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October 1 2013 09:30 | Clemenza Hall, ABI

Senso e non senso della sofferenza



Antoine Guggenheim


Director of the “Collèges des Bernardins”, France
Lasciamoci interrogare dalla sofferenza, o piuttosto da coloro che soffrono. In questi ultimi anni tre intellettuali mi hanno aiutato ad ascoltare la parola di persone sofferenti: Irving Greenberg, Jean-Claude Larchet et Julia Kristeva. Sono convinto che i loro libri riflettano un’esperienza personale.
Irving Greenberg è rabbino a New-York. Ha fondato assieme a Elie Wiesel un organismo di studi che favorisce l’incontro tra le differenti tendenze dell’ebraismo, e anche tra cristiani e non credenti. Lo conosco grazie alla pubblicazione di una conferenza dal titolo La nube e il fuoco. Ebraismo, cristianesimo e modernità dopo l’ lOlocausto. 
Dalla considerazione delle molteplici sofferenze causate dai criminali nazisti durante la Shoah, egli fa scaturire una parola sulla condizione umana di cui tutti debbono tener conto. «Nessuna affermazione, che sia di natura teologica o no, dovrebbe essere formulata se non è credibile alla luce del fatto che dei bambini sono stati gettati vivi nei loro formi crematori»  L’ascolto della sofferenza dei bambini ebrei, vittime innocenti della violenza dell’ideologia e dell’odio antisemiti, fa arrivare al cuore una parola di verità rude e salutare, che giudica le intenzioni e gli atti. 
Greenberg insiste che questa parola è universale: essa si rivolge a tutte le coscienze, qualunque sia l’appartenenza spirituale. Per fare un paragone: la parola dei sofferenti dice una verità sull’umanità che bisogna ascoltare e raccogliere, come le leggi della natura o i precetti morali.
« Né la fede tradizionale, né l’ateismo ci permettono di renderci conto della dimensione incommensurabile  dell’Olocausto, poiché nessuno dei due ha dato una risposta veramente appropriata ; nessuno  dei due è di per sé credibile, di fronte a bambini gettati vivi nei forni crematori. » 
Non è mia intenzione di affermare qui il carattere singolare ed esemplare della Shoah, anche se penso che si può e si deve argomentarla davanti alla coscienza umana globalizzata, come una lezione di storia spirituale dell’Europa per il mondo. Voglio invece far riflettere sulla portata universale dell’avvenimento, che aiuta a raccogliere l’appello rivolto a tutti contenuto in ogni grido di sofferenza. Non per nulla la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, è redatta da  René Cassin dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Come ogni parola di verità, quella dei sofferenti interroga le conoscenze e le pratiche fino ad allora accumulate e date per assodate. Non si tratta di una relativizzazione di dottrine e di costumi su una basa affettiva, ma di un approfondimento dell’esperienza umana nel dolore e nella paura. Per  Greenberg, come per Wiesel, ad Auschwitz non muore la fede, né la fiducia illuministica nella ragione e nelle scienze, esse sono trasformate. O piuttosto, se esse muoiono, non è per essere annientate, ma per rinascere, liberate direbbe la Bibbia,  transvalutate direbbe Nietzsche.
Né la ragione, né la fede sono sufficienti ad evitare Auschwitz, a sradicare la violenza,  o a giustificare la sofferenza, e neanche sono state condannate da Auschwitz – altrimenti , bisognerebbe allinearsi ai carnefici e al loro nichilismo. Nella loro struttura, la fede come la ragione, sono due ali o due gambe dello spirito umano, sono in cerca di verità. Esse non potrebbero senza errore, suicida, risparmiarsi dall’ascoltare la voce dei sofferenti. Per questo la fede e la ragione sono degli strumenti di resistenza spirituale alla violenza e alla sofferenza. Ma la risposta alla sofferenza, o, in maniera più generale, al male commesso o subito, cioè la salvezza, non viene solo da loro. Il male è uno scandalo poiché é una realtà. La risposta alla violenza, alla sofferenza e al peccato, appartiene alla potenza dell’amore, che si trova più negli atti che nelle parole, come ha detto Ignazio da Loyola. La parola dei sofferenti chiama ad un atto di riparazione e di redenzione affettuoso e competente.
 
Jean-Claude Larchet è un teologo cristiano della chiesa ortodossa, specialista dei Padri della Chiesa d’Oriente. Ha pubblicato nel 1999 Dio non vuole la sofferenza degli uomini . Possiamo dire che egli risponde senza conoscerla, alla domanda di Greenberg di ascoltare la parola della Shoah e dei sofferenti all’interno della fede cristiana. Ciò lo conduce ad una esposizione rinnovata di questa, in particolare del posto e del significato della croce di Gesù. Evidentemente, non si tratta di cancellare questo simbolo universale del cristianesimo, né di cambiare il fondamento della teologia, ma di comprenderlo diversamente, alla luce di una parola sorta dall’afflizione di Israele nel ventesimo secolo.
Si tratta di far morire una falsa percezione della croce di Gesù che «giustifica» e «valorizza» la sofferenza.   La liberazione infinita della croce diviene, in una prospettiva falsata, un debito infinito ed irrisolvibile verso un morto, benché egli sia l’accesso alla presenza piena ed efficace della sorgente della vita. 
Una percezione deformata della croce, che diventa l’esaltazione di ciò che essa denuncia, può rivestirsi di abiti teologici. Essa gioca su delle molle ben analizzate dell’animo umano (masochismo e sadismo). La croce, invece di confermare la bontà di Dio e dell’Uomo inserendosi in un disegno di salvezza buono ma ferito dal peccato, si presenta come la conseguenza di una dialettica che stravolge Dio e la sua immagine. La meditazione sapienziale di San Paolo (Rom. 5) sulla Genesi (1-4) ripercorre il corso della storia fino al suo inizio violento per affermare la sua innocenza originale. Essa diviene la premessa di una metafisica religiosa che incatena Dio e l’uomo in una competizione tragica d’amore e di odio, che esprime attraverso una visione giansenista del peccato originale in certe pagine di Pascal su Agostino: «Noi nasciamo così contrari a questo amore di Dio e questo è così necessario che bisogna che noi nasciamo colpevoli, altrimenti Dio sarebbe ingiusto»  
Questa teologia della croce è in contraddizione, cioè in tensione insormontabile e distruttrice, con la percezione del cristianesimo come religione della gioia e della carne nelle dottrine della creazione, dell’incarnazione e della resurrezione, della vita eterna donata in comunione nei sacramenti della Chiesa. La teologia della sofferenza che bisogna riformare all’ascolto dei sofferenti, alla scuola di Greenberg et di Larchet, non mette solamente in tensione la sofferenza e la gioia, secondo l’esperienza umana più universale, che pone in tensione benefica il principio del piacere ed il principio della realtà, secondo il linguaggio di Freud; essa comprende la croce, la teologia della croce (theologiacrucis), in contraddizione col messaggio centrale del cristianesimo, religione di salvezza e di vita.
La croce acquista senso al centro di una parola teologica che la include e la conferma. Essa è al centro della storia, esclusivamente perché apre il cammino dal paradiso perduto alla nuova Gerusalemme. Essa è una valle (Getsemani nella valle del Cedron), o una piccola altura (il Golgota), fra tre colline (il monte degli Olivi, il monte Sion, il monte del Tempio). 
Dio non ha creato per la sofferenza: egli ha fatto l’uomo per l’immortalità. Ha assunto la sofferenza in Cristo non per esaltarlo, ma per svelare la verità della parola dei sofferenti, come Giobbe, il cui esempio annuncia e illumina Cristo . Giobbe si ribella contro l’accusa rivoltagli dai suoi amici di essere punito a causa di una colpa nascosta: Quale? Non è quella di infliggere agli uomini la rivelazione della loro finitezza e di ricordargli i doveri dell’empatia, della giustizia e dell’amore verso l’Uomo sofferente? «La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo: è questa l’opera del Signore, una meraviglia ai nostri occhi» (Salmo 118). Questa legge dell’agire divino, meditato dal salmista, diviene un luogo di salvezza universale a causa del rigetto dell’«Eletto» per eccellenza; Il Messia sofferente. La dolcezza dell’agnello immolato e vivente, eletto prima della fondazione del mondo, è una vittoria decisiva sulla sofferenza che «esclude».
 
 Julia Kristeva è psicanalista e filosofa, lei stessa si definisce non credente, atea. E’ a lei che il papa Benedetto XVI ha chiesto di intervenire durante l’incontro di Assisi del 2012 per esprimere la posta in gioco di tale riunione, vista da una erede dell’umanesimo dei Lumi. Ho letto alcuni suoi lavori, secondo la domanda di Greenberg, come il tentativo di mettere la società laica davanti alle sue responsabilità umane all’ascolto della parola dei sofferenti, dopo la Shoah. Io non so se lei direbbe con Greenberg che «alla luce di Auschwitz, la civilizzazione secolare del ventesimo secolo non è degna della nostra fiducia» , ma sono sicuro che lei rifiuta con lui di vedere il futuro dei Lumi europei in un mondo dove «noi siamo spesso messi davanti a questa alternativa: o la religione, o la vita secolare in un mondo chiuso ad ogni trascendenza, ad ogni incursione del divino» .
Avendo conosciuto personalmente l’esperienza dell’ateismo di stato, della sua barbarie culturale e della sua violenza mortifera, al quale, allo stesso modo di un Vaclav Havel, lei non può dunque prestare «giuramento», lei rifiuta di esaminare l’avvenire di un vincolo democratico nei termini di un ritorno all’ alleanza tra religione e contratto sociale. Cerca piuttosto nell’esempio inimitabile e limitato della carità cristiana, l’ispirazione di una «nuova filosofia politica» che sappia mettere nel suo cuore l’ascolto delle persone handicappate .
«Alcuni artisti e pensatori, ciascuno a suo modo, sono giunti alla convinzione moderna che sottintende quella che io chiamo la terza fase nella storia dell’handicap: si tratta della conoscenza e della riconoscenza della fragilità altrui, più che della sua eccellenza, che costituisce il legame democratico in quanto amicizia di chiunque. Il riconoscere l’altro nella sua differenza sconcertante diviene anche la nostra passione; il volto enigmatico di cui parla Levinas ci obbliga, poiché l’essenza dell’uomo aleggia nella sua stessa vulnerabilità. Con ciò si misura l’umiltà post-cristiana, e l’incommensurabile ambizione di realizzare una solidarietà complessa, capace di sostenere un umanesimo di pluralità e di condivisione».  
Il progetto politico non ha per missione il farsi carico delle persone, che è il compito degli uomini e delle donne di religione, o di ogni filantropia, ma ha la responsabilità di donare a ciascuno i mezzi per esercitare le proprie capacità di persona e di cittadino. La situazione dell’handicap simbolizza la vulnerabilità e la mortalità fisica o psichica dell’umano . Essa «esclude» in maniera così radicale da essere una sfida al progetto di solidarietà della comunità umana sotto ogni aspetto, economico, politico e religioso. Il «prendere in carico» ha un prezzo, ma è soprattutto una risorsa. Ma bisogna andare più lontano se si ascolta la parola della sofferenza come una rivelazione che buca le nostre ombre .
“Per tirar fuori l’handicap da un quadro stretto che racchiude ed isola le persone sofferenti, alla stessa maniera degli specialisti che lo hanno in «carico», e per cercare di trasformare la vecchia idea della «presa in carico» in una preoccupazione pubblica centrale, interessata a fare della nostra Repubblica una vera democrazia di vicinanza”, bisogna  invertire la questione politica, come abbiamo imparato ad invertire la questione teologica. La parola di persone in situazione di handicap rivela l’essenza del legame sociale. Essa riapre il futuro di un’utopia democratica per le società moderne: « E sì, invece di parlare precisamente della ‘presa in carico, l’handicap ci aiuta reinventare il sociale?» 
 
Mettendomi all’ascolto dell’esperienza di questi tre intellettuali, toccati dal mistero e dallo scandalo della sofferenza, ascolto la voce e la parola di persone prese tra il senso ed il non senso della condizione umana, ed animale, sofferente. Vedere, capire, agire è qui anche il cammino per essere degni della fraternità che ci unisce. Ma soprattutto: vedere con, capire con, agire con, è nella comunione dei santi che si rompe il blocco dell’isolamento e della paura. Nel Vangelo, non sono i ciechi, i sordi e i paralitici che operano con Gesù il miracolo dell’entrata delle folle affaticate nella speranza? San Paolo, anche lui, ha ascoltato la parola dei sofferenti ed ha ascoltato la voce di un parto: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo » (Romani 8, 19-23)
 

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