Comunità di S.Egidio


 

6 agosto 2000

MEMORIA DI PAOLO VI
Quel ponte tra il Giubileo del 1975 e il Duemila

 

Sono passati ventidue anni dalla morte di Paolo VI. Il mondo � profondamente cambiato. E' salita una nuova generazione, che non ha conosciuto Papa Montini o ha di lui un'immagine sfocatasi con il tempo. Quando il Pontefice bresciano si spense, il 6 agosto 1978 a Castelgandolfo, una parte dell'opera della sua vita sembrava minacciata. Quella politico-civile a cui aveva lavorato sino dagli anni Trenta, cio� il decisivo contributo del cattolicesimo italiano alla democrazia repubblicana. Da Sostituto della Segreteria di Stato - era stato uno dei pi� brillanti ecclesiastici della prima met� del Novecento - aveva dato un apporto fondamentale non solo alla nascita e all'elaborazione della Dc, ma anche alla creazione di un ambiente culturale tra i cattolici. Epper� le difficolt� insorte negli anni Settanta andavano e venivano ben oltre l'orizzonte italiano.

Paolo VI - finissimo com'era nella sua coscienza - si interrogava se non avesse in parte dissipato l'eredit� dei suoi predecessori. Lo aveva confidato agli intimi, rispetto a Pio XI, quando era stata approvata la legge del divorzio in Italia. Di fronte alla crisi di autorit� nella Chiesa e alla "polarizzazione del dissenso" come diceva Karl Rahner, taluni gli rimproveravano, in particolare, di aver disperso l'eredit� di Pio XII. Anche quel clima di simpatia degli anni di Giovanni XXIII si era rarefatto, mentre alcuni settori ecclesiali accusavano Papa Montini di una recezione riduttiva del Vaticano II. Il pontificato montiniano sarebbe stato insomma incastonato tra gli anni di Giovanni XXIII e quelli di Giovanni Paolo II, come una stagione travagliata, grigia e confusa. Quegli anni sono sicuramente un campo interessante per le ricerche storiche; ma significano qualcosa oggi per la memoria della Chiesa del 2000?

Il tempo di Paolo VI � stato in realt� quello della grande virata del cattolicesimo nel cuore del Novecento. Il Papa ha accettato la sfida con fede e lucidit�, anche se l'ha vissuta con il dolore e la fatica di un uomo formatosi al governo nel tempo della ferma autorit� di Pio XI. Dagli anni Sessanta si trovava a guidare una Chiesa al plurale, spesso lacerata.
Eppure, proprio allora, emergeva una prospettiva tutt'oggi valida nella Chiesa all'alba del XXI secolo. E per comprenderla davvero, e ricollocarla anzi nella memoria attuale della Chiesa, bisogna ritornare al Giubileo del 1975.

La scelta di celebrare quell'Anno Santo appariva a non pochi desueta, molto romana, poco ecumenica. Sembrava stonato proporre dopo il Concilio un'immagine rischiosamente medievale di Chiesa, fatta di folle di pellegrini, di indulgenze e di processioni penitenziali. Perch� tanti sarebbero dovuti venire a Roma? La Chiesa del Vaticano II non era quella delle Chiese locali e quindi non romanocentrica? Molti erano giunti alla conclusione dell'inopportunit� di celebrare secondo la tradizione l'Anno Santo. Il Papa, nel maggio 1973, quando annunci� il Giubileo, accenn� a questi dubbi: "Ci siamo domandati se una simile tradizione merita di essere mantenuta nel tempo nostro, tanto diverso dai tempi passati, e tanto condizionato, da un lato, dallo stile religioso impresso dal recente Concilio alla vita ecclesiale, e, dall'altro dal disinteresse pratico di tanta parte del mondo moderno verso espressioni rituali di altri secoli...".

Ma Paolo VI decise di non interrompere la tradizione dei giubilei di trasmetterla alle generazioni successive. Fu una scelta di cui oggi - in pieno Giubileo del 2000 - si coglie tutta l'importanza. Il significato del Giubileo si ritrova nell'esortazione apostolica Gaudete in Domino, uno dei testi pi� alti di quella scrittura generalmente molto felice di Papa Montini. La gioia, il rinnovamento interiore e la riconciliazione erano i tre punti fondamentali del Giubileo montiniano. Paolo VI pensava inanzitutto al rinnovamento dei cuori e delle coscienze, mentre insisteva sulla gioia. Quello che era in passato il pellegrinaggio romano per lucrare le indulgenze si approfondiva nel senso di una chiamata alla trasformazione personale e collettiva. Secondo il Pontefice bresciano, il grande rischio per la Chiesa era dilapidare l'"eredit� comunitaria" della fede e, soprattutto, non compiere la missione a cui era chiamata. Qui sta l'indicazione di Paolo VI: il primato della comunicazione del Vangelo.

Il Sinodo del 1974 aveva discusso dell'evangelizzazione e l'esortazione apostolica: Evangelii nuntiandi lo riproponeva nel cuore dell'Anno Santo. Questo documento, dopo dieci anni, dava un'interpretazione interessantissima del Concilio: i suoi "obbiettivi si riassumono, in definitiva, - affermava con forza il Papa - in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre pi� idonea ad annunziare il Vangelo all'umanit� del XX secolo". Di fronte a un orizzonte piuttosto incerto, Paolo VI individuava la maggiore eredit� del Concilio nel primato dell'evangelizzazione: "evangelizzare, per la Chiesa, � portare la buona Novella in tutti gli strati dell'umanit�, �, col suo influsso, trasformare dal di dentro, render nuova l'umanit� stessa" - questo era il suo messaggio. Il Vaticano II non si risolveva in un riformismo imbevuto nello spirito degli ambienti democratici occidentali, che alla fine portava a un'ammodernata autoreferenzialit� della Chiesa.

L'approdo finale del pontificato di Paolo VI (che ne spiega la linea sin dall'inizio) � proprio il primato dell'evangelizzazione. Era la via che il Papa prospettava alla Chiesa nelle terre di antica evangelizzazione, proponendo di uscire dall'immobilismo o da quella conflittualit� che facevano smarrire il senso della missione in una societ� secolarizzata. Ma era anche la prospettiva per la Chiesa in quel Sud e in quell'Est del mondo, ormai totalmente decolonizzati. Il Papa non rinnegava il dialogo con le grandi religioni non cristiane, ma non lo vedeva in contrasto con quell'afflato universale che veniva dal primato dell'evangelizzazione. La Chiesa doveva concentrarsi nel Vangelo e nella sua comunicazione. Ne nasceva anche un nuovo sguardo sulla guerra e sull'uso della violenza: non appariva pi� accettabile la "violenza, soprattutto la forza delle armi - incontrollabile quando si scatena - n� la morte per chicchessia, come cammino di liberazione...perch� la violenza chiama sempre la violenza e genera irresistibilmente nuove forme di oppressione".
Il Giubileo del 1975 - come nota un grande studioso francese, Alphonse Dupront, un osservatore laico dell'evento - fu una sorpresa per la manifestazione di vitalit� e di attualit� del cattolicesimo. Il Papa e la Chiesa di Roma vi si collocavano con un rinnovato significato. Soprattutto ne veniva una grande prospettiva per gli anni a venire: "Un programma di azione pastorale, di cui l'evangelizzazione - scriveva Papa Montini - � un aspetto fondamentale, per questi anni che segnano la vigilia di un nuovo secolo, la vigilia anche del terzo millennio del cristianesimo".

Andrea Riccardi