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IX Meeting
Internazionale Uomini e Religioni |
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DIECI ANNI DI "UOMINI E RELIGIONI" Prof. Alessandro Zuccari - Comunità di Sant'Egidio Nel ripercorrere, dopo un decennio, l'itinerario compiuto dall'Associazione Uomini e Religioni, promossa dalla Comunità di S. Egidio, non siamo spinti da esigenze di autocelebrazione: non è nel nostro stile. Guardando indietro al periodo che è trascorso dalla preghiera mondiale per la pace, convocata da Giovanni Paolo II ad Assisi il 27 ottobre 1986, ci si accorge che il breve itinerario è, al tempo stesso, denso di incontri ricchi e di tappe di grande significato. Come è stato sottolineato in varie occasioni, l'incontro di Assisi 1986 ha avuto il "genio" di raccogliere tante ansie, tanti sforzi di dialogo, spesso pionieristici, in un'unica e semplice realt&grve;: stare gli uni vicino agli altri, malgrado le notevoli differenze, per pregare e chiedere la pace a Colui che può, concederla, nonostante la volontà di guerra degli uomini. Una preghiera senza commistioni sincretistiche ma rispettosa delle diversitè, volle significare la comune convinzione che dalla fede religiosa si possono sprigionare energie di pace. Nel 1986 lo scenario internationale era ancora diviso in due blocchi contrapposti, e sembrava che solo le due grandi potenze fossero in grade di sciogliere i conflitti o di provocarli, in definitiva di dare la pace o di minacciarla seriamente. Il resto sembrava - come si diceva - una sovrastruttura, rispetto alla struttura di fondo che era la realtà di potenza dei due imperi. Ad Assisi si creava una sinergia tra due percorsi paralleli: quello del dialogo interreligioso e quello dell'impegno dei credenti per la pace. Diceva Giovanni Paolo II nel suo discorso conclusivo sulla piazza di S. Francesco: "Forse mai come prima nella storia dell'umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace... la preghiera e già in se stessa azione, ma ciò non ci esime dalle azioni al servizio della pace". E proseguiva: "insieme abbiamo riempito i nostri occhi di visioni di pace: esse sprigionano energie per un nuovo linguaggio di pace, per nuovi gesti di pace, gesti che spezzeranno le catene fatali delle divisioni ereditate dalla storia o generate dalle moderne ideologie. La pace attende i suoi artefici..." Dunque Assisi - e l'immagine nuova che ne è scaturita, come l'icona di un futuro realizzabile - rappresenta un punto di arrivo di tanti percorsi di dialogo. Anche rispetto alla Nostra Aetate,il documento conciliare sul dialogo interreligioso, Assisi rappresenta una recezione creativa: la parola del Concilio, cioè, è stata accolta in maniera creativa. E non solo per la Chiesa cattolica, ma per le altre Chiese cristiane e per le altre religioni. Così quell'ottobre 1986 è stato anche un punto di partenza per una stagione nuova di solidarietà tra culture e popoli diversi e di impegno nel dialogo interreligioso. Questo dialogo aveva conosciuto una stagione feconda, ma non erano mancate espressioni di stanchezza e di incomprensione. Assisi lo rilanciava in una maniera semplice ma significativa. Assisi non poteva restare un evento isolate, non si poteva perdere un'occasione cosi propizia di dialoge tra le religioni e di ricerca della pace. Per questo la Comunità di S. Egidio raccolse l'esigenza di continuare quel cammino. Neli'agosto 1987 Andrea Riccardi si convinse - e comunicò ad alcuni amici - che Assisi non doveva restare un fatto isolato. Fu fatto un breve sondaggio tra amici appartenenti a diverse tradizioni religiose che mostrarono grande interesse. Nello stesso mese c'era stata anche l'esperienza della riunione di preghiera a Kyoto, sul monte Hiei, a cui partecipò una delegazione di S. Egidio. Così Uomini e Religioni ha voluto ripercorrere lo spirito di Assisi nel sue primo anniversario, invitando a Roma numerosi rappresentanti delle grandi religioni mondiali. La preghiera alla radice della pace, ii tema del primo meeting, è stata occasione propizia per chiarire che i credenti, andando al fondo della propria fede secondo gli insegnamenti della lore tradizione religiesa, scoprono dentro di loro e nella lore esperienza di fede la struttura fondamentale del "pacifico", e la preghiera è il momento privilegiato di questa scoperta. "Le religioni non vogliono la guerra, ma la pace - dichiarava l'appello finale, firmato nel memento conclusive sulla piazza di S. Maria in Trastevere - E' questo il messaggio che ci impegnamo a mettere in luce con rinnovato vigore, ricordando agli uomini ed aile donne del nostro tempo che Dio vuole la pace. Sentiamo come assurdo parlare di guerra in nome della religione e ribadiamo con forza: la parola religione sia pace!... in questo spirito mettiamo la preghiera alla radice della pace". La preghiera e l'impegno dei credenti, dunque, sono stati riproposti come energie capaci di bonificare quel terreno di ostilità che può favorire lo sviluppo dei conflitti. Era nata l'idea di un appuntamento annuale, favorito dai legami di amicizia che si erano creati tra i capi religiosi convenuti ad Assisi e a Roma. Gli incontri non avevano voluto essere un convegno tra intellettuali particolarmente favorevoli all'incontro tra le religioni. Non perchè disprezzassero queste posizioni, ma perchè era essenziale che fossero un fatto dei fedeli, espresso da loro stessi - gente semplice - e dai loro responsabili. I due primi incontri furono - nel 1987 e nel 1988 - a Roma, in quel Trastevere che è segnato dalla presenza religiosa della Comunità di S.Egidio, sulle rive del Tevere. Non c'era stata l'idea da parte di nessuna realtà religiosa di continuare questi incontri nella propria città. I partecipanti ad entrambi i meetings furono ricevuti da Giovanni Paolo II, che ha continuato a seguire questo cammino. Nel settembre 1990, il meeting di Bari, Tra Oriente e Occidente: un mare di pace, si colloca in questo clima, mentre si era aperta la crisi che porterà alla guerra del Golfo. Per la prima volta si pensò di far precedere due giorni di studio alla giornata di preghiera, svoltasi con la consueta formula rispettosa dei diversi itinerari di invocazione. Non un congresso di specialisti delle religioni, non un convegno di studi sulla pace, ma una riflessione condotta da esponenti di diverse tradizioni religiose che rappresentano un vissuto ricco e particolare. Ciascuno spiegava ad altri la propria tradizione religiosa. Ciascuno aiutava gli altri a capire come le grandi religioni si collocano di fronte al grandi interrogativi del mondo nel nuovo scenario appena profilatosi. Tra i vari contributi, ricordo quello particolarmente significativo di mons. Pietro Rossano, che con grande passione sosteneva e incoraggiava ii lavoro di Uomini e Religioni. Le religioni non hanno una forza paragonabile a quella delle formazioni politiche degli Stati ma - osservava con finezza mons. Rossano - hanno una "forza debole", e nella loro debolezza (che consiste talvolta nel non appiattirsi sul potere politico) si manifesta la lore forza reale: "Si tratta di una forza spirituale che mira a trasformare I'uomo dal di dentro, e a renderlo giusto e misericordioso. E' una forza radicalmente diversa da quella delle armi". Questa riflessione incoraggia a valersi della forza pacifica delle religioni, della lore aspirazione universale, del lore sense dell'uomo che sorpassa i confini circoscritti, nel riconoscimento di un destine comune degli uomini e delle donne di ogni parte del mondo. Ne nasceva la preoccupazione di rispondere a un grande interrogative: come tradurre questo messaggio in un mondo dove le frontiere, le identità nazionali, acquistano una importanza sempre maggiore? Quale il compito di pace proprio delle religioni in un mondo uscito dalla guerra fredda? Ma c'è, stato un giorno nel quale gli americani quasi se ne andarono e al loro posto arrivarono i caschi blu dell'ONU. Molte televisioni se ne andarono e con queste la Somalia cominciò a cadere come notizia. Dope se ne andarono anche i caschi blu e di colpo la Somalia spari. La guerra continua, le uccisioni, la fame, però il conflitto sparito dagli schermi televisivi e dal giornali di quasi tutto il mondo. Forse l'unica eccezione l'Italia, l'unico paese occidentale per il quale la Somalia è qualcosa di più che un altro di questi incomprensibili paesi africani. Questo ci riporta di nuovo al tema della vicinanza e dei personaggi che si trasformano in simbolo un esempio molto spagnolo: la Guinea Equatoriale. Molti di voi, e con questo non vi chiamo ignoranti, forse non sanno neanche che esiste un piccolo paese antica colonia spagnola con una parte continentale ed un altra isolana, nel quale un dittatore state precipitate da un dirupo e ucciso da un altro dittatore senza remore nell'uso della repressione per succedergli al potere. Perchè è una delle tre Guinee, c'è anche una Guinea Conakry e una Guinea Bissau . Ebbene negli ultimi mesi la stampa spagnola , specialmente El Pais, ha dedicate fiumi di inchiostro alla vicenda politica di un leader guineano dirigente del partite d'opposizione delo Congresso, Severe Mote. Mote è stato incarcerato con l'accusa di colpo di stato e condannato a trenta anni in un infausto carcere, Black Beach. E da quel memento la Spagna e la stampa si sono dedicate a cercare di farlo uscire dalla prigione, informando senza sosta sulla sua situazione fine a che ci siamo riusciti. Uscì il 3 di agosto. Curiosamente dopo che fu liberato e si trovò sano e salvo in Spagna El Pais tirava fuori un' informazione in esclusiva nella quale assicurava su basi solide che effettivamente Mote aveva organizzato un colpo di state. Speravamo che la sua vita non corresse pericolo ma questo non servì a discolparci dall'aver pubblicato un'informazione (che chiaramente Mete smentì) che beneficiava il regime. Si arrivò addirittura ad accusarci di far parte di una cospirazione insieme al governo spagnolo . Ma questo ci condurrebbe ad un'altra polemica interminabile: se la stampa deve pubblicare le informazioni contrastanti che possiede senza tener conto delle conseguenze che ciò possa provocare. Questo potrebbe oggetto di un prossimo dibattito. Cè un- guerra della quale El Pais ha un'esperienza molto
singolare. E' quella d'Algeria, tanto vicina al cuore della
comunità di S. Egidio.
In Algeria abbiamo da anni un unico corrispondente occidentale
praticamente fisso: il corrispondente dal Magreb
che su dodici mesi ne trascorre otto in Algeria, ci ha potuto
informare e anche essere testimone di alcuni dei più drammatici
episodi di una contesa fratricida e come tutte le guerre tra
fratelli, le guerre civili, particolarmente crudele.
Secondo me l'Algeria attualmente il paese più pericoloso del
mondo per un giornalista straniero. E' obbiettivo militare dei
gruppi estremisti islamici per due motivi: per il fatto di essere
straniero e per il fatto di essere giornalista. La vita di Ferran
Sales ad Algeri, una vita formata da molte ore di
reclusione e da molte altre trascorse per le strade o in giro per
il paese con molto rischio. In Bosnia, in Afghanistan possono
mettere una pallottola in corpo o ti può raggiungere una
sventagliata di mitragliatore. In Algeria invece un commando
assassino ti può segnare con la "x" mortale e non importa se
scrivi o no con obbiettività. Se qualcuno ne El Pais che
assomiglia ad un eroe, questo Ferran Sales. Ma siccome io lo
conosco bene so che non è un eroe ma uno di questi "matti buoni"
che spesso si incontrano
nella mia professione . Poco tempo fa gli hanno date un premio
importante per il giornalismo di 15 milioni di lire che egli ha
donato ad un'organizzazione algerina per la difesa dei diritti
umani. Il suo coinvolgimento con l'Algeria non è solo
giornalistico ma personale. Vuole un Algeria in pace. Come riesca
nonostante tutto a mantenere l'equilibrio e l'obbiettività,
nonostante le pressioni di ogni tipo che riceve, è per me quasi un
miracolo. Però ci riesce.
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