Ho avuto modo di incontrare in carcere gruppi di detenuti e dialogare con loro sulle nostre rispettive condizioni di vita, simili in alcuni aspetti e cos� diverse per altri, in particolare sul fatto di condividere la propria vita - per sempre nel mio caso, per tutta la durata della pena nel loro - all'interno di uno spazio ben preciso con altre persone che non si sono scelte ma ci sono state �date�, dall'istituzione penitenziaria per i detenuti, dalla comune vocazione per quanto mi riguarda: un dialogo cordiale in senso forte, ricco di spunti di riflessione. Ripensavo a questi incontri leggendo Convivere di Andrea Riccardi (edito da Laterza), una lucida analisi delle impasse e delle prospettive che attendono le nostre societ�, in particolare quella europea. Ci ripensavo perch�, con la competenza dello storico del mondo contemporaneo e con la passione e la compartecipazione dell'instancabile fautore di dialogo, Riccardi ci porta a prendere in considerazione il �caso serio� della nostra epoca: una condivisione sempre pi� allargata a dimensione globale non solo degli spazi geografici, ma delle risorse energetiche e alimentari, del vissuto quotidiano e, in ultima analisi, delle prospettive stesse di sopravvivenza e di qualit� della vita presente e futura.
S�, ormai non ci � pi� dato di scegliere tra �convivere� o non convivere con il diverso, l'altro, l'estraneo, persino il nemico: l'unica alternativa rimasta al nostro libero arbitrio e al nostro libero agire � quella tra dover convivere o voler convivere, tra il vivere questo rischioso e fecondo �meticciato� come scelta consapevole e opportunit� di crescita oppure come condanna da subire, limitandone i danni o scaricandoli su qualcuno pi� debole e indifeso di noi. Il fondatore della Comunit� di sant'Egidio non ignora le differenze profonde che solcano le nuove societ� cosmopolite venutesi a creare, non ne sottovaluta le contraddizioni e i rischi, non minimizza le tragiche soluzioni di comodo (in realt� �scomodissime� non-soluzioni) su cui sfociano le tensioni irrisolte, non cerca scorciatoie in un irenismo a buon mercato, in un clima melenso che crede di spegnere gli incendi e in realt� attizza le braci nascoste sotto la cenere. Nel libro non ci si rifugia neanche in un utopico ricorso alle religioni come panacea di tutti i mali: anzi, si denunciano le potenzialit� di aggravamento dei conflitti che una radicalizzazione dogmatica delle differenze pu� produrre. Eppure esiste uno �zoccolo duro� del pacifico convivere, foriero di una crescita nella dignit� dell'uomo come animale razionale e socievole: si tratta di riattualizzare un antico �patto� e di dargli credibilit� storica, concreta, quotidiana oggi. E' il patto stipulato dal Dio dell'Antico Testamento con No� e, attraverso di lui, con l'umanit� intera: un patto di armonia con il creato - di cui l'arcobaleno diviene simbolo - e di rispetto radicale della vita umana, �un patto di rispetto, nella responsabilit�, dell'uno verso l'altro�, un divieto tassativo di spargere il sangue dell'uomo, un agire verso l'altro considerandolo fratello affidato alla nostra custodia e non nemico contrapposto alla nostra violenza.
E' un'utopia il pensare di vedere l'altro, persino il nemico, non come rivale ma come �il pi� grande maestro�, secondo l'insegnamento del buddismo? O non � forse pi� utopico - destinato cio� a non aver luogo concreto in cui realizzarsi - pensare di riuscire a eliminare ogni nemico, a cominciare da quello che abita nella porta accanto? Le tragedie del XX secolo che Riccardi rievoca con intensa compassione non sono forse drammatici richiami all'impraticabilit� di questa seconda via, angoscianti segnali dell'abisso di male verso cui scivoliamo inesorabilmente ogni volta che nel diverso da noi scorgiamo un pericolo da annientare e non un fratello da custodire, ogni volta che viviamo la faticosa quotidianit� del �convivere� come condanna ineluttabile e non come ricchezza nascosta, come libera scelta, come benedizione a caro prezzo?
Enzo Bianchi
|