Comunità di S.Egidio


Barcellona, 15 maggio 2001
Intervento di ANDREA RICCARDI
Alla Cerimonia di consegna del
XIII PREMIO CATALOGNA - 2001

       

  


Sono molto grato al Jury del Premio Internazionale Catalogna, al suo Presidente, l'onorevole Jordi Pujol, al presidente delegato, Baltasar Porcel, e a tutti i membri per l'onore che mi fanno concedendomi questo alto riconoscimento rivolto alla mia attivit� e a quella della Comunit� di Sant'Egidio. E' un Premio catalano ed allo stesso tempo � un Premio internazionale, espressione della proiezione internazionale della Catalogna, come si vede dalla stessa lista dei premiati. Del resto la Catalogna rappresenta per noi gente del Mediterraneo un polo di grande rilievo per la costruzione di nuovi rapporti nella comunit� internazionale. E' una nazione che, attraverso un percorso difficile, ha saputo affermare la sua identit� con tenacia di fronte a pressioni omologanti. L'affermazione di questa identit� non � avvenuta alzando muri, ma al contrario costruendo un plesso di relazioni tra Europa, Mediterraneo e mondo intero. La Catalogna rappresenta un'identit� mediterranea ben figurata, capace di stimolare un'apertura a altri mondi, perch� inserita in differenti contesti internazionali con un atteggiamento aperto, ma allo stesso tempo consapevole di s�. 

Questo Premio internazionale si inserisce in questa apertura catalana. Sono lieto di riceverlo. Anche perch� la Comunit� di Sant'Egidio sente, nella sua peculiare identit�, una connaturalit� con lo stile di vita catalano e le sue aperture; sente una simpatia per la cultura di questo Paese, tanto che esiste pi� di una Comunit� di Sant'Egidio catalana, anzi di Sant Gil. D'altra parte il Premio conferitomi manifesta simpatia e sostegno per il modo di vedere il mondo e di viverlo della Comunit� di Sant'Egidio, che onora me, le nostre Comunit� in Catalogna e negli altri Paesi.

Infatti, onorevole presidente, illustre Jury, cari amici, un grande problema del mondo contemporaneo, di quello che viene chiamato il mondo globalizzato, sta proprio nel rapporto con le differenti identit�, quelle della propria nazione, etnia, del proprio gruppo religioso o sociale, di fronte a un orizzonte che si allarga e che si fa invadente nella vita quotidiana. Il disagio, la paura, la rivolta, l'estraneit�, a un mondo troppo grande, ai suoi simboli e alle sue istituzioni, sono spesso sfociati nel fondamentalismo delle identit�. Gli anni Novanta sono stati punteggiati da una serie preoccupanti di esplosioni fondamentaliste, tanto da divenire in fantasma che aleggia nelle cancellerie.

Quando si parla di fondamentalismi si pensa subito, quasi per corto circuito, all'islam. La Comunit� di Sant'Egidio segue con dolore -lo dico per inciso- la situazione algerina con i suoi 100.000 morti in meno di dieci anni segnati dalle pi� inaudite violenze, all'ombra della cultura della morte. Tra il 1994 e il 1995 lanciammo da Roma l'idea di una piattaforma di dialogo per rafforzare la democrazia, marginalizzare i violenti, garantire i diritti umani di parte cospicua della popolazione. Allora il potere algerino accolse con freddezza questo passo ed era tardi cambiare linea, quando fu eletto Buouteflika e fu avviata una politica di riconciliazione. I fondamentalismi islamici sono una reazione identitaria al vuoto aperto dalla crisi del nazionalismo arabo ed alla caduta dei sogni liberazionisti di marca marxista: diffusi tra studenti e diseredati sembravano offrire una grammatica di lotta e di resistenza in nome della tradizione musulmana ai dannati delle citt� islamiche di fronte all'Occidente vincitore e, soprattutto, nello scontro con le classi dirigenti laicizzate e talvolta corrotte. 

La logica da tunnel, tipica della violenza armata, ha perpetuato e radicalizzato questi fondamentalismi. Ma non sono gli unici. Altri si ritrovano nel mondo ebraico, in quello cristiano e in India e altrove. In nome della religione, si difende l'identit�. Anzi spesso le religioni sono utilizzate per santificare l'etnia, per proteggere la nazione, richiamando alla memoria storie antiche, torti secolari, per fondare vittimismi collettivi e rivendicazionismi assoluti. Lo abbiamo visto negli anni Novanta proprio nei Balcani e nelle regioni della ex Jugoslavia. L� in quell'intrico tra nazione e religione, tra epica e bruciante attualit�, tra onore nazionale e interesse di gruppo, la Comunit� di Sant'Egidio (che ha operato in Kossovo e in Albania) ha sentito come la vera pace abbia bisogno di tanto e approfondito dialogo e non di chirurgia militare. 

Anche nella nostra Europa non mancano reazioni simili ai fondamentalismi in difesa della terra, dell'etnia, alzando muri fatti di diffidenza e di passioni xenofobe, sacralizzando la terra e il gruppo. E' un fenomeno che va capito con attenzione nei suoi contorni e nella sua forza di attrazione. Il mestiere di storico mi ha insegnato prima di tutto ad uno sforzo di comprensione di fronte ai fenomeni: "una parola -scriveva Marc Bloch- per dire tutto, domina e illumina i nostri studi: 'comprendere" [01] . Da dove vengono le reazioni europee di fondamentalismo etnico? Sono quelle attorno alle Alpi, a Sud e a Nord, tra leghismo e nazionalismo di Haider, neonazismo tedesco. Spesso il culto della terra e dell'etnia degenera in questo tipo di fondamentalismo, quando un'identit� non � pensata nelle sue relazioni, ma come una radice di un mondo chiuso. Scrive con intelligenza una studiosa italiana, Silvia Albertazzi: "Alla monolitica identit�-radice, granitica e inattaccabile, bisogna contrapporre un'identit�-relazione, radicata in contesti molteplici e anche molto diversi tra loro�" [02] . 

Benjamin Barber, qualche anno fa, scriveva: a McWorld risponde Djihad, alla mondializzazione replica l'integrismo [03]. Lo storico comprende l'aspetto dirompente dell'impatto della globalizzazione con le differenti di identit� locali, quelle religiose che si sentono attaccate dalla secolarizzazione, quelle politiche, come gli Stati, che spesso si trovano poco rilevanti di fronte ai grandi interessi e ai grandi flussi economici. Eppure non � con gli integrismi che si modifica il corso della storia. E gli integrismi sono un terreno di cultura della violenza. D'altra parte c'� bisogno di identit� forti, di iniziative, di soggetti culturali in un mondo divenuto tanto grande. Nel quadro internazionale, un'unica potenza imperiale, quella degli Stati Uniti, lascia tanti vuoti, ed � tentata di ritirarsi. Si giunge al paradosso di temere quest'unica potenza e il suo predominio, ma anche di invocarla sempre pi� spesso in situazioni difficili.

Il mondo contemporaneo ha bisogno di soggetti nuovi e forti. C'� qui la storia di molteplici identit�, che non alzino muri, i muri della propria difesa, ma che costruiscano invece ponti. E' la vicenda secolare del nostro Mediterraneo, che ha unito soggetti, societ� e civilt� diverse, perch� il mare univa, mentre le montagne dividono. Ma le identit� e le soggettivit� hanno bisogno di cultura, di tradizione, di iniziativa. Per questo ho parlato del soggetto-Catalogna nelle relazioni europee e mediterranee, un soggetto che la politologia di mezzo secolo fa non aveva le categorie per classificare. Si potrebbe parlare della storia delle grandi religioni, che subiscono l'attrazione fatale e comoda delle identit� etniche in cerca di legittimazione. Ma tali religioni hanno nei loro cromosomi un messaggio universalistico, in cui si parla -seppur in modi e con teologie differenti- dell'amore di Dio per tutti gli uomini.

Illusioni? Sogni? L'universalismo delle religioni sarebbe un sogno, come sarebbe un'illusione l'identit� aperta. Certo sono sogni. I sogni possono consolare, giustificare l'impotenza, allietare la pigrizia. Ma i sogni sono mobilitatori di grandi passioni e di grandi costruzioni. La nostra generazione, che ha preso le mosse nel 1968, l'anno in cui � nata la Comunit� di Sant'Egidio, ha ancora scolpite quelle parole di Martin Luther King: "ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni potranno sedersi insieme alla tavola della fraternit�". Non � un topos retorico della seconda met� del Novecento: la lotta di King si connette, come sappiamo, alla lezione di Gandhi che � all'origine della pi� grande e solida democrazia asiatica, l'India, e a sua volta si ritrova nell'opera politica di Nelson Mandela, l'architrave della pi� significativa transizione in Africa verso la democrazia, quella del Sud Africa.

Il sogno, se vissuto da uomini e donne generosi, costruisce percorsi diversi. La Comunit� di Sant'Egidio ha avuto un sogno, sino dagli anni Sessanta, quello di un mondo meno ferito e sofferente, quello della solidariet� vissuto nelle periferie povere di Roma e oggi in circa quaranta paesi del mondo. Ha avuto un sogno, quello del dialogo per raggiungere il mutuo rispetto, la collaborazione e, soprattutto, la pace. E' quel sogno che, dopo due anni di dialogo assai difficile, nel 1992, si � realizzato a Roma con l'accordo generale di pace tra governo e guerriglia in Mozambico che ha posto fino a un sanguinoso conflitto che ha prodotto pi� di un milione di morti. Spesso in una cultura pigra e provinciale, frutto di una vita ricca e non inquietata, noi ci inibiamo il sogno della pace. La nostra esperienza di Sant'Egidio ci dice che tanti soggetti possono lavorare per la pace nel mondo contemporaneo. 

Il nostro sogno si � sempre nutrito delle pagine del Vangelo, di una fede che suscita amore e intelligenza d'amore. Sant'Egidio � una fraternit� di Comunit� in Italia, Spagna, Europa, Africa, in quaranta Paesi del mondo: un piccolo popolo di credenti, non etnico, che vive la solidariet�, che lavora per la pace nel dialogo. 

Di fronte alla realt� e agli scenari del XXI secolo, il dialogo � decisivo, il dialogo tra le religioni, di cui sono un sostenitore convinto, nasce -per me- dal mio stesso essere cristiano. Il dialogo non � affermare che le religioni sono tutte uguali, perch� non � vero anche da un punto di vista fenomenologico ma anche teologico: diverso � il loro rapporto con la societ�, diverso � il loro discorso su Dio, diverso � il loro modo di pensarsi. Per me cristiano, il dialogo nasce dal comandamento evangelico dell'amore. In un mondo in cui le genti si mischiano, le comunit� religiose convivono insieme, le lingue e le culture si intersecano, il dialogo � un modo intelligente di vivere l'amore: dialogo della strada, dialogo dello scambio, dialogo dell'amicizia, dialogo della cultura. Penso al sogno mediterraneo del maiorchino, Raimondo Lullo, che comprese il valore della riconciliazione tra l'Oriente e l'Occidente, ma anche il dialogo tra le religioni abramitiche. Al termine del suo dialogo tra i tre savi (l'ebreo, il cristiano e il musulmano) e il gentile, quest'ultimo era talmente consolato che "si trov� a riflettere ed a constatare di non piangere pi�, come prima, invece, era sua consuetudine" [04]. Il dialogo pu� asciugare anche le lacrime. Aiuta certo la convivenza di gente diversa e prosciuga le cause dei conflitti. 

Ma il dialogo non � solo tra credenti per noi europei: il variegato ma interconnesso filone di pensiero laico non � estraneo al cristiano, anche se talvolta � stato in conflitto con il cristianesimo. Il grande filosofo italiano, Benedetto Croce, laico e liberale, scriveva un opuscolo dal titolo Perch� non possiamo non dirci "cristiani" [05], insistendo sul fatto che il cristianesimo � un'eredit� storica comune a credenti e non credenti europei. Ebbene io credo che noi cristiani non possiamo non dirci laici. Per questo nei nostri incontri annuali tra credenti sulla scia dello spirito di Assisi, anno dopo anno (e quest'anno a settembre a Barcellona), si incontrano insieme cristiani di tutte le confessioni, ebrei, musulmani e laici. Il dialogo con i laici � dialogo con una parte significativa della nostra civilt�. Anche perch� -mi sia concesso di dirlo senza alcun disprezzo- spesso credenti e laici sono una minoranza nelle nostre societ�. E le societ�, dalle convinzioni superficiali e dalla poca cultura, hanno purtroppo una paura oscura dell'altro. Lo si vede con gli immigrati.

Il tema dell'immigrazione sta diventando nelle nostre societ� una grave e dibattuta questione. Abbiamo bisogno di immigrati, anche per l'invecchiamento della nostra popolazione e per esigenze economiche. Ma, allo stesso tempo, siamo percorsi dalla preoccupazione di smarrire la nostra identit� e di condannarci a convivenze impossibili. Ma l'immigrazione non � un rubinetto che si pu� aprire e chiudere secondo i nostri umori e i nostri bisogni. Alle sue spalle c'� la spinta del grande Sud, quella che il grande storico francese, Jean Baptiste Duroselle, chiamava l'"invasione", paragonandola agli spostamenti delle popolazioni barbariche del Nord Europa dentro i confini dell'impero romano [06]. Una corretta gestione dell'immigrazione impone uno sguardo verso in Sud e in particolare verso l'Africa subsahariana dove -tra instabilit� e sovrappopolazione- si sta accumulando un potenziale migratorio di grande pressione. 

Vengo da un periodo in cui ho molto viaggiato in Africa, dove Sant'Egidio � presente con Comunit� in pi� di venti Paesi. Sono consapevole della diversit� delle tante culture africane: tante differenze etniche, religiose, politiche, antropologiche� Ma mi chiedo se l'Africa subashariana non faccia parte della stessa nostra civilt� occidentale, per utilizzare la discutibile ma importante distinzione fatta da Samuel Huntington tra le grandi civilt� del mondo [07]. Questo autore osserva come l'Africa si stia de-occidentalizzando, ma in realt� sono gli occidentali che si ritirano da un continente in crisi. E' una crisi politica e economica, ma anche di identit�. L'africa cerca se stessa: l'uomo africano, cerca se stesso tra un passato che non � pi� il suo e un futuro che non gli appartiene. Il poeta malgascio, Jean-Joseph Rabearivelo, scriveva: 

"Qui donc me donnera de pouvoir fiancer
l'esprit des mes aieux et ma langue adoptive? "
[08]

Sant'Egidio � una Comunit� con forti radici in Africa. Sono convinto d'altronde che l'Africa � parte della nostra civilt�, non in una prospettiva colonialista, ma di ripensamento dei rapporti Nord e Sud. L'Africa � anche una frontiera del futuro della nostra Europa, forse anche dal punto di vista demografico. La nostra � una grande civilt� meticcia, ricca di differenti identit�, che abbraccia l'Europa, scorre nel Mediterraneo, si incontra con l'America Latina e l'Africa. Se anche Edward Said da una parte e Manuel V�squez Montalb�n dall'altra avvertono che il meticciato � talvolta una forma di oppressione culturale, le terre e le civilt� meticcie sono immense e ci invitano a scoprirle come lidi del futuro [09]. Il meticciato non nega l'identit�, ma la colloca su di un tessuto vasto e plurale, tutt'altro che espressione di una globalizzazione schiacciante. 

Qui ritorno a quanto dicevo della Catalogna. Ci troviamo, quando si parla della Catalogna, innanzi a un'identit�, ma un'identit� ricca di relazioni e sintesi di apporti diversi di civilt�. Siamo lontani dal fondamentalismo dell'identit�, granitico e inattaccabile, che esclude, che teme gli innesti, che preserva la purezza. E' quella "puret� dangereuse", di cui parla Bernard-Henri L�vy, un pensatore con cui non sono sempre d'accordo, ma che fa una riflessione importante sulla sete di purezza nel mondo contemporaneo e di eliminazione dell'altro che potrebbe contaminare [10]. E' la purezza che fa l'orgoglio degli integristi e dei fondamentalisti, che sorregge il disprezzo dei diversi, dei deboli, dei peccatori.

Ma la predicazione cristiana, lungo le rive del Mediterraneo, ci ha liberato da quella purezza pericolosa, tentazione ricorrente di ogni religione e di ogni gruppo umano. Dice Ges�: "Voi farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno � pieno di rapina e di iniquit�. Stolti! Colui che ha fatto l'esterno non ha forse fatto l'interno? Piuttosto date in elemosina quel che c'� dentro, ed ecco tutto per voi sar� puro" [11]. E' l'espressione del valore dell'uomo interiore, tanto diverso dalle purezze esteriori, fossero quelle della razza, dell'etnia, della nazione, del formalismo.

Trent'anni di lavoro con i poveri, sulle frontiere degli esclusi, trent'anni della Comunit� di Sant'Egidio, mi hanno insegnato a sporcarsi -se posso usare questo termine- con i marginali, gli ultimi, la gente in situazione difficile. La lotta per la pace insegna a stringere mani che talvolta sembrano o sono sporche, per lavorare al loro disarmo. Anzi, come diceva scherzando il mio amico Cornelio Sommaruga, responsabile del Comitato della Croce Rossa Internazionale, un buon mediatore si deve lavare le mani pi� volte al giorno. E' lo sporcarsi nella complessit� della storia. Perch�, alla fine crediamo, che la purezza sia quella del cuore, quella della coscienza. 

Queste riflessioni nascono da una storia. E' la mia storia che si confonde con quella della Comunit� di Sant'Egidio: una Comunit� di donne e di uomini, di cristiani, che ha sentito di dover essere un soggetto responsabile di fronte al mondo degli esclusi, di fronte a quelli che appartengono ad altri mondi e civilt�, di fronte a quelli che soffrono e si combattono. In questa prospettiva affrontiamo il nostro lavoro, forti delle nostre convinzioni, radicati in un sogno di umanit� migliore, sostenuti dalla nostra capacit� di dialogare e di amare e anche sorretti dai nostri amici. Grazie, cari amici, per averci voluto sostenere anche con il conferimento del Premio Internazionale Catalogna.

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[01] M.Bloch, Apologie pour l'histoire ou m�tier d'historien, Paris 1961, p.72.
[02] S.Albertazzi, Lo sguardo dell'altro, Roma 2000, pp.84-85.
[03] B.J.Barber, Jihad versus McWorld, New York, 1995. 
[04] R.Lullo, Il Libro del Gentile e dei tre Savi, a cura di M.Candellero, Torino 1986, p. 249.
[05] B.Croce, Perch� non possiamo non dirci "cristiani, in "La Critica", 20 novembre 1942, pp.289-297.
[06] J.B.Duroselle
[07] S.P.Hungtington, Lo scontro delle civilt�, Milano 1997. 
[08] Testo citato in J.Chevrier, La litt�rature n�gre, Paris 1999, p.86. 
[09] M.V�sques Montalb�n, Marcos, il signore degli specchi, Milano 1999. 
[10] B. H. L�vy, La puret� dangereuse, Paris 1994.
[11] Luca, 11, 40-41.