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15 Gennaio 2015

Oscar Romero

Il beato che amava gli ultimi

Morì da martire. E per il popolo del Salvador è già santo. Ora sta per diventarlo per la Chiesa

 
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Romero assassinato «in odium fidei». Come padre Pino Puglisi. E si potrebbe dire, come trapela da chi sta valutando le carte sul processo di beatificazione del vescovo salvadoregno, che sia stato lo sblocco della causa per il sacerdote palermitano assassinato dalla mafia ad aiutare a superare le ultime obiezioni che ritardavano l'iter del processo per Romero. Arrivando, anche in questo caso, alla conclusione, come hanno deciso all'unanimità i teologi della Congregazione per le cause dei santi, che, ad armare la mano degli assassini sia stata la volontà di contrastare il modo evangelico di vivere la fede e non le posizioni politiche. Sembra, dunque, più vicina, anche se si dovrà ancora passare per la valutazione dei vescovi e dei cardinali della Congregazione e poi dal Papa, la data in cui si potrà celebrare come beato monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador. Potrebbe anche essere, azzarda qualcuno, che si riesca a completare il tutto entro il 24 marzo, anniversario del martirio del vescovo.
In quella data, 35 anni fa, alle 18.30, monsignor Romero veniva assassinato con l'ostia in mano mentre celebrava l'Eucaristia e dopo aver appena pronunciato le parole: «In questo calice c'è del vino che aspetta di farsi sangue». Erano passati solo 3 anni da quando, nel 1977, Romero, nato nel 1917 a Ciudad, aveva assunto la guida della Diocesi. La sua nomina, caldeggiata da quanti vedevano in lui un conservatore che avrebbe difeso lo status quo, cominciò invece presto a infastidire la dittatura. «Fu ucciso», scrisse di lui padre David Turoldo, «perché aveva detto a tutte le autorità e ai soldati di non uccidere più; ucciso perché voleva  con il suo corpo (corpo di vescovo fatto popolo, cioè Chiesa) fare scudo ai poveri non ancora uccisi, scudo protettivo dei poveri in lista per essere uccisi». Un potere che, nonostante Romero fosse stato subito riconosciuto santo dal suo popolo, ha fatto di tutto per ostacolare la causa di canonizzazione. Ci sono voluti 17 anni, fino al 1997, perché, chiusa la fase diocesana, si potesse aprire quella vaticana, e c'è voluta tutta la testardaggine del postulatore monsignor Vincenzo Paglia per non demordere neppure quando le opposizioni sembravano avere la meglio.
La travagliata vicenda della causa di beatificazione aveva avuto un primo sblocco nel 2007 quando Benedetto XVI aveva dichiarato che monsignor Romero era pronto per gli altari e, recentemente, nell'aprile del 2013, con la conferma da parte della Congregazione per la dottrina della fede che erano state superate le riserve di carattere «dottrinale e prudenziale». Papa Francesco, di ritorno dal viaggio in Corea, in agosto, aveva chiosato: «Adesso i postulatori devono muoversi perché non ci sono più impedimenti».
Non è un mistero che, in questi anni, sono stati contrari alla beatificazione alcuni degli stessi vescovi salvadoregni e che il Governo, a lungo guidato dallo stesso partito accusato di aver organizzato l'assassinio dell'arcivescovo, abbia fatto in passato pressioni.
Eppure, le responsabilità di chi cercava di rallentare la causa erano da lungo tempo note. La Commissione della verità, istituita sotto l'egida dell'Onu in seguito agli accordi di pace del 1992 che ponevano formalmente fine a 12 anni di guerra con 80 mila morti, aveva chiaramente indicato nel ministro della Difesa, generale René Emilio Ponce, uno dei mandanti dell'omicidio dei sei gesuiti dell'Uca uccisi nel 1989 e nel leader del partito nazionalista Arena, Roberto D'Aubuisson, il mandante dell'assassinio di Romero. Secondo la relazione finale della Commissione, i militari portavano la responsabilità dell'85 per cento delle violazioni dei diritti umani durante la guerra. Ma l'amnistia proclamata il 20 marzo 1993, cinque giorni dopo la pubblicazione del documento della Commissione, fece sì che rimanessero impuniti i crimini più gravi commessi durante il conflitto. «Si preferì il perdono e la dimenticanza», dichiara  Rosa Chavez, vescovo ausiliare di San Salvador, «e abbiamo avuto per anni al Governo il partito che ha organizzato l'assassinio di Romero. Un partito di estrema destra che non ha alcuna volontà di affrontare il problema della democrazia, delle radici dell'ingiustizia, della povertà».
Quella povertà e quell'ingiustizia per le quali Romero è morto. E non è politica, ma Vangelo, come ha evidenziato la Commissione dei teologi. «Una Chiesa che vuol essere fedele al Vangelo», sono parole di Romero, «deve svegliare la coscienza dei salvadoregni, perché non siano solo massa, ma figli di Dio, comunità dove regni il vero amore». Senza avere paura del martirio. Perché, come ha ricordato papa Francesco con le parole pronunciate nel 1977 dallo stesso Romero: «Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore».  


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