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8 Septiembre 2014 16:30 | Thomas More, Campus Carolus, Aula 006

Intervento



Jean-Claude Petit


Periodista y escritor, Francia
Signore, Signori, cari amici,
 
Informare sui conflitti è, senza alcun dubbio, uno dei compiti più difficili che abbiano i mezzi di comunicazione, che siano di stampa, audio visuali o informatici. I giornalisti e le loro redazioni vi sono coinvolti in maniera del tutto particolare, molto più difficile intellettualmente, moralmente e fisicamente che in ogni altro campo dell’informazione. Ogni conflitto, in effetti, è per sua natura complesso. Ogni conflitto è oggetto di manipolazioni, di pressioni e di minacce degli attori coinvolti.  Ogni conflitto, infine, e non lo sappiamo mai abbastanza, è portatore di grandi rischi per la vita stessa dei giornalisti. Questi ultimi anni, lo sappiamo, sono stati mortiferi per la professione.  
 
Ma per trattare dei conflitti in totale fedeltà alla loro missione di informare, i mezzi di comunicazione incontrano altre due difficoltà sulle quali desidero soffermarmi poiché sono, mi sembra, al cuore del futuro della pace.
 
La prima di queste difficoltà si fonda su una costante di oggi odierna, dal primato dato all’immediatezza in un numero troppo elevato di media. Bisogna sapere che nessun conflitto è, in nessun caso, riducibile alla sua sola dimensione armata. Ogni conflitto ha una storia. Ogni conflitto ha una geografia. Ogni conflitto ha degli attori diversi. Non prendere sufficientemente in considerazione questi tre dati principali, in altre parole il tempo necessario per una spiegazione almeno un po’ razionale del conflitto, è inaridire l’informazione, in qualche modo amputarla della sua colonna vertebrale. Con una grave conseguenza. Ridurre in effetti i conflitti alla loro immediatezza, e dunque troppo spesso, alla sola emozione – legittima ma insufficiente – che provoca la scoperta e la contabilità delle vittime, è limitare la loro comprensione globale. Ora questa comprensione è assolutamente indispensabile ai cittadini poiché possano formarsi un proprio giudizio e, se l’occasione si presenta, impegnarsi nella ricerca di un compromesso o di un aiuto umanitario. In altre parole, prendere in considerazione il contesto storico, geografico, politico dei conflitti è, nello stesso tempo, un obbligo professionale e un primo appoggio all’avvenire della pace.
Per illustrare il mio pensiero, prendiamo, se volete, un esempio nell’attualità. Ci mostrerà chiaramente come la storia, la geografia, la diversità degli attori e sempre più la cultura religiosa siano essenziali per una buona comprensione della posta in gioco. Nel cuore dell’estate, lo Stato islamico in Iraq e nel levante, l’EIIL, facendo cadere a pezzi la frontiera tra l’Iraq e la Siria, dopo aver preso la città di Mossul, si è eretto in califfato con potere di califfo autoproclamato su tutti i musulmani del mondo. Si conosce l’ampiezza che ha preso e che continua a prendere questo avvenimento che minaccia la pace del mondo. Ma solo una carta geografica del Medio oriente, un ritorno alla prima guerra mondiale, la caduta dell’impero ottomano, il ruolo di Lawrence d’Arabia, così come una deviazione sulla teologia musulmana e sulla geopolitica consentono di comprendere gli scopi.
La carta geografica mostra chiaramente come una regione intera sia stata destabilizzata politicamente, economicamente e umanamente e può esserlo ancora di più domani con l’allargamento dello Stato islamico verso il Libano e la Giordania, con il rischio di uno scoppio generale. La storia ricorda che nel 1916, con gli accordi Sykes-Picot, e con l’aiuto di Lawrence d’Arabia, la Francia e la Gran Bretagna si sono spartite il Medio Oriente in disprezzo delle frontiere etniche e confessionali di una regione dalle minoranze multiple (cristiani, curdi, drusi, alauiti). È a questa eredità che lo Stato islamico vuole mettere fine. Un colpo d’occhio sulla storia dell’Islam permette di constatare che il califfato rimanda alla successione diretta dal Profeta Maometto di cui il califfo è il successore con autorità su tutta la comunità musulmana. Infine, la geopolitica apre sul campo delle alleanze pubbliche o segrete, riconosciute o negate, tra lo Stato islamico in Iraq e del Levante e un certo numero di Stati musulmani della regione sullo sfondo della guerra tra sunniti e sciti. 
Se i mezzi di comunicazione non fanno lo sforzo necessario di spiegare, con le carte geografiche, ritorno alla storia e l’analisi delle parole, e non consacrano a ciò il tempo indispensabile, non possono che suscitare presso i cittadini un sentimento di frustrazione e d’impotenza, che conduce a sua volta al manicheismo e alla paralisi di ogni azione per la pace.
La seconda difficoltà incontrata dai media tocca la natura stessa dei conflitti. Non sono essi, in effetti, nella realtà, altro che degli strappi successivi del tessuto specifico del mondo, quale che sia la loro origine, la loro durata, la loro gravità? In altre parole, la loro trattazione mediatica non può non fare a meno della pace di cui sono la negazione assoluta e che oltre tutto allo stesso tempo è il solo esito possibile ai loro misfatti. Significa dire che bisogna parlare della pace di volta in volta quando la violenza infuria? Certamente no. Questo significa che la trattazione mediatica dei conflitti non deve limitarsi alla loro descrizione puntuale come avviene troppo spesso. Un gran numero di loro, per non dire la quasi totalità, passano per la trappola dell’oblio come se fossero semplici fatti diversi. Si attenderà, per parlarne, che le armi parlino di nuovo. Diciamolo chiaramente: noi ci troviamo spesso davanti a una mancanza grave di etica professionale dei media il cui ruolo è operare per lo sviluppo di una cultura di pace: “il vero giornalista, dice la carta etica dell’Unesco, difende i valori universali dell’umanesimo, in particolare la pace, la democrazia, i diritti dell’uomo (…) Contribuisce, attraverso il dialogo, a stabilire un clima di fiducia nelle relazioni internazionali, adatto ad organizzare ovunque la pace e la giustizia.” (1)
 
Prendiamo, a proposito di questa seconda difficoltà, un altro esempio nell’attualità recente: il conflitto israelo-palestinese a Gaza. Per andare oltre l’informazione circostanziata sul conflitto stesso e sulle sue vittime, sarà compito dei media, nelle settimane e nei mesi che verranno di interessarsi e di interessarci su più elementi importanti, suscettibili di favorire o al contrario di ritardare la pace ancora una volta. Si tratta innanzitutto certamente della ripresa dei negoziati in Egitto intorno alle questioni principali   , che sono da una parte la rimozione del blocco di Gaza e la sua apertura verso la Cisgiordania, dall’altra le garanzie date a Israele per la sua sicurezza. Verranno in seguito i problemi legati alla ricostruzione del territorio e le questioni a questo connesse. Chi pagherà e quanto? A quali condizioni? Con quale calendario e quali garanzie  per l’avvenire? Spetta infine ai media interessarsi – e interessarci con precisione, rigore e onestà – alle violazioni del diritto internazionale da parte dei belligeranti e alle loro eventuali conseguenze giudiziarie o meno.
Già da questo semplice elenco si vede bene come la gestione delle conseguenze di questo conflitto sia essenziale per l’avvenire della pace. Solo i dati così riuniti, se sono sufficientemente numerosi, precisi e rigorosi, permetteranno ai cittadini del mondo di formarsi un’opinione invece che di restare in un sentimento di impotenza deleterio. E forse di divenire a loro modo, anche il più modesto, attori di pace. O in ogni caso di considerare poco alla volta la pace come bene superiore dell’umanità, senza il quale nessuna convivenza umana è pensabile.
Paradosso e realtà: incontestabilmente una parte dell’avvenire della pace si gioca nel modo in cui i media trattano i conflitti del pianeta. Il loro approccio lascia oggi molto a desiderare. Ai cittadini e più precisamente agli attori della pace il compito di essere più che mai vigilanti.
 
Vi ringrazio.
 
 
(1) Rencontre de l’Unesco, Prague et Paris, 1983

 

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