la Chiesa di Gesù Cristo la è viva più di prima… in coloro che qua e la si riuniscono nelle case, nei sacerdoti ridotti allo stato laicale, che non cessano di annunciare la Parola, disposti a accettare le punizioni a cui vanno incontro… E tu non t'ingannare: perché tu non puoi aver parte alla vittoria e alla gloria di Gesù, se non prendendo su di te, per amor suo, la santa croce, percorrendo con lui la via della Passione e della morte. Per questo c'è bisogno della fede: perché è la fede che conosce la potenza e la vittoria della croce. Questa fede è una forza nascosta, silenziosa e quieta; non per questo però è inoperosa e inerte, e si attiva nella preghiera intensa, appassionata". Nel Lager di Buchenwald dove trovò la morte, Schneider fu sottoposto a maltrattamenti e a torture particolari perché si rifiutava di rendere omaggio alla croce uncinata e a Hitler. Dall’aprile 1938 fu rinchiuso in isolamento nel Bunker del campo, dove trascorse gli ultimi quattordici mesi di vita. Dal Bunker tuttavia non cessò la sua attività di predicazione, di denuncia dei crimini e di conforto dei detenuti. Un compagno di detenzione ha così ricordato: “Nel Bunker in cui si trovavano le celle d’isolamento buio, conobbi il pastore Schneider; stava nella cella accanto alla mia. Tutte le mattine teneva per noi prigionieri una preghiera mattutina, e a causa di quella ogni volta veniva bastonato e torturato […]. La domenica di Pasqua improvvisamente udimmo le potenti parole: “Così dice il Signore: Io sono la risurrezione e la vita”. Le lunghe file dei prigionieri stavano sull’attenti, profondamente turbate dal coraggio e dall’energia di quella volontà indomita […]. Non poté mai pronunciare più che poche frasi. Poi sentivamo abbattersi su di lui i colpi di bastone delle guardie…”.

Beato Clemens August von Galen

Clemens August von Galen nacque il 16 marzo 1878 nel castello di Dinklage ad Oldenburg. Undicesimo di 13 figli, frequentò il liceo dei Gesuiti a Feldkirch e diede la maturità nel 1896 a Vechta. Compiuti gli studi a Freiburg (Svizzera), Innsbruck e Münster, venne ordinato sacerdote il 28 maggio 1904 a Münster. Dopo un breve periodo come vicario capitolare a Münster, venne nominato nel 1906, cappellano della chiesa di San Mattia a Berlino. Con ciò cominciò una attività sacerdotale durata 23 anni nell’allora capitale dell’impero prussiano. Dopo alcuni anni come curato della chiesa di San Clemente, divenne parroco della chiesa di San Mattia a Berlino – Schöneberg. Nel 1929 von Galen fu nominato parroco della chiesa parrocchiale di San Lamberto, a Münster e nel 1933 vescovo della stessa città. Già nella sua prima lettera pastorale, durante la Quaresima del 1934, il vescovo von Galen smascherò l’ideologia neopagana del nazionalsocialismo. Per von Galen la parte dei cristiani era quella dell’incudine: “Noi siamo l’incudine, non il martello. Rimanete forti e irremovibili come l’incudine sotto l’imperversare dei colpi che si abbattono su di noi… Ma siate anche pronti al supremo sacrificio, secondo la parola: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini!”… Diventate duri, diventate irremovibili! Come un incudine sotto i colpi del martello! Può darsi che l’obbedienza a Dio, la fedeltà alla coscienza costi a me e a voi la vita, la libertà, l’esilio”. Continuamente negli anni seguenti prese posizione per la libertà della Chiesa e delle associazioni cattoliche. In una vibrante predica nel duomo di Xanten, nella primavera del 1936, il vescovo accusò apertamente il regime nazionalsocialista di discriminare, di gettare in prigione e addirittura di uccidere i cristiani a causa del loro credo. Nel gennaio 1937 Pio XI lo invitò a Roma assieme ad altri vescovi per parlare con loro della situazione in Germania e per preparare l’enciclica “Mit Brennender Sorge”. Un’eco mondiale ebbero – al culmine della sua resistenza pubblica contro il nazionalsocialismo- le tre prediche divenute famose, tenute nella chiesa di San Lamberto il 13 luglio 1941 e il 3 agosto 1941 e nella chiesa di Nostra Signore in Überwasser in Münster, il 20 luglio 1941. In queste prediche si rivoltò contro le violazioni dello Stato e difese con forza il diritto alla vita, all’inviolabilità e alla libertà dei suoi cittadini. Nelle sue prediche von Galen si rivoltò contro il programma di eutanasia voluto da Hitler: “Qui si tratta di esseri umani, di nostri simili, nostri fratelli e nostre sorelle. Povera gente, gente malata… Ma hanno essi perduto il diritto alla vita solo per questo? Hai tu, ho io il diritto a vivere solamente fintanto che sono produttivo, fintanto che vengo riconosciuto produttivo dagli altri? Se si stabilisce o si garantisce il principio che è lecito uccidere gli uomini “improduttivi”, allora guai a noi tutti quando diventeremo vecchi e deboli a causa degli acciacchi dell’età!… Allora nessuno è più sicuro della propria vita”. Il potere statale si sentì colpito nell’intimo e voleva arrestare il vescovo e farlo uccidere. Il Vescovo fu angustiato dal fatto che al posto suo vennero portati nei campi di concentramento 24 membri del clero secolare e 18 chierici e religiose: 10 di loro morirono. Nei difficili mesi del dopoguerra, il vescovo fu ancora una volta una personalità a cui molti si rivolsero. Con franchezza si oppose anche alle autorità d’occupazione, nello sforzo di eliminare le ingiustizie. Pio XII lo chiamò il 18 febbraio 1946 nel collegio cardinalizio. Una basilica di San Pietro gremita lo acclamò, il “Leone di Münster”, quando ricevette dalle mani del Papa la dignità cardinalizia: era un onore per la sua condotta intrepida durante il periodo del nazionalsocialismo. Morì il 22 marzo 1946 e fu sepolto nella Ludgeruskapelle, nel duomo distrutto dalle bombe. Clemens August von Galen è stato proclamato beato da Benedetto XVI.

Joannes Baptista Sproll

Vescovo cattolico della diocesi tedesca di Rottenburg-Stuttgart dal 1927 alla sua morte nel 1949. Per via delle sue prese di posizione contro l’ideologia nazionalsocialista fu costretto all’esilio nell’agosto del 1938. Le SS circondarono la sua casa bersagliandola con delle pietre e distruggendone le vetrate (una di queste pietre è custodita nella cappella dedicata ai martiri del nazismo). Il 1 agosto del 1940 l’arcivescovo di Friburgo ed il vicario generale di Rottenburg-Stuttgart condannano pubblicamente, anche a nome del vescovo Sproll il programma di eutanasia condotto dal regime di Hitler. Torna gravemente malato dall’esilio appena finita la guerra. Il suo motto episcopale “Fortiter in Fide” era per lui un impegno a cui non si sottrasse in tempi bui e violenti. Poco prima che le SS prendessero a sassate la sua casa aveva detto ad un gruppo di fedeli: “Abbiamo il coraggio di confessare la nostra fede? O temiamo il terrore di questo mondo? Temiamo la derisione di questo mondo? Sì, questo mondo è un’arma potente. Chi è profondamente convinto della sua fede cristiana e chi vive veramente secondo la sua fede, chi ha una forza di fede intangibile ed è una persona pura otterrà l’attenzione ed il rispetto di questo mondo. Egli non deve aver paura, non deve temere gli uomini”.

Heinrich Ruster

Laico cattolico tedesco, pubblicista, sposato a Susanna Katharina Kleinsorg, morì a 58 anni nel campo di concentramento di Sachsenhausen, dopo essere stato arrestato più volte per essersi espresso contro il Führer. Heinrich Ruster, prima di spegnersi, il 23 ottobre 1942, disse: “Perché dovremmo temere la via oscura della morte? Perché non dovremmo bere gioiosamente dal calice dal quale anche Lui ha bevuto, e non accettare un evento che è accaduto a Lui?”. L’arcivescovo di Colonia, il cardinale Joachim Meisner, il 10 gennaio 2005, durante una solenne celebrazione della Parola, ha consegnato alla chiesa di San Bartolomeo all’Isola una lettera scritta da Ruster dal lager nazista alla moglie poco prima di morire: “E a te mia compagna amata e fedele do tutta la forza del mio cuore; batte ogni ora per te, che tu lo sappia. E in questa comunione imperturbabile portiamo il nostro destino con rettutidine e fiducia in Dio!”.

Sofian Boghiu

L'Archimandrita Sofian Boghiu è stato per circa 60 anni monaco e quindi starez del Monastero Antim, di Bucarest, morto il 14 settembre del 2002, Festa dell'Innalzamento della Croce. Una personalità spirituale di grande valore, riconosciuta unanimemente, che fa onore al monachesimo romeno e alla Chiesa di Cristo. La sua santità fu riconosciuta fin dall'inizio dalla Chiesa, a motivo della sua testimonianza del Vangelo vero, con le parole e con il colore, attraverso figli spirituali e icone. Nel tempo del comunismo ha costituito un punto di riferimento intellettuale e spirituale a Bucarest, a motivo delle sue relazioni con il Movimento "Roveto Ardente", iniziato nel 1945 con 40 monaci e intellettuali. Il roveto ardente - che arde ma non si consuma - era simbolo della preghiera incessante. Oltre alla preghiera quotidiana, si tenevano una serie di conferenze nella biblioteca del Monastero Antim, sul tema della preghiera, del rapporto tra uomo e Dio, sulla storia dei Padri, iniziando dal periodo apostolico. Molti credenti partecipavano a queste iniziative, nonostante i tempi difficili. P. Sofian fu arrestato, insieme ad altre 15 persone di Roveto Ardente tra cui P. Roman Braga, nel giugno del 1958. Condannato a 16 anni di lavori forzati fu internato prima a Jilava e poi a Aiud. Dopo quattro anni fu inviato nel campo di lavori forzati di Salcia, vicino Braila. E' tornato a casa, nel monastero di Antim, nel luglio del 1964. A San Bartolomeo è conservato un suo oggetto monastico, detto "PARAMAN", che ogni monaco porta sempre sotto al camice. Sul Paraman, che porta ricamata la Passione di Gesù, è stato scritto "E' stato condannato a 16 anni di lavori forzati per le sue attitudini anticomuniste".

La piccola croce di latta di Jani Trebicka e la pisside di Scutari

Tra le reliquie della persecuzione dei credenti nei paesi comunisti dell'Est Europa c'è una piccola croce di latta. È una delle croci che nottetempo vennero messe nel cimitero della città di Korça all'epoca in cui in Albania, dopo il 1967, vigeva il divieto assoluto di praticare la religione e ogni trasgressione veniva punita severamente con la prigione, i lavori forzati, a volte la morte, sempre l'emarginazione sociale della famiglia del reo. Non c'erano più chiese aperte; il clero era stato eliminato, imprigionato o disperso; i battesimi erano reato penale; non si potevano dare i nomi di tradizione cristiana ai nuovi nati; e persino il possesso delle uova colorate a Pasqua, diffuse tra i cristiani ortodossi, era passibile di gravi condanne. A Korça, città con folta presenza di ortodossi, un umile operaio d'officina meccanica, Jani Trebicka, confezionò di nascosto delle piccole croci di latta e le appose su qualche tomba di cristiani nel cimitero cittadino, di nascosto, a serio rischio della propria vita. Una di queste croci è stata donata al santuario memoriale dei martiri del Novecento di San Bartolomeo all'Isola Tiberina da Sua Beatitudine Anastasios, arcivescovo di Tirana e primate della Chiesa ortodossa autocefala di Albania. Rappresenta una testimonianza semplice ma quanto mai espressiva delle comunità cristiane sofferenti d’Albania, sia ortodosse sia cattoliche, che hanno tutte patito il regime dittatoriale di Enver Hoxha sin dalla sua ascesa al potere nel 1944. Vi fu allora, nell'immediato dopoguerra, l'eliminazione delle gerarchie ecclesiastiche e di parte del clero cristiano, ma più ancora la persecuzione fu radicale dopo la proclamazione dello Stato ateo nel 1967, che comportò il divieto assoluto di pratica religiosa per i cristiani albanesi (circa il 30% della popolazione).

Aleksandr Men'

Aleksandr Men’ nasce a Mosca il 22 gennaio 1935, da una famiglia di tradizione ebraica. La madre, che da tempo rifletteva sulla decisione di divenire cristiana, decide di battezzarsi insieme al figlio di pochi mesi in una piccola chiesa ortodossa non lontana dal monastero di san Sergio a Zagorsk, allora chiuso per la dura politica repressiva del regime sovietico. Dopo la guerra, ancora adolescente, chiede di entrare in seminario, ma non è accettato perché minorenne. Inizia la sua formazione da solo, nello studio dei grandi pensatori ortodossi i cui libri, proibiti dallo Stato, riesce ad acquistare clandestinamente. Completati gli studi presso l’istituto di biologia si sposa nel 1956 con una compagna di università. Nel 1958 diventa diacono, nel 1960 riceve l’ordinazione sacerdotale. Nel 1970 diviene parroco della chiesa di Novaja Derevnja, a circa un’ora da Mosca, dove rimarrà fino alla morte. La sua attività pastorale è molto intensa, nonostante le ripetute minacce dei servizi segreti sovietici e le enormi difficoltà nella comunicazione del Vangelo in quegli anni. Novaja Derevnja diviene presto un centro di spiritualità e di catechesi per una numerosa famiglia di figli spirituali di padre Men’, composta prevalentemente da giovani intellettuali in ricerca della fede, molti dei quali di origine ebraica. Padre Men’ sarà autore di numerosi libri catechetici e di commento alle Scritture, che conosceranno, con gli inizi della perestrojka, una forte diffusione nel mondo moscovita e non solo. Dalla metà degli anni ’80, con la liberalizzazione della vita religiosa, le attività di padre Men’ si moltiplicano: i suoi interventi in occasioni pubbliche, le trasmissioni radiofoniche, le pubblicazioni, faranno di lui uno dei più famosi e ascoltati cristiani ortodossi di Russia. Il numero dei suoi figli spirituali cresce. Sono varie migliaia nella sola Mosca: si incontrano per pregare, riflettere e studiare la Scrittura e si impegnano con i più poveri, in particolare i bambini malati negli ospedali. Si inaugura una Università ortodossa da lui fondata e il suo libro “Figlio dell’uomo” diventa un testo fondamentale per migliaia di uomini e donne che si avvicinano al cristianesimo. La sua “popolarità” cresce insieme al numero di chi si oppone alla sua predicazione. La mattina del 9 settembre 1990, mentre aspetta il treno che deve portarlo nella sua parrocchia per celebrare la liturgia, padre Men’ viene ucciso a colpi di accetta da uno sconosciuto. Sul luogo della sua morte, vicino al villaggio di Semkhoz ove abitava, sulla strada verso il monastero di san Sergio, è stata edificata una cappella divenuta luogo di pellegrinaggio.

Andrè Jarlan

«Coloro che fanno vivere sono quelli che offrono la loro vita, non quelli che la tolgono agli altri. Per noi la resurrezione non è un mito, ma proprio una realtà; questo evento, che noi celebriamo in ogni Eucaristia, ci conferma che vale la pena di dare la vita per gli altri e ci impegna a farlo». Cosi scriveva Andrè Jarlan, prete francese impegnato a favore dei poveri, ucciso in Cile il 4 settembre 1984. Padre André Jarlan era nato in Francia, a Reginac, nel 1941; a ventisette anni, poco dopo la sua ordinazione sacerdotale avvenuta nel giugno 1968, fu nominato vicario della parrocchia di Aubin, in una zona operaia. Presto mostrò la sua sensibilità ad una pastorale rivolta al mondo dei lavoratori, divenendo assistente spirituale della JOC (la gioventù operaia cattolica) della diocesi di Rodez, a cui apparteneva. La disponibilità a lavorare per il Vangelo anche al di là dei confini della sua nazione lo condusse, nel 1983, a trasferirsi a Santiago del Cile, dove nel quartiere popolare chiamato «la Vitoria» pose il suo ministero sacerdotale al servizio dei giovani, in particolare di quanti vivevano gravi difficoltà. Padre Jarlan, nel clima di repressione e di dittatura poliziesca che regnava in quel periodo in Cile, scelse la strada di una testimonianza di amore gratuito e di condivisione con il mondo dei poveri, allora stretti tra difficoltà economiche, repressione politica, violenza diffusa. Dopo una sommossa scoppiata il 4 settembre del 1984 nel suo quartiere si prese cura di quanti erano stati colpiti dalla violenza, poi si ritirò nella sua abitazione, dedicandosi alla lettura della Bibbia. Ignoti assassini lo uccisero mentre leggeva la Sacra Scrittura: il suo corpo venne trovato mentre ancora sedeva alla scrivania, il capo reclinato colpito da un proiettile poggiava sulla Bibbia, aperta sul Salmo 129. Nella Basilica viene conservata la sua stola.

Oscar Arnulfo Romero

Mons. Oscar Arnulfo Romero nasce il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios, villaggio di bassa montagna in El Salvador. Entra in seminario nella città di San Miguel e nel 1937 va a studiare a Roma dove è ordinato sacerdote nel 1942. Nel 1943 ritorna in El Salvador. E’ parroco nella diocesi di San Miguel fino al 1968, quando diventa segretario della Conferenza Episcopale salvadoregna. Nel 1970 è nominato vescovo ausiliare nell'arcidiocesi di San Salvador. Nel 1975 è vescovo di Santiago de María. Nel 1977 diviene arcivescovo di San Salvador. Muore nel 1980, ucciso durante una celebrazione liturgica da uno squadrone della morte. Gli ultimi anni della sua vita lo vedono assurgere a fama internazionale per le sue coraggiose prese di posizione contro la violenza e l'ingiustizia nel suo paese. Timido e impacciato per natura, ma personalità carismatica e autorevole, di cultura e tradizione tridentina e al contempo assai fedele al magistero della Chiesa del suo tempo, Mons. Romero si trovò suo malgrado, in forza della responsabilità profondamente sentita di arcivescovo e pastore, ad esercitare un ruolo pubblico determinante nella crisi della sua nazione. Sul finire degli anni Settanta El Salvador scivolava infatti verso la guerra civile, nel contesto di un confronto di Guerra fredda fra Est e Ovest che coinvolgeva fortemente l'America Centrale. Mons. Romero si fece in particolare “voz de los sin voz”, ossia difensore dei poveri e degli umili “senza voce” sottoposti alla spirale di violenza scatenata dal governo militare e dalle formazioni guerrigliere di opposizione. La sua posizione di mediatore di pace, non senza lucide e vibranti denunce dell'ingiustizia sociale all'origine della gravissima crisi, rese invisa la sua voce presso i fautori della violenza e delle soluzioni di forza. Fondata sempre su motivazioni religiose e spirituali, la testimonianza di Mons. Romero nel senso della pace, della giustizia e dell'inermità cristiana lo condusse alla morte martiriale. Questa venne il 24 marzo 1980, lunedì dell'ultima settimana di Quaresima. Mons. Romero stava celebrando la Messa nella chiesetta dell’ospedale per malati oncologici presso cui viveva. Aveva appena finito l’omelia. Le ultime parole erano state eucaristiche: “Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci alimenti anche per dare il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo”. Si udì uno sparo proveniente dall’ingresso della cappella. Mons. Romero cadde dinanzi all’altare. Pochi minuti dopo morì.

Juan Jesús Posadas Ocampo

Il Cardinale Ocampo, nato il 10 novembre 1926, pochi mesi dopo l'inizio di un periodo di forte persecuzione anticattolica ed ordinato sacerdote il 23 settembre 1950, si era formato in anni duri per la Chiesa messicana: conosceva il cammino di sofferenza dei cristiani del suo paese e proprio per questi motivi, divenuto prima Vescovo nel 1970 e poi Cardinale nel 1991, si era fatto promotore della causa di beatificazione dei martiri messicani. Il Cardinale Posadas Ocampo venne ucciso da un gruppo di uomini armati il 24 maggio 1993, mentre era in attesa di accogliere il Nunzio apostolico che giungeva a Guadalajara per assistere alla celebrazione della memoria dei martiri messicani di Jalisco: il presule venne colpito 14 volte al petto con armi da fuoco. Era noto per il suo impegno: aveva ripetutamente condannato la criminalità organizzata e i narcotrafficanti. Il suo assassinio appare sempre più chiaramente l'espressione dell'arroganza delle organizzazioni criminali e della situazione di violenza nella città e nello Stato.

S.E. Mons. Alejandro Labaka, Vescovo cattolico di Aguarico (Ecuador) Suor Inés Arango

Il Vescovo Alejandro Labaka nacque in Spagna il 19 aprile 1920, a Beizama, piccolo villaggio dei Paesi Baschi. Frate minore cappuccino, fu parroco a Pifo, Superiore della Custodia dei padri cappuccini in Ecuador; ancora Prefetto e poi Vicario Apostolico della Missione di Aguarico. Spese tutte le sue energie a favore della popolazione amazzonica degli huaorani, chiamati anche acuas. Il 21 luglio 1987 venne colpito a morte, insieme a Suor Inés Arango, anch'essa missionaria cappuccina, dalle lance di coloro ai quali voleva annunciare il Vangelo. Mentre era a Roma nel 1965 per il Concilio Vaticano II, scrisse a Sua Santità Paolo VI: "... ho sentito molto forte dentro di me il mandato di predicare a tutte le genti e specialmente a questi acuas. È iniziata una campagna di avvicinamento ad essi, ma - questa è la mia domanda - fino a che punto posso esporre la vita dei missionari, dei laici e la mia propria propter evangelium?... Beatissimo Padre: se nei disegni di Dio sarà necessario il sacrificio di qualche vita per portare Cristo a queste tribù, vogliate degnarvi di offrirci, insieme con la vittima divina, nella vostra Santa Messa, perché siamo degni di questa grazia e perché possiamo ottenere una benedizione speciale per tutti i missionari e per tutti coloro che ci sono stati affidati". Nel suo diario troviamo scritto: "La società non si vuole preoccupare dei piccoli popoli, ha altri problemi e si dimentica della gente che vive nella giungla. Però noi missionari, dobbiamo credere nel Vangelo, lì troviamo scritto che Gesù lasciò le 99 pecore per cercare una; anche se si è pochi si ha lo stesso valore; Gesù si è preoccupato dei piccoli degli abbandonati. Così dobbiamo fare anche noi"

Andrea Santoro

Don Andrea Santoro, prete romano fidei donum che svolgeva il suo ministero in Turchia, è stato ucciso a Trabzon (Trebisonda, Turchia) domenica 5 febbraio 2006, mentre pregava inginocchiato nella chiesa di Santca Maria. La sua morte ha svelato una vita trascorsa nel nascondimento, ma ricca di un profondo patrimonio spirituale e religioso radicato nella storia di una generazione del clero romano. Andrea Santoro nasce a Priverno (Latina) il 7 settembre 1945. A metà degli anni Cinquanta si trasferisce a Roma con la famiglia, nel popoloso quartiere del Quadraro. Entrato in seminario nel 1958, vive la sua formazione in una stagione caratterizzata dal Concilio Vaticano II. Ordinato sacerdote dall’allora mons. Ugo Poletti, il 18 ottobre 1970, don Andrea diviene viceparroco alla Trasfigurazione, parrocchia del quartiere di Monteverde. Vi rimane dal 1971 al 1980, durante una intensa stagione di sperimentazione. E’ il periodo del convegno “sui mali di Roma”, e per don Andrea sono anni di battaglie e di approfondimento biblico nella realtà sociale. Nel 1980 il card. Ugo Poletti gli chiede di assumere la guida di una parrocchia, ma don Andrea chiede di prendere un periodo sabbatico da passare in Terra Santa. Tornato a Roma il giovane prete chiede al cardinal Poletti di andare in missione in Oriente, ma il cardinale lo invia, nel settembre 1981, in un quartiere in costruzione sulla Tiburtina (Verderocca) dove farà costruire la chiesa intitolata a Gesù di Nazareth, consacrata nel 1988. Nel 1994 un nuovo periodo sabbatico gli consente di guidare gruppi in Medio Oriente in collaborazione con l’Opera Romana Pellegrinaggi. Poi i superiori gli affidano la parrocchia dedicata ai santi martiri Fabiano e Venanzio, nel quartiere Appio. Nel 2000 il Card. Camillo Ruini lo invia come sacerdote fidei donum in Turchia. Don Andrea è al servizio del Vicariato Apostolico dell’Anatolia. La sua prima destinazione è Urfa (l’antica Edessa), città d’antica tradizione, punto di incontro di Cristianesimo, Islam e Ebraismo. Don Santoro intende creare un ponte tra la Chiesa di Roma e le comunità cristiane in Turchia, eredi delle Chiesa dell’Asia Minore. Fonda anche un’associazione, «Finestra per il Medioriente», destinata a coadiuvare la sua missione. Nel 2003 don Andrea viene trasferito a Trabzon, l’antica Trebisonda, nel nord-est del paese, sul Mar Nero per occuparsi di una parrocchia con una popolazione cattolica di meno di dieci persone. A Trabzon don Andrea verifica i disastri seguiti alla caduta del gigante sovietico: la forte emigrazione dai territori dell’ex-URSS in Turchia causata da miseria e disperazione, la misera condizione delle cristiane armene o georgiane costrette alla prostituzione. In Turchia dopo l’11 settembre don Andrea vive su un crinale di crisi del mondo in una stagione segnata da cambiamenti profondi. Il 5 febbraio 2006 viene ucciso con due colpi di pistola alla schiena mentre prega in ginocchio nell’ultimo banco della sua chiesa. La sua è una vicenda umana che incarna l’esperienza di una generazione di cattolici romani che si è nutrita della Bibbia, ha appreso la lezione del Concilio Vaticano II, ha imparato a guardare all’Oriente come ad una sorgente di rinnovamento della fede.

Robin Lindsay, Francis Tofi, Alfred Hill, Ini Paratabatu, Patteson Gatu, Tony Sirihi e Nathaniel Sado

Dalla fine degli anni ‘90 le isole Salomone sono state colpite da una guerra civile tra gli abitanti dell’Isola di Guadalcanal e i coloni provenienti dall’Isola di Malaita. Durante il conflitto, molte comunità religiose aprirono le loro case come santuari per chi aveva bisogno. Tra queste si segnala l’ordine religioso anglicano Melanesian Brotherhood. Essi vanno a due a due nei villaggi comunicando il Vangelo e aiutando i poveri e i malati. Come i pellegrini hanno i fianchi cinti da una fascia e tengono un bastone nella mano destra. Un medaglione al collo, con l’immagine del Cristo, ricorda loro di chi sono servi. In occasione del conflitto i Fratelli Melanesiani si accamparono tra le linee nemiche pregando con le fazioni opposte, chiedendo, nel nome di Dio, di non oltrepassare le barricate e negoziando il rilascio degli ostaggi. La basilica di San Bartolomeo conserva alcuni oggetti (bastone, cintura e medaglione) appartenuti a sette di loro: Robin Lindsay, Francis Tofi, Alfred Hill, Ini Paratabatu, Patteson Gatu, Tony Sirihi e Nathaniel Sado. Essi hanno pagato con la vita nel 2003 il loro lavoro per la pace, avendo scelto di non identificarsi con un’isola o una tribù, ma di servire il Vangelo. Nell’aprile del 2003, sei Fratelli Melanesiani partirono in canoa da Honiara verso la Weather Coast. Volevano riportare a casa il corpo Nathaniel Sado scomparso durante una missione. Il confratello doveva consegnare una lettera a uno dei locali signori della guerra, Harold Keke, da parte dell’arcivescovo anglicano della Melanesia che tentava di aprire un dialogo di pace. Durante tutto il tempo in cui si credeva che i religiosi potessero ancora essere vivi, la comunità pregava tutte le notti, facendo turni di veglia nella cappella. Solo dopo molti mesi si è saputo che i religiosi furono uccisi dalle milizie di Keke al loro arrivo, dopo essere sbarcati sulla spiaggia. L’8 agosto, confermando l’avvenuta uccisione dei fratelli, Keke proclamò la resa incondizionata e il cessate il fuoco.