Sono passati quaranta anni dall'elezione di Paolo VI. Per taluni sarebbe un papa dimenticato. I venticinque anni, cos� intensi, trascorsi dalla sua morte possono far apparire quel pontificato remoto per quelli che si sono affacciati negli ultimi due decenni sulla scena del mondo. D'altro conto non � facile semplificare la figura di questo Pontefice. E' stato il Papa della complessit�, chiamato a governare la Chiesa in una stagione difficile, una delle pi� delicate del Novecento. Si � trovato a concludere un Concilio ecumenico originale come il Vaticano II. Il '68 ha immesso nel circuito dell'Occidente una specie di rivoluzione antropologica che toccava la mentalit� e tutte le istituzioni. La Chiesa per prima. Larga parte del pontificato montiniano � stato tallonato da un movimento d'irrequietezza che ha messo in luce una Chiesa al plurale, spesso anzi conflittuale. In un simile panorama, con un'opinione pubblica vivace e rissosa, non era facile governare. Forse si sono un po' perse le reali misure di quel tempo difficile per cui qualsiasi raffronto ci appare improponibile.
Da un punto di vista geopolitico, i Paesi comunisti sembravano resistere al logorio del tempo, mentre le Chiese di quelle regioni soffrivano la persecuzione. Si colloca in questa cornice la decisione di aprire un dialogo con i governi dell'Est, dialogo che sull'immediato dette risultati relativi e non riusc� mai ad arrivare a Mosca: ars non moriendi, la defin� giustamente il Segretario di Stato, Villot. C'era poi la decolonizzazione, che obbligava la Chiesa a misurarsi con le passioni terzomondiali e a smarcarsi dai regimi coloniali, istituendo nuove gerarchie locali. Non era poco per un cattolicesimo che, in Occidente, era scosso da una progressiva secolarizzazione, dalla diffusione del materialismo marxista e da un processo di soggettivizzazione della fede e dell'idea di vita. Paolo VI govern� in questa intricata situazione con orientamenti che a taluni parvero esitanti, e che invece erano saldi e cauti insieme, frutto del senso della complessit� di un mondo dai tanti attori in movimento. Il suo fu un genio di governo, tipicamente italiano, realista ma misurato su un vasto disegno. Lo si capisce con il distacco del tempo: "Paolo VI sar� valutato grande con il tempo", diceva Congar.
Montini intendeva cambiare in profondit� la vita della Chiesa. A partire dalla liturgia. Un suo intimo amico, padre Manziana, una volta disse a chi scrive: "lo avessero fatto lavorare in pace". Tradiva il senso di fastidio per il chiassoso e tumultuoso clima di quegli anni, che metteva in difficolt� l'attuazione del progetto riformatore a cui Montini pensava da tempo. Negli anni Settanta, mentre molti denunciavano la crisi della Chiesa, il Papa coglieva i segni della rinascita religiosa, che allora sembravano illusori a fronte della dominante secolarizzazione. Erano i primordi di quel processo, mostratosi prima nei mondi extraeuropei e poi nel nostro continente. L'Anno Santo del 1975 era rivelatore di una nuova e faticosa vitalit�. Per Paolo VI non si doveva attendere, ma accettare con coraggio la sfida del presente. Da molto era convinto che questo coraggio fosse l'evangelizzazione. Egli si chiedeva anche "se il Vangelo che proclamiamo appare lacerato da discussioni dottrinali, da polarizzazioni ideologiche o da condanne reciproche tra cristiani...", come parlarne agli altri? La via del futuro gli appariva quella di una Chiesa tutta missionaria. Ma per camminare in questo senso, bisognava governare la complessit� del presente e porre le premesse del domani. E' il messaggio dell'Evangelii Nuntiandi (1975), il testo di riferimento per un'intera epoca.
Andrea Riccardi
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