Comunità di S.Egidio


 

30/08/1997


Di animo Nobel
Orizzonti: chiesa e societ�. Viaggio nella Comunit� di Sant'Egidio

 

Che cosa hanno in comune Michail Gorbaciov, il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, il presidente dei rabbini europei Ren� Samuel Sirat, madre Teresa di Calcutta, i dotti professori dell'universit� islamica di Rabat e quelli dell'ateneo del Sacro Cuore di Washington?

Tutti loro vogliono che la Comunit� di Sant'Egidio ottenga il premio Nobel per la pace. E lo hanno formalmente richiesto ai professori dell'accademia di Stoccolma, che per la seconda volta in due anni hanno inserito la candidatura della Comunit�, che porta il nome del vecchio convento del quartiere romano di Trastevere dove � nata, nella rosa dei premiabili. In autunno la scelta finale.

Il motivo di tanto interesse? L'intensa attivit� diplomatica che Sant'Egidio ha svolto in questi anni. Con risultati che vanno dall'accordo di pace firmato tra il governo mozambicano e i guerriglieri della Renamo, all'impegno di rispettare il risultato delle elezioni siglato solo due mesi fa da tutti i partiti albanesi. Ma Sant'Egidio non significa solo diplomazia parallela. Questa Comunit� di 15 mila persone, in gran parte romane, fa molto di pi�. I suoi aderenti sono un miscuglio di ex sessantottini leggermente incanutiti, preti, parrocchiani di borgata, professori, professionisti e operai. E questa � la cronaca di un viaggio compiuto in mezzo a loro.

L'appuntamento con i barboni.
Il suo primo barbone la Comunit� di Sant'Egidio lo ha incontrato sulle pagine di un giornale. Si chiamava Al� Giama, era un somalo che dormiva la notte sotto gli archi della Piazzetta della pace a Roma. E proprio l�, in una gruppo di giovanotti agiati in cerca di divertimenti estremi. Poi � arrivata Modesta. Viveva per strada intorno alla Stazione Termini. E per strada si sent� male, ma gli infermieri che la dovevano soccorrere non la fecero salire sull'ambulanza. Aveva i pidocchi. Cos�, per strada, � morta. Al� e Modesta, due nomi e due foto tessera in cronaca.

Nessuno della Comunit� ne aveva mai sentito parlare prima, eppure furono queste due storie a squarciare il velo e a far ricordare a quei ragazzi romani che da qualche anno frequentavano le borgate per dare una mano ai baraccati che c'era tutto un popolo "invisibile", gente che non poteva permettersi nemmeno due lamiere per tetto. "Volevamo capirne qualcosa di pi�, allora, per prima cosa, andammo a cercarli", racconta Guglielmo, professore alle scuole medie, barba e fisico da frate Tuck, uno dei fedeli compagni di Robin Hood. E ci vanno ancora.

L'appuntamento per il "giro" � fissato per il marted� alle venti, di fronte alla mensa dei poveri (ma d'inverno si replica ogni sera). Arrivano tutti alla spicciolata. Una trentina di volontari, armati di panini, bibite e thermos pieni di t� e caff�. Si preparano i gruppi: chi batter� la stazione Termini e le vie limitrofe, chi l'Ostiense, chi Colle Oppio e il Colosseo, qualcun altro andr� a San Pietro, via Cola di Rienzo e sulla via Olimpica.

Con Guglielmo e altri cinque partiamo per la Stazione Tiburtina. Arriviamo che sono da poco passate le nove. Il via vai dei passeggeri si � gi� diradato. Siamo attesi da un gruppetto di clochard. Saluti, pacche sulle spalle. Tutti conoscono tutti. Comincia la distribuzione che poi prosegue a lato della stazione, sotto i ponti della tangenziale est. L� vive il grosso della Comunit� dei barboni. Si sono sistemati con vecchi materassi e divani sfondati. Ci accolgono nel salotto buono. Si chiacchiera un po'. "Vedi", spiega Guglielmo, "parlare � importantissimo. Li aiuta a ritrovare un contatto con il mondo esterno. Uno finisce per strada perch� ha gi� dei problemi. Alcolismo, droga, malattie mentali. E quando diventa un barbone l'emarginazione � completa. Svaniscono tutte le relazioni sociali e si entra in un universo autistico". Qualcuno riescono anche a levarlo di strada. "Sono pochi casi, � vero, ma ce ne sono. E anche questo ti aiuta a continuare", conclude Guglielmo, mentre risaliamo in macchina per tornare a casa. � quasi mezzanotte.

Il palazzo dei poveri.
Quando Guglielmo e i suoi amici cominciarono ad andare nelle strade alla ricerca di barboni da accudire, con loro c'era anche Daniela. Di mestiere assistente sociale, come tanti fra i ragazzi di Sant'Egidio, nei suoi pellegrinaggi intorno alle stazioni ogni tanto incrociava donne di colore, vestite di bianco dalla testa ai piedi. Erano le prime ragazze eritree scappate dalla guerra e arrivate in Italia per fare le donne di servizio. Poi arrivarono le etiopi, seguite a loro volta dalle donne di Capoverde. Di l� la decisione della Comunit� di dar vita, nei primi anni Ottanta, al Centro di accoglienza.

Siamo seduti ad un tavolo della mensa, nel grande magazzino di via Dandolo 10, dove, in un tempo ormai lontano, c'erano la redazione e la tipografia del quotidiano Lotta continua. � marted�, giorno in cui non si distribuiscono i pasti. Il salone si � trasformato in un grande ufficio per il disbrigo di pratiche urgenti. A ogni tavolo, un volontario trasformato in consulente - tuttofare. Orario continuato, dalla mattina alla sera. Al mattino si ricevono gli italiani, il pomeriggio gli stranieri, che sono sempre di pi�. Anche nell'altro corridoio c'� ressa. Due lunghe file. Una porta allo stanzone dove distribuiscono vestiario (un cambio completo) e pacchi di viveri (pasta, riso, latte, olio, pelati per chi puo' cucinare, scatolette e succhi di frutta per gli altri). La seconda fila punta verso l'ambulatorio dove lavorano i medici (uno al mattino e tre nel pomeriggio).

E poi c'� la mensa. Se ne occupa Francesca, 40 anni. "Una struttura cosi", dice, "l'abbiamo sognata da quando abbiamo iniziato ad occuparci dei senza tetto". Ci sono voluti anni e anni per trovare i soldi e comprare i locali, ma dal 9 novembre 1988, la mensa non ha pi� chiuso i battenti. Assolutamente proibiti ingredienti come carne di maiale, vino o aceto: "Vengono molti musulmani e bisogna rispettare la loro fede". Per la stessa ragione durante il Ramadan, che vincola i fedeli al digiuno fino al tramonto, viene ritardato l'orario di chiusura. Il vino � vietato anche come bevanda, e non solo per motivi religiosi. Molti "clienti" sono alcolisti. Cos� come assolutamente proibite sono tutte le droghe. Altra regola, imposta pero' dagli utenti stessi, sono le sale separate per italiani e stranieri. "Le hanno chieste gli italiani, si sentivano a disagio. Una forma di autodifesa", dice Francesca, tentando di spiegare le differenze che esistono anche all'interno dell'emarginazione.

Gli homeless di casa nostra sono molto pi� disperati degli immigrati. Questi arrivano in Italia per trovare un lavoro, sono determinati, pieni di speranze. La mensa � il primo gradino di una faticosa scalata verso l'integrazione. Gli italiani spessissimo non hanno pi� alcuna speranza. In maggioranza � gente con molti problemi: droga o alcol su tutti. Ma non solo. Giri un po' per i tavoli e percepisci fisicamente gli effetti della crisi economica e della riduzione di quelli che si definiscono "gli ammortizzatori sociali". Sono i "poveri di ritorno". Trovi vecchi che hanno casa, ma se pagano l'affitto non hanno i soldi per fare la spesa. Trovi anche chi, perso il lavoro, ha perso tutto.

La questione nomadi.
Serenella di mestiere sarebbe bibliotecaria, ma � distaccata ad un ufficio della presidenza del Consiglio. Frequenta la Comunit� dall'adolescenza. Studiava al liceo Dante ed era il 1971. Ha fatto tutta la trafila classica dei volontari di Sant'Egidio. Doposcuola ai bambini di Primavalle, quindi scuola serale al Trullo e a Monte Cucco. Poi, una decina di anni fa, visto che i ragazzi che seguiva ormai erano diventati adulti, gli venne chiesto di occuparsi di assistenza ai nomadi, ovvero degli zingari. "Dissi di s�. Da allora non ho mai smesso". Ma perch� gli zingari? "Perch� se esiste una scala nel mondo dell'emarginazione, loro stanno sul gradino pi� basso. Non c'� neanche quella patina di compassione che avvolge gli altri. Sono poveri e scomodi. Chiedono l'elemosina e se ti rifiuti insistono. Possono essere fastidiosi, ma scatenano fobie irrazionali", � la sua risposta.

Gli zingari a Roma sono meno di 4 mila. In maggioranza Khorakhan� musulmani. Gli italiani sono 1.400. Rom abruzzesi o napoletani. Sempre italiani sono i Sinti, che fanno i giostrai. Ultimi arrivati sono invece i serbi e i bosniaci fuggiti dalla guerra. E bosniaci sono quasi tutti gli abitanti del campo di Montemario, dove ci dirigiamo.

La mancanza d'acqua � il problema principale che affligge ogni campo nomadi. Anche se la rete idrica passa vicino non si possono fare gli allacciamenti perch� nessuno ha il certificato di residenza. Stesso discorso per la corrente elettrica. Loro sarebbero disposti a pagare la bolletta, ma l'Enel non concede gli allacci. Cos� i nomadi se li fanno da soli, abusivi e pericolosi. E dopo un po' arrivano le denunce.

Entriamo nel campo. Fino a qualche mese fa c'erano tante baracche, poi sono arrivate le ruspe del comune per mettere in piedi un campo attrezzato. Cos� � andata perduta anche la casa di Ismail, un piccolo capolavoro di architettura zingaresca. Chiss� dove, Ismail aveva recuperato due colonne con capitelli dorici e un timpano greco, resti del fastoso congresso del Psi di Rimini (in piena era craxiana) con su scritto "Ingresso autorit� e stampa". Ora, al posto dei socialisti, Ismail ha scelto la Liga Veneta. Ha rimediato dallo sfasciacarrozze una roulotte con tanto di Leone di San Marco e il motto: "Mi son veneto, e ti?". Ismail ovviamente non � veneto, bens� bosniaco di Mostar. Le pareti delle baracche sono tappezzate delle fotografie di Ridge, Thorn, Sue Ellen. I bambini si chiamano Rambo, Zorro, Brandon e Brenda, con qualche picco politico come Clinton e Kennedy, o automobilistico: Volvo, Mercedes e Turbo.

Oltre alla scuola popolare, l'attivit� principale della Comunit� � l'assistenza sanitaria, in particolare quella pediatrica (da qualche tempo � stato allestito un camper che funziona da nursery mobile e dove si tengono corsi per le giovani madri).

La peste del duemila. Girone Aids.
La prima cosa che colpisce, entrando nel reparto malattie infettive del policlinico Gemelli, � il silenzio dei corridoi. Neanche durante le ore di visita c'� la folla di parenti ed amici degli altri piani. Gira poca gente. Per la maggior parte anziani, genitori dei ricoverati. Non c'� da stupirsi, la malattia che si combatte qui ha un nome che di solito si pronuncia sottovoce e che crea il vuoto intorno a chi si � ammalato. Sant'Egidio ha provato a riempire questo vuoto. Come? Nella maniera pi� semplice. Con la presenza.

Seguiamo Marilena e Aldo nel loro giro al Gemelli. Conoscono tutti, pazienti, letti. Assistono i malati, gli puliscono il comodino all'ora di cena. "Ognuno ha un modo diverso di affrontare la realta", spiega poi Marilena. "Chi lotta, chi si dispera, chi si rassegna, chi fa finta di niente. Tutti pero' hanno bisogno di un contatto. Di non star soli". E prima o poi tutti arrivano ad affrontare la morte. "Il problema maggiore per molti di loro, che sono ex tossicodipendenti, � che la paura, il dolore, sono associati anche ad un grande senso di colpa. Il nostro sforzo allora � cercare di far capire loro che non hanno buttato via la vita". Dio? Se ne parla solo se sono i malati a proporre il tema.

La treccia di Filomena.
Largo Magna Grecia 27. Un bel palazzo borghese alle spalle della basilica di San Giovanni. Al primo piano c'� una delle due case alloggio per anziani parzialmente autosufficienti gestite dalla Comunit� di Sant'Egidio. Non sai bene cosa aspettarti. Forse quell'odore tipico che c'� di solito nei cronicari. Oppure vecchi abbandonati su letti e poltrone. Invece no. Le stanze sono luminose ed allegre. Nell'aria c'� solo l'odore del sugo che bolle in cucina. Nessuno � in pigiama. "Ci teniamo che continuino a curare il proprio aspetto. Anche questo vuol dire non mollare", spiega Elio, responsabile dei 30 ragazzi che mandano avanti la casa. E capisci subito che la parola ospizio qui � bandita. Nulla ricorda un ospedale. Parquet al pavimento, buffet in salotto, centrini a tombolo sopra i tavoli. Quadri e vecchie foto alle pareti. Niente viene imposto, nemmeno le preghiere. "� una questione di rispetto". Come quella che ha portato tutti i volontari a intonare "Addio Lugano bella" davanti alla bara di Bartolomeo, ateo, vecchio anarchico che aveva conosciuto Sacco e Vanzetti negli Stati Uniti. Prima di andarsene aveva chiesto un funerale "da compagno", con inni, fiocco nero e camicia rossa. � stato accontentato.

La casa c'� dal 1988. Otto camere da letto, cinque bagni, due grandi terrazzi. Ci vivono 16 persone. La pi� giovane ha 81 anni, la pi� anziana 99. I locali li ha donati un benefattore, che forse non sapeva di sanare cos� una ferita che la Comunit� si portava dietro da diversi anni. S�, perch�, come spesso accade a Sant'Egidio, anche dietro la scelta di assistere gli anziani c'� l'incontro con una persona particolare. In questo caso Filomena.

Aveva una lunga treccia bianca, che ogni mattina avvolgeva in un fazzoletto azzurro. La conoscevano tutti a Sant'Egidio, e se non la notavi ci pensava lei ad attrarre l'attenzione, magari si inventava di aver perso i documenti, e costringeva tutti a cercarli per ore. Faceva cos� solo per chiacchierare con qualcuno. Poi, tutto a un tratto, spar�. Qualcuno si inform� e seppe che i nipoti l'avevano fatta ricoverare in un cronicario. Andarono a cercarla e la trovarono seduta in un cantuccio. Guardava nel vuoto e si toccava la testa. La treccia non c'era pi�. Gliela avevano tagliata. Quindici giorni dopo era morta.

Era il 1974 e attraverso Filomena la Comunit� aveva scoperto che la vecchiaia vuol dire emarginazione e solitudine. Ne discussero settimane, mesi. Poi decisero che bisognava far qualcosa. Cominciarono a cercare i vecchi che vivevano da soli. Provarono a parlargli. Si offrirono di portargli i pacchi, di fargli la spesa, di pulirgli casa. Mentre ti racconta queste cose Elio abbassa la voce. 35 anni, sposato, un bambino, di mattina fa l'impiegato al comune, il pomeriggio si occupa della casa alloggio. Ha scelto gli anziani, come ha fatto nel 1976 un altro volontario, il rettore del Pontificio istituto biblico Carlo Maria Martini. Per pi� di due anni, fino a che non venne nominato arcivescovo di Milano, and� in incognito a fare le pulizie in casa di un vecchio trasteverino fieramente anticlericale. Oggi i gruppi di assistenza sono decine. Cento anziani accuditi a Trastevere, 60 a Primavalle, e cos� via, 2 mila in tutto. E poi c'� il servizio volontario negli ospizi.

L'Onu dell'anima.
La Comunit� era nata in modo un po' caotico in mezzo ai fermenti convergenti del dibattito conciliare e del Sessantotto. Il primo nucleo al liceo Virgilio, scuola bene del centro storico, poi qualche altro qui e l�, tra collettivi studenteschi e preghiere. Leggevano i testi sacri, ma sfogliavano i libri di teologi protestanti come Karl Barth (secondo il quale la prima Comunit� cristiana era composta da tre persone, Ges� e i due ladroni, tutti gli altri erano scappati), o quelli di Yves Congar, teologo "sospetto" prima del Vaticano II, che poi papa Wojtyla ha fatto cardinale.

Leggendo e rileggendo il Vangelo fecero inoltre una scoperta: la parola "fratelli" viene usata solo per i poveri e per gli apostoli (Matteo, capitolo 25). E loro scelsero i poveri "per fede, non per ideologia". Si misero a cercare il terzo mondo nelle baracche del velodromo di ponte Marconi. Erano senza sede, strutture, gerarchia. Non avevano neanche un nome, solo un capo carismatico (lo stesso, allora come adesso, Andrea Riccardi, promettente allievo di Pietro Scoppola e oggi ordinario di storia del cristianesimo alla Terza universit� di Roma) e un prete per amico (don Vincenzo Paglia, adesso assistente spirituale della Comunit� e parroco di Santa Maria in Trastevere).

Nelle parrocchie molti li guardavano con diffidenza. Li prendevano per protestanti, per la loro abitudine di leggere la Bibbia e far commentare i testi da laici. Cosa che avviene ancora ogni giorno. La preghiera quotidiana � anzi l'asse su cui ruota l'attivit� della Comunit�. Parteciparvi � importante quanto aiutare i poveri.

L'appuntamento � alle otto e mezzo di sera nella chiesetta di Trastevere piena di icone bizantine. Sull'altare sono posate decine di bibbie, scritte in tutte le lingue "perch� la parola di Dio non ha confini". Nonostante l'origine sessantottina sarebbe sbagliato, pero', considerare Sant'Egidio alla stregua di un collettivo di studenti.

1973. Fu allora che il Vicariato assegn� a quei giovanotti la chiesetta di Sant'Egidio, piccola e cadente, e loro si presero anche i locali dell'annesso convento delle Carmelitane (le poche religiose che ci vivevano se ne erano andate tre anni prima per il freddo). Oggi la Comunit� ha 15 mila membri, la met� romani, gli altri disseminati in giro per il mondo, dall'Europa dell'Est all'Indonesia, dal Guatemala alla Costa d'Avorio. Per grandi iniziative e microprogetti di assistenza deve raccogliere ogni anno almeno 5 miliardi di lire, con collette (due terzi), quote associative, o interventi di enti pubblici e di sponsor potenti, come la Banca di Roma o la Stet (un quarto della cifra totale). Quelli di Sant'Egidio sanno bussare alle porte del cuore ma anche a quelle del portafoglio, e non se ne vergognano. Non si curano molto nemmeno dell'accusa di essere un po' disinvolti nelle alleanze. Di s� stessi dicono: "siamo mendicanti, ma saggi e moderni".

La filosofia di fondo per� non � mai cambiata. Mario Marazziti la sintetizza cos�: "Non sentirsi mai gli unici specialisti e mantenersi vulnerabili alle ferite della societ�. Cos� se assisti l'anziano, riesci anche a notare il barbone che muore di fame. � il tentativo di cambiare il mondo con mezzi deboli". Marazziti � il portavoce ufficiale della Comunit�. Dirigente Rai, sposato, padre di un bambino di 12 anni, lavora a fianco di Riccardi e don Paglia dai tempi del Virgilio. Ai vertici della Comunit� con loro tre c'� anche don Matteo Zuppi, il "ministro degli esteri", molto impegnato nel mandare avanti il dialogo interreligioso, l'altro caposaldo della Comunit�.

Giovanni Paolo II, che a questo dialogo ha dedicato tanta parte del suo pontificato, stima molto Sant'Egidio e non lo nasconde. Anzi, dopo la Giornata di preghiera che, il 27 ottobre 1986, ha riunito ad Assisi i capi di quasi tutte le religioni del mondo, il Papa ha passato a loro il testimone. E Sant'Egidio ogni anno rinnova l'appuntamento organizzando un meeting al quale prendono parte cardinali, gran muft�, patriarchi, rabbini, bonzi, ed anche politici come Boutros Ghali e Jaruzelski, Mugabe e Gorbaciov.

Il capolavoro che tutti riconoscono a Sant'Egidio � comunque la pace in Mozambico. Sono stati i volontari romani a far incontrare per la prima volta, nel 1988, governo e guerriglieri. Ma non � stato l'unico intervento diplomatico di Sant'Egidio. Don Zuppi � riuscito per esempio a risolvere la crisi degli ostaggi italiani rapiti in passato dai curdi. In Guatemala, grazie alla Comunit�, sono riprese circa un anno fa le trattative tra governo e guerriglieri, e sempre nelle stanze del vecchio convento circa due anni fa tutti i rappresentanti dell'opposizione algerina (integralisti islamici compresi) hanno sottoscritto una piattaforma di mediazione da presentare al governo dei militari. Quest'ultimo non ha apprezzato e per mesi ha bussato alle porte delle cancellerie occidentali, Vaticano e Farnesina compresi, per isolare Sant'Egidio. Qualche nemico, in fondo, bisogna pure averlo.

Antonio Satta