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Liturgia di ringraziamento per il 50mo anniversario della Comunità di Sant'Egidio

10 febbraio, ore 17,30 Basilica di San Giovanni in Laterano

 
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4 Ottobre 2010 09:30 | Palau de la Generalitat - Auditori

Barcellona 2010 - Intervento di David Rosen



David Rosen


Già Rabbino Capo di Irlanda, AJC, Israele
Un’etica universale per un mondo globalizzato
 
Come ebreo credente, in campo etico, la mia ispirazione e la mia guida sono tratte dalla Bibbia, interpretata dal Talmud e dai commentari della nostra Tradizione. Può sembrare semplicistico guardare alla Bibbia per cercare un’etica che possa guidarci nel nostro mondo moderno e globalizzato, ma, a mio avviso, è in essa che troviamo dei valori morali eterni, e si può sostenere che essi siano più essenziali nel nostro tempo di quanto siano stati prima.
 
Uno degli aspetti fondamentali dell’insegnamento biblico è l’affermazione secondo cui la proprietà dell’uomo può essere considerata soltanto come un possesso temporaneo (Lv. 25, 33), e considerarla come se fosse qualcosa di più è allo stesso tempo empio e, in definitiva, immorale, non solo perché il nostro soggiorno sulla terra è temporaneo, ma anche perché il nostro mondo è stato creato da Dio e, di conseguenza, appartiene soltanto a Lui (Ps 24, 1).
Inoltre, aspetto centrale dell’insegnamento biblico è l’idea che l’essere umano è più che non semplicemente il vertice dell’ecosistema. La persona umana possiede una natura nella quale è insito, in maniera speciale, qualcosa di divino. Ciò fa sì che ogni vita e dignità umana sia inalienabile e di infinito valore. Non soltanto la crudele distruzione di una vita umana è l’azione più terribile e crudele che possa esistere, ma, così ci insegnano i nostri saggi, la mancanza di rispetto per un altro uomo implica mancanza di rispetto per Dio stesso, essendo noi creati ad immagine e somiglianza del Divino. Inoltre, l’essenza della nostra umanità implica che noi abbiamo particolari doveri e che la nostra vita persegue determinati scopi, i quali si evidenziano in particolare nella nostra relazione con la Creazione stessa. In questo senso, la Bibbia, nel descrivere l’essere umano, lo colloca nel mondo, nel Giardino dell’Eden, “perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2, 15). E, effettivamente, la tradizione ebraica rappresenta questo compito come una alleanza per volere divino, tra Dio e la Creazione.
Inoltre la Genesi ci insegna che il compito e lo scopo principale dell’umanità sono l’obbedienza alla volontà morale di Dio, l’osservanza della quale assicura il nostro benessere, e che il cuore di questa legge morale è la responsabilità che abbiamo l’uno nei riguardi dell’altro, che nasce dal riconoscere la santità della vita e della dignità dell’uomo, di cui abbiamo parlato poco prima.
Il paradigma che integra una gran parte di questi valori, oltre ad altro, è il concetto dello Shabbath, centrale nell’insegnamento biblico, in quanto appare nel Decalogo.
Nel cuore del concetto dello Shabbath vi è l’idea che nell’uomo la creatività e lo sviluppo, che sono benedetti, debbano essere disciplinati. In primo luogo per infondere in noi stessi il senso della proporzione e dell’equilibrio umano, affinché non ci inganniamo da soli, pensando “la mia forza ed il potere della mia mano mi hanno procurato tutto questo successo”, ed agiamo senza alcuna remora di tipo morale.
Nelle parole del grande rabbino del diciannovesimo secolo, rabbi Samson Rafael Hirsch, “Lo Shabbath ci è stato dato affinché non crescessimo arroganti nel dominare la Creazione di Dio, … (affinché) in tale giorno ci astenessimo dall’esercitare la nostra influenza umana sulle cose della terra, e non contribuissimo con le nostre mani al dominio dell’uomo su di esso. Il mondo, che noi abbiamo in prestito, ritorna al suo Divino Padrone, affinché noi ci rendiamo conto che esso ci è solo prestato. Nello Shabbath ti privi della tua gloriosa padronanza del mondo e, nel riconoscimento, metti te stesso ed il tuo mondo ai piedi dell’Eterno, tuo Dio”.
Inoltre, sottolineando l’obbligo del riposo per tutte le persone, a prescindere dal loro posizione sociale e persino della necessità per gli animali di recuperare le loro forze durante lo Shabbath, vengono posti ulteriori limiti al nostro temporaneo potere, e viene rinforzata la sanità e la dignità della vita.
Tuttavia, in aggiunta a tale paradigma etico settimanale, la Bibbia contiene anche un paradigma etico settennale, che dà ulteriore sviluppo alle idee contenute nello Shabbath settimanale.
Si tratta del modello dell’anno sabbatico, descritto da Levitico 26, come il mezzo per garantire sicurezza duratura alla società. La teologia dell’osservanza sabbatica ha le sue radici nell’affermazione del Levitico, che abbiamo già menzionato: “la terra (dice il Signore) è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti”
L’anno sabbatico cerca di fissare in noi questa consapevolezza attraverso tre concetti. Innanzitutto, durante il settimo anno la terra deve essere lasciata riposare (Es 23, 10), per farle ricuperare la sua vitalità naturale. Di conseguenza, ogni illusione di possesso ed utilizzo esclusivo viene fatta cadere, in quanto la terra e quanto vi cresce deve spontaneamente in quest’anno essere a disposizione di tutti, in particolare dei poveri. In questo modo l’anno sabbatico non soltanto afferma che siamo tutti temporaneamente dimoranti nel mondo che è di Dio, ma sottolinea anche che, per quanto riguarda la terra – e in una società agricola la terra è la fonte dello status personale per eccellenza – i poveri ed i ricchi davanti a Dio hanno gli stessi diritti.
La consapevolezza del fatto che tutti noi soggiorniamo temporaneamente in questo mondo, e che siamo vulnerabili, porta a riconoscere che lo sviluppo sostenibile è possible solamente dove c’è una responsabilità sociale, specialmente in relazione a chi nella società è più vulnerabile. L’enfasi che la Bibbia impiega a tale riguardo è inequivocabile e non si riflette soltanto in quanto menzionato prima – il fatto di lasciare a riposo la terra e che quanto cresce spontaneamente sia a disposizione di tutti, ma anche negli altri precetti dell’anno sabbatico, in particolare la cancellazione dei debiti (Deuteronomio, 15).
Ovviamente, tale comandamento presente nelle scritture va compreso nel contesto della società agricola che troviamo nella Bibbia. Non era una società commerciale in cui somme di denaro vengono date in prestito nell’ambito della normale attività economica. Piuttosto, i prestiti si rendevano necessari quando il contadino aveva dovuto subire tempi duri ed aveva avuto un raccolto scarso, o non aveva raccolto niente del tutto, e aveva perso le risorse necessarie per garantirgli la continuazione del ciclo dei raccolti. In tal caso, chiedeva un prestito ad un altro contadino.
In effetti, coloro che possiedono delle risorse sono obbligati ad effettuare tali prestiti a coloro che sono in necessità (Dt 15, 8), e, quando il contadino svantaggiato riacquista la prosperità, può restituire il debito.
Per tali ragioni era proibito approfittarsi della sua situazione, per esempio esigendo un interesse. Tuttavia, se il contadino non fosse stato nella possibilità di superare la sua situazione, sussisteva il pericolo di essere intrappolato dalla sua situazione di povertà. La bibbia riconosce il fatto che ciò non sarebbe soltanto un problema suo, ma di tutta la società, e, di conseguenza, utilizza l’anno Sabbatico per liberare l’individuo da una tale trappola. L’obbligo della remissione dei debiti non è una scusa per essere irresponsabili, ma, piuttosto, l’obbligo di essere responsabili verso uno sviluppo bilanciato e sostenibile, che assicuri un equilibrio socio-economico tra i più ed i meno avvantaggiati nella società – essenziale per la sicurezza e lo sviluppo in senso positivo di quest’ultima.
Per una ragione simile, l’anno Sabbatico prevedeva anche la liberazione degli schiavi (Es 21, 2-6). A differenza del precetto di cui abbiamo appena parlato, tale comandamento può sembrare non solo irrilevante ma anche arcaico. Tuttavia, tale idea contiene alcuni messaggi profondi. Nell’antico Israele, un ebreo diventava schiavo se non aveva alcun mezzo di sostentamento per sé o per la sua famiglia. In tale modo, di fatto, vendeva il proprio lavoro a qualcun altro. Tuttavia, gli obblighi per colui che manteneva tali schiavi erano così gravosi che il Talmud dichiara che “chi acquisisce uno schiavo (di fatto) acquisisce un padrone su di sé!” (TB Kiddushin 22a). Come indica il libro dell’Esodo, ad uno schiavo celibe o nubile non andavano soltanto garantiti i beni essenziali, ma anche un coniuge. Comprensibilmente, nell’antica Israele non erano pochi gli schiavi contenti di trovarsi in tale situazione. Tuttavia, la Bibbia esige che durante l’anno Sabbatico tutti questi schiavi vengano liberati. Ma, come è scritto nel libro dell’Esodo al capitolo 21, “Ma se lo schiavo dice: "Io sono affezionato al mio padrone, non voglio andarmene libero, allora il suo padrone … lo farà accostare … allo stipite della porta e gli forerà l'orecchio con la lesina” (Es 21, 5-6). I nostri vecchi saggi si chiedono: “perché l’orecchio deve essere forato, e perché allo stipite della porta?” Essi rispondono che lo stipite è il luogo dove Dio in Egitto è passato oltre quando ha liberato i figli di Israele dalla schiavitù mentre l’orecchio sul Sinai ha sentito Dio dire ‘davanti a me, i figli di Israele sono schiavi’, e non ha sentito dire che sarebbero stati schiavi degli schiavi. Perciò questi segni, lo stipite e l’orecchio, dovranno fare da testimoni che un uomo rinuncia alla libertà che gli è stata data da Dio. Inoltre, secondo la legge ebraica, lo schiavo doveva comunque andarsene da uomo libero nell’anno del Giubileo, anche contro la propria volontà. La Bibbia esige anche che l’ex-padrone debba dotare tale uomo, il quale doveva ora affrontare il libero mercato senza alcuna protezione, dei mezzi adeguati affinché vi potesse trovare una collocazione (Dt 15, 14). Tale obbligo mette in evidenza, ancora una volta, quanto sia importante per il benessere della società la comprensione dell’importanza del riconoscimento della dignità dell’individuo umano e della sua libertà: non soltanto nessuno deve essere sottomesso, ma tutti devono avere il necessario per crescere in maniera indipendente.
Ciò che la Bibbia usa come modello si basa su un punto di vista morale secondo il quale dobbiamo fare i conti con i pericoli che derivano dall’arroganza umana, perché è l’arroganza che giustifica l’avidità, lo sfruttamento, l’irresponsabilità e la violenza verso gli altri.
Il messaggio che la scrittura ci tramanda considera fondamentale non solo una considerazione particolare per i più vulnerabili nella società, ma anche l’insistenza affinché noi riconosciamo di essere tutti vulnerabili – tutti noi soggiorniamo temporaneamente nel mondo fatto da Dio. Tale consapevolezza può portarci a vivere in maniera più responsabile verso noi stessi, i nostri prossimi, le nostre comunità, le nostre nazioni, la nostra umanità, la nostra ecologia.
Può anche infondere in noi la consapevolezza del fatto che siamo tutti dei potenziali anelli di una catena molto lunga e della responsabilità enorme che di conseguenza abbiamo. Il trattato Ta’anit del Talmud ci racconta la storia di un uomo giusto chiamato “Honi, colui che fa piovere”, che vide qualcuno che stava piantando un albero di carrube; gli chiese di quanto tempo ci sarebbe stato bisogno prima che questo portasse frutto. Questi rispose che sarebbero stati necessari settanta anni. “Pensi di vivere altri settanta anni?”, chiese Honi. L’uomo rispose: “Come i miei avi hanno piantato per me, io pianto per i miei figli”.
In tali paradigmi e nei valori in essi intrinseci possiamo sicuramente trovare un’etica universale. Si può sicuramente sostenere che essi siano più essenziali nel nostro tempo di quanto mai siano stati prima.
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E’ interessante notare che il brano della Bibbia in cui si parla dell’anno sabbatico in maniera più estensiva, il capitolo 25 del Levitico, è seguito, nel capitolo seguente, dalla promessa di piogge e raccolti abbondanti e di una vita prolungata sulla terra, come conseguenza dell’osservanza dei comandamenti divini, e ci minaccia del contrario, se la parola Divina è ignorata e profanata. Tutto ciò viene, ovviamente, ripetuto nell’undicesimo capitolo del Deuteronomio (versi 13-21), il secondo paragrafo dello Shema – parte centrale della nostra liturgia quotidiana, mattutina e serale.
A ciò Maimonide riusciva soltanto a trovare una spiegazione in senso metaforico. Per lui, tali parole non avevano senso se non come mezzo per trasmetterci l’idea più elevata delle conseguenze spirituali delle nostre azioni; in un modo di cui anche la persona più semplice potesse afferrare il significato – “la Torah parla la lingua della gente”.
Tuttavia, è stato fatto notare che oggi possiamo comprendere questi testi in una maniera più letterale di prima, perché le conseguenze della condotta umana sul nostro ambiente sono terribilmente evidenti. L’avidità umana, l’arroganza sfrenata, l’insensibilità e la mancanza di responsabilità verso l’ambiente hanno inquinato e distrutto gran parte delle nostre risorse naturali, hanno interferito con il clima nel suo insieme, mettendo a repentaglio le nostre piogge ed i nostri raccolti e minacciato lo stesso futuro della vita evoluta sul pianeta (vedi il rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate Ch’ange – Comitato Intergovernamentale sui cambiamenti climatici - http://www.ipcc.ch/). Inoltre, nella società moderna, il lusso sfrenato ed irresponsabile non ha soltanto aumentato di molto la crudeltà verso la vita animale, sfruttata per i consumi umani, ma ha anche portato ad uno sfruttamento più ampio di gran parte dell’umanità a vantaggio di una parte molto più piccola. E’ una realtà il fatto che numeri impressionanti di esseri umani soffrono la fame mentre altri vivono nell’abbondanza.
Uno studio recente ha concluso che un cittadino USA medio ha bisogno di 100 acri (ca. 40 ettari) di spazio biologicamente produttivo per sostenere il suo consumo annuale di cibo, acqua, energia ed altre risorse. Se distribuite equamente, ci sono tuttavia soltanto 15 acri (ca. 0,6 ettari) di terreno produttivo per ognuno dei 6,5 miliardi di persone sulla terra. Ciò significa che il cittadino USA medio consuma più di sette volte la quota della capacità produttiva della terra che gli spetterebbe. Se moltiplichiamo ciò per centinaia di milioni di persone, otteniamo una prospettiva più adeguata sull’effettivo peso dell’umanità in termini ambientali.
Se da una parte, sono gli organismi sovranazionali e le autorità nazionali a doversi confrontare con questi dati, essi sfidano anche noi, come comunità, famiglie ed individui: sfidano i nostri stili di vita e la nostra condotta. Penso che, a tale riguardo, valga la pena mettere in evidenza come uno stile di vita vegetariano non soltanto è una risposta importante allo sfruttamento della vita evoluta. La riduzione del consumo di carne è assolutamente necessaria per ridurre uno spreco deplorevole, che danneggia altre parti del mondo. Per esempio, per produrre un chilo di carne bovina ci vuole 17 volte la quantità di acqua necessaria a produrre un chilo di grano. Una riallocazione e riutilizzazione delle risorse, fatta in modo saggio e responsabile potrebbe permetterci di affrontare la maggior parte della fame e della povertà che affligge il nostro pianeta.
Perciò il legame che, secondo la bibbia, sussiste tra le condizioni e la produttività della natura e la nostra condotta morale è estremamente rilevante per la nostra società contemporanea, e lo è anche la nostra stessa capacità di vivere sulla terra, la terra che il Creatore ci ha dato. In ciò, in realtà, non solo vediamo un’etica universale per il nostro mondo globalizzato, ma anche i valori etici che sono decisivi per la stessa sopravvivenza del nostro universo globalizzato.
 

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Barcellona 2010

Messaggio
di Papa
Benedetto XVI


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