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2 Agosto 2016

Il caso. Dopo la Messa simbolo le voci della comunità islamica e di Sant’Egidio chiedono di non fermarsi

L’appello: "adesso bisogna lavorare per l’integrazione in periferia”

 
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“Non basta una domenica a Messa per combattere il fanatismo e il terrorismo, bisogna fare un lavoro quotidiano, in profondità, a partire dalle periferie”. Fouad Sokhal, marocchino 40enne, magazziniere di professione, in Italia con moglie e figli, ha deciso di diventare volontario. E ha scelto la Comunità di Sant’Egidio. “Abbiamo creato il movimento Genti di Pace”, che raccoglie persone di tutte le provenienze e di tutte le religioni. Io alla messa dei cattolici ci vado almeno una volta al mese, perché accompagno gli anziani della casa di riposo di via dei Cinquecento, al Corvetto. Ci vogliono persone che abbiano il coraggio di affrontare tutti i problemi dell’integrazione, restando al fianco dei più deboli”.
Fouad, domenica, era alla parrocchia di San Martino, in piazza Greco, accanto al prete don Giuliano Savina, che gestisce assieme alla Caritas anche il Refettorio Ambrosiano. “Bisognava esserci domenica, come fatto simbolico, per dare un segnale. Ma adesso è molto importante continuare il lavoro sul territorio, lì dove ci sono i giovani che fanno fatica ad integrarsi, che coltivano l’odio perché si sentono esclusi. Il Corvetto è un quartiere dove questa rabbia si sente molto forte. Gli italiani scappano, il ghetto è un rischio molto concreto. Bisogna lavorare tanto per evitare che qualcuno si radicalizzi perché si sente ai margini della società, come è avvenuto in Francia.
La Comunità di Sant’Egidio propone molte attività per favorire il dialogo e la reciproca conoscenza fra chi crede in religioni diverse. Fra queste, durante il Ramadan, una cena interreligiosa in occasione dell’Iftar, la rottura del digiuno quotidianamente celebrata dai musulmani. “Cerchiamo di essere sempre presenti nelle periferie - aggiunge Fouad - per parlare con la gente e favorire l’integrazione. A volte, questo compito è difficile perché manca il lavoro, mancano le condizioni perché i giovani immigrati possano mettere su famiglia. Anche tanti italiani non ne possono più, si rischia la guerra fra poveri e bisogna vigilare sempre perché la rabbia degli esclusi non esploda”.
E’ la stessa cosa che dice il pachistano sciita Hussein Touri, 26 anni, anche lui volontario per la chiesa anglicana e collaboratore di Sant’Egidio. Arrivato due anni fa in Italia, ha chiesto subito di prestar servizio al Memoriale della Shoah dove vengono accolti i profughi d’estate. “Sono stato profugo anch’io e so che cosa vuole dire. So che solo il dialogo fra le religioni, impiantato nel quotidiano, può dare risultati - spiega-. Io vado la sera alla stazione Garibaldi a distribuire cibo e vestiti agli amici della strada, faccio il badante in una famiglia cristiana. E d’estate aiuto al Memoriale per l’accoglienza dei migranti, accanto ai cristiani di Sant’Egidio e agli ebrei della Comunità. E’ un lavoro che deve diventare pratica tutti i giorni, per tante persone, se vogliamo davvero costruire una città pacifica, dove la convivenza non sia solo lo slogan del giorno”.

 


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