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12 Septembre 2011 09:30 | Neues Rathaus, Kleiner Sitzungsaal

Bound to Live Together Religioni e culture in dialogo di Maria De Giorgi



Maria De Giorgi


Shinmeizan Centre for Interreligious Dialogue, Japan

E’ con riconoscenza e trepidazione che ho accettato di prendere parte a questo “Pannel Discussion” sul tema: “Il Giappone dopo il terremoto”. Come straniera che pur vive in Giappone da 26 anni e considera questo Paese una seconda patria, non mi è, infatti, facile parlare di questa immensa tragedia che ha colpito il popolo giapponese.
Il Giappone è da sempre una terra sismica. Dotato di bellezze naturali uniche, è anche esposto alle forze contrastanti della natura: terremoti, eruzioni vulcaniche, tifoni e maremoti hanno segnato da sempre la vita e la storia di questo popolo coraggioso che non si è mai lasciato piegare da queste calamità e che ha invece saputo sviluppare una straordinaria capacità di resistenza e di prevenzione. Ne è prova proprio il sisma dell’11 marzo.
Nonostante l’intensità di 8.9 gradi della scala Richter, l’edilizia ha generalmente resistito alle terribili scosse, grazie a tecnologie e misure antisismiche messe a punto con determinazione e sistematicità. La tragedia più grande è giunta dal mare: un’onda anomala di proporzioni apocalittiche che nessuna prevenzione umana avrebbe potuto fermare ha distrutto intere zone abitate. A tutto questo, come sappiamo, si è aggiunta la catastrofe delle centrali atomiche compromesse dal sisma, con le terribili e ancora imprevedibili conseguenze che hanno aperto un capitolo a sé nell’agenda del dopo terremoto.
Di quel fatidico giorno, i giornali, le TV e i web di tutto il mondo hanno trasmesso immagini, testimonianze e servizi che hanno dato, certamente, l’idea dell’entità del disastro, anche se la realtà supera di gran lunga ogni immaginazione e tante, troppo tragedie personali rimarranno avvolte nel silenzio: vite infrante, famiglie distrutte, infanzie rubate che non saranno mai raccontate. Ma giornali, TV e web hanno anche mostrato la straordinaria capacità del popolo giapponese di reagire alla tragedia con prontezza, con senso di responsabilità e grande dignità. Non si sono viste scene di panico, bensì atti di grande solidarietà sostenuti da una capacità di sopportazione al limite delle possibilità umane. Chi ha perso tutto in pochi minuti: affetti, case e beni, luoghi amati e conosciuti, non si è lasciato schiantare ma ha reagito contribuendo alla grande macchina dei soccorsi che si è subito allertata. Una reazione che è certamente frutto dell’educazione e dell’addestramento capillare che i giapponesi ricevono fin da piccoli e che è un dato distintivo della società giapponese.
Un popolo “addestrato” e solidale
Un altro elemento che si è imposto all’attenzione generale è stato il coinvolgimento di tutto il Paese, non solo emotivo ma pratico: migliaia di volontari si sono subito allertati per portare aiuto e sollievo alle popolazioni colpite sopperendo ai bisogni più disparati. Numerosi operai si sono offerti volontari per tentare il risanamento delle centrali nucleari nonostante l’altissimo rischio di contaminazione atomica. Nelle prime settimane dopo il sisma persino in alcune zone del sud del Paese vi è stata carenza di alimenti e di alcune verdure perché la priorità era per le zone terremotate. Ma tutto questo è stato vissuto come “tozen”, cosa normale, dovuta. Nella zona di Tokyo, e poi in tutto il Paese sono partite ben presto campagne per il risparmio energetico in uno sforzo comune di solidarietà e di sostegno.  
A questo movimento di primo intervento, ha fatto seguito un’azione più sistematica e coordinata. Numerosi volontari si sono organizzati sia attraverso Istituzioni governative e non-governative, sia attraverso organizzazioni religiose. Anche attualmente ben 623 gruppi di volontari operano nelle zone colpite. Tra questi, si distinguono la Shanti Volunteer Association del Soto Zen, la Otani Volunteer Network e la Higashi Honganji Volunteer Center del Jodo Shinshu, la Isshoku Heiwa Kikin della Risshokoseikai, la Tenrikyo no Saigai Shien no Hinoshin tai del Tenrikyo; la Caritas Japan e le varie Caritas diocesane della Chiesa cattolica, la Federazione luterana giapponese e molte altre, organismi interreligiosi come la World Conference of Religions for Peace, a cui si sono aggiunti numerosi gruppi internazionali. Nelle sedi religiose di tutto il Paese – templi, chiese, cattedrali, si sono svolti riti pubblici di suffragio per le vittime. In alcuni casi, celebrazioni ecumeniche e interreligiose hanno riunito esponenti delle varie religioni in un’accorata preghiera per le vittime e per i superstiti.
Dal 7 maggio, nella città di Sendai, è operativo anche un progetto interreligioso chiamato “Kokoro no sodan shitsu” (Centro di assistenza e consultazione psicologica). Sostenuto dall’organizzazione interreligiosa locale della prefettura di Miyage, riunisce i responsabili delle diverse tradizioni religiose presenti sul territorio, medici e psicologi che, unitamente ai funzionari locali, cercano di dare assistenza psicologica e religiosa alle vittime del sisma, segnate nell’animo non meno che nel corpo.
Verso la ricostruzione
A sei mesi dal terribile sisma, il problema della ricostruzione, non solo materiale, si presenta in tutta la sua drammaticità soprattutto a causa dell’emergenza nucleare. Si tratta di ridare non solo case, lavoro e un habitat a popolazioni spogliate di tutto, ma di ridare loro un senso, una speranza, un dignitoso futuro. Mi vengono, qui, spontanee le parole della Bibbia: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). A questi fratelli e sorelle, piagati nell’anima non meno che nel corpo, non possono bastare un tetto e una ciotola di riso. E’ qui che le Religioni sono chiamate a intervenire e illuminare di senso la vita e la morte, a dare insieme una risposta a quei «reconditi enigmi della condizione umana, che – come ricorda la Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II – ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore» (n. 1).
A tal proposito, mi sembrano rilevanti i risultati di un sondaggio condotto in tutto il Paese a metà giugno dalla Compagnia di Assicurazione Sumitono. Il sondaggio che ha interessato un campione di circa 12.000 persone di tutte le età e di tutte le zone del Paese, chiedeva di esprimere con un solo ideogramma le priorità da perseguire in vista della ricostruzione.
I risultati hanno dato in termini assoluti:
1. Kizuna (legame, solidarietà)
2. Ai (amore, nella sua accezione cristiana di carità, amore del prossimo)
3. Shin (fede, fiducia).
Tre “priorità” che trascendono di gran lunga le necessità puramente materiali e che rivelano il bisogno di valori forti, capaci di dar senso alla vita, al dolore e alla morte.     L’emergenza atomica ha certamente acuito questo bisogno, ponendo i giapponesi di fronte a scelte epocali: continuare nella corsa di un progresso materiale che rischia non solo di distruggere l’ambiente ma di anche di privarli dell’anima, oppure progettarsi su nuovi paradigmi che tengano conto non solo dell’efficienza e del progresso materiale, ma anche di una qualità più umana della vita?
Lo scorso 6 agosto a Hiroshima, in occasione della cerimonia di commemorazione dello sgancio della prima bomba atomica, e il 9 agosto a Nagasaki, nello stesso anniversario, per la prima volta vi sono state manifestazioni di dissenso all’uso civile del nucleare. In quell’occasione, il primo ministro Naoto Kan ha dichiarato, prima a Hiroshima e poi a Nagasaki, che per il futuro, il Giappone non dipenderà dall’energia atomica. Senza entrare nel merito politico della questione, penso di poter dire che il consenso popolare stia andando in questa direzione pur nella consapevolezza che tale scelta non sarà facile e imporrà numerosi sacrifici.
Al Giappone, unico Paese al mondo ad aver sperimentato l’orrore dell’atomica di cui porta ancora le ferite inguaribili, è forse riservato dalla storia anche il compito di avviare per primo una nuova era in cui – come ha auspicato Benedetto XVI nel Discorso del 9 giugno scorso ai Nuovi Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede – «adottare in ogni circostanza un modo di vivere rispettoso dell’ambiente e sostenere la ricerca e lo sfruttamento di energie adeguate che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l’uomo devono essere priorità politiche ed economiche. […] Il cambiamento di mentalità in questo ambito, anzi gli obblighi che ciò comporta, deve permettere di giungere rapidamente a un’arte di vivere insieme che rispetti l’alleanza tra l’uomo e la natura, senza la quale la famiglia umana rischia di scomparire. Occorre quindi compiere una riflessione seria e proporre soluzioni precise e sostenibili. Tutti i governanti devono impegnarsi a proteggere la natura e ad aiutarla a svolgere il suo ruolo essenziale per la sopravvivenza dell’umanità. […] Consapevoli del rischio che corre l’umanità dinanzi a una tecnica vista come una “risposta” più efficiente del volontarismo politico o dello sforzo paziente educativo per civilizzare i costumi, i Governi devono promuovere un umanesimo rispettoso della dimensione spirituale e religiosa dell’uomo. Infatti, la dignità della persona umana non cambia con il fluttuare delle opinioni ».
Se nella difficile ricostruzione umana e materiale, il Giappone saprà farsi carico e promotore di queste istanze, le gravi perdite umane dovute sia al maremoto sia alle conseguenze dell’atomica, non saranno state vane.
In questo non facile cammino, le Religioni hanno un compito e una responsabilità di primo piano: quello di formare coscienze libere e consapevoli, rette e solidali, amanti del bene comune, capaci di operare scelte di vita e non di morte. In un mondo divenuto, sì, “villaggio globale”, ma sempre più esposto ai rischi di speculazioni di mercato e a logiche di potere sovranazionali, la forza creativa della fede e la visione religiosa della vita possono diventare un potente argine al male, allo sfruttamento inconsiderato delle risorse, alla prevaricazione dell’uomo sull’uomo, al predominio di un popolo sull’altro.     
Solo se le Religioni, pur nella profonda diversità che le distingue, sapranno insieme mettersi a servizio dell’uomo, e in particolare dell’uomo che soffre, saranno anche in grado di dare risposte credibili ai “reconditi enigmi della condizione umana” che, ieri come oggi, “turbano il cuore dell’uomo”. Sapranno così trovare anche nuovi spazi di collaborazione reciproca e di dialogo nella ricerca mai saziata della Verità religiosa che tutti ci interpella.
Se è vero che il cammino della collaborazione interreligiosa e del dialogo è, per certi aspetti, ancora agli inizi, Convegni come questo di Uomini e Religioni ne rivelano la validità e la fecondità: è, infatti, in gioco la sopravvivenza dell’umanità e del creato, la “casa comune” che ci è stata donata per vivere in pace e in armonia come figli di Dio e fratelli di una stessa famiglia, e il futuro stesso dell’umanità.


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