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Credere La Gioia della Fede

11 Août 2016

Da luogo di dolore a luogo di speranza

Quando l'accoglienza è interreligiosa

Dal luogo dove nel 1943-1944 partivano gli ebrei deportati la Comunità di Sant'Egidio ha allestito un centro per i migranti con l'aiuto di volontari cattolici, ebrei e musulmani

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Con tenerezza Fistum tiene per mano il figlio di tre anni. Sbarcati a Catania una settimana fa, sono arrivati a Milano da mezza giornata. La loro fuga dall'Eritrea, iniziata sei mesi fa, prevede solo poche notti nel capoluogo lombardo: presto si riparte per la Svezia, anche se quest'anno è più difficile passare le frontiere all'interno dell'Europa.
Tuttavia, mentre la testa è volta a nord, il cuore batte a sud: «Mia moglie è rimasta a Tripoli: non avevamo abbastanza soldi, partirà appena mio cugino, che vive in Inghilterra, ce lì presterà», scuote il capo. Fistum è preoccupato: «In Libia c'è la guerra civile, ho visto donne violentate dai miliziani. Ho paura per lei». Intanto il bambino trema, per la stanchezza gli è venuta la febbre.
SNODO VERSO IL NORD EUROPA
Alla Stazione Centrale di Milano, snodo ferroviario verso il Nord Europa, la Comunità di Sant'Egidio ha allestito un centro da quaranta posti a notte all'interno del Memoriale della Shoah: siamo nei sotterranei da cui, fra il 1944 e il 1945, partivano i convogli carichi di ebrei diretti ai lager. Due vagoni stanno qui, a memoria di quelli che venivano stipati e sollevati fino alla quota dei binari, per poi partire per i campi. Tra i pochi sopravvissuti, Liliana Segre. Nel 1943 la sua famiglia pagò un trafficante per passare la frontiera con la Svizzera, ma fu respinta da un poliziotto elvetico che sentenziò: «Non potete entrare... la barca è piena». «Mi buttai ai suoi piedi - ricorda spesso l'allora tredicenne - supplicandolo tra i singhiozzi di non rimandarci in Italia». Non ci fu nulla da fare, furono portati al carcere di San Vittore e poi ad Auschwitz.
A giugno 2015, quando i dormitori cittadini erano pieni e i profughi dormivano per strada, Liliana ha condiviso l'idea dell'ospitalità, che si replica quest'estate. «Accogliere interpreta i più alti valori di solidarietà che ci ha trasmesso la tragedia della Shoah e rende concreti gli insegnamenti dell'etica e della morale ebraica», spiega Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione Memoriale. Proprio Liliana ha voluto che la parola "Indifferenza" fosse scritta a caratteri cubitali all'ingresso. Un monito, per ricordare l'indifferenza dei milanesi di allora di fronte a quanto accadeva «sotto i loro occhi».
LA RETE DEI VOLONTARI
«Oggi si è trasformato nel luogo della solidarietà contagiosa e gratuita: nel 2015 abbiamo accolto 5mila profughi in sei mesi, mentre quest'anno, appena a un giorno dalla notizia della riapertura, duecento milanesi ci hanno scritto per offrirsi come volontari», dice Giorgio Del Zanna di Sant'Egidio. Oltre a dormire, c'è la possibilità di fare la doccia e ricevere cena e colazione. Tutto senza alcun costo per le istituzioni: c'è chi regala il tempo come volontario, chi porta i biscotti per la colazione o lo shampoo per la doccia, chi offre il proprio cellulare. Alidad, quindicenne afghano che sta attraversando il mondo da solo, lo usa per chiamare la mamma: «Voglio sentire come sta». La sua famiglia è hazara, musulmani sciiti, la minoranza che è presa di mira dai talebani: «Gli stessi che hanno ucciso mio padre», dice lasciando senza parole. «Questo "riscatto della storia" dimostra che la gente ha voglia di aiutare», continua Giorgio. «Se è vero che l'ostilità è contagiosa, la solidarietà lo è altrettanto».
Costruire ponti, non muri, come chiede papa Francesco. La rete di volontari è alquanto variegata: c'è l'insegnante che lancia una raccolta di cibo a scuola e poi invita gli alunni, il pensionato che prepara le brandine insieme al ragazzo rom che è stato aiutato da Sant'Egidio a lasciare le baracche e ora si impegna per í più poveri della città.
«Il servizio diventa dialogo interreligioso vissuto nella città», dice la reverenda Vickie Sims. La sua chiesa anglicana è una delle protagoniste dell'«armoniosa alternanza» che copre i turni al mattino e alla sera: insieme a Sant'Egidio, ci sono parrocchie cattoliche, ebrei della mensa Betavon e volontari musulmani.
PARROCCHIE IN PRIMA LINEA
Mentre prepara i piatti, Giuliana Canti di Santa Francesca Romana, 65 anni, ripercorre il coinvolgimento della sua parrocchia: «Nella primavera 2014, i primi profughi, soprattutto adolescenti eritrei, cominciarono a dormire nel parco del nostro quartiere. Non mancavano le proteste, uno di noi si è guardato intorno, ma non sapeva cosa fare».
Poi è arrivato l'invito di Sant'Egidio a un incontro: «Ci spiegarono cosa succede in Eritrea, un regime in cui i ragazzini scappano dal servizio di leva permanente: vieni arruolato nell'esercito a 14 anni e finisci a fare lo schiavo di Stato a vita in miniera. "Forse si può fare qualcosa", ci dissero».
Iniziarono a dare da bere e da mangiare ai profughi accampati in quartiere; poi arrivò la richiesta di accompagnarli ai dormitori cittadini, fino all'avventura del Memoriale della Shoah. Intanto la voce si spargeva e il drappello iniziale si moltiplicava: «Lo scorso anno sono stati più di cento i membri di Santa Francesca Romana coinvolti», racconta Giuliana. Un gruppo misto, dai neomaggiorenni agli ultrasettantenni: «Quest'esperienza ci ha legato, facendoci conoscere persone nuove e mescolando i gruppi parrocchiali». «Soprattutto è stato un modo di annunciare il Vangelo», conclude Giuliana, «portando un segno di cosa vuol dire incidere da cristiani sulla storia del nostro quartiere».


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