Luned� 6 Settembre 2004
Hotel Marriott, Sala Washington 2
Le "nuove" guerre

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Jean-Francois Leguil-Bayart
Centro Studi e Ricerche Internazionali, Francia
  

Secondo una tesi di moda, la moltiplicazione delle guerre civili al tempo stesso sancirebbe e precipiterebbe la caduta dello Stato. In modo rivelatore esse coinvolgono eserciti, imprese o soldati di statuto privato, e si afferma sempre pi� il loro "orientamento economico" � per usare le parole di Max Weber. All'opposto dei conflitti interstatali post-westfaliani o delle guerre "totali" del XX secolo, le guerre di un "terzo tipo" che vediamo fiorire oggi non contribuirebbero alla formazione dello Stato, conformemente all'insegnamento classico della sociologia storica o della teoria delle relazioni internazionali, ma proprio alla sua distruzione o alla sua crisi. Esse verterebbero ormai sulla sua definizione e sulla natura della comunit� politica che lo costituisce, piuttosto che sulle "relazioni internazionali" come un tempo. La secessione e la pulizia etnica ne sarebbero quindi le due modalit� d'elezione, che le due tragedie della fu Yugoslavia e del Rwanda hanno innalzato a modelli ideali, omologati dall'istituzione di tribunali penali internazionali ad hoc.

La globalizzazione sembra cos� provocare, urbi et orbi, il declino dello Stato sia attraverso il suo svuotamento nel terrore, sia attraverso il suo superamento nella liberalizzazione. Essa si giocherebbe da qualche parte fra la farsa, a cui si lasciano andare gli Etats-croupions (stati-fantoccio: di apparenza, che vogliono esibire il loro potere), e la modestia, che ostentano gli stati minori. Ma in verit� le cose si sono presto rivelate pi� complicate. Gli autori che proclamavano la morte dello stato devono ora ammettere che il malato si mostra pi� resistente di quel che prevedevano. E dalla remissione alla convalescenza o alla guarigione la frontiera � a volte tenue. Della tesi della "fine dello Stato" (e dei suoi territori) non resta molto pi� della lunga lamentela sovranista il cui interesse intellettuale � inversamente proporzionale alla sua capacit� di nocivit� elettorale. Ognuno dei fenomeni che si riteneva gli avrebbero dato il colpo di grazia si � rivelato un misero esecutore. Si possono anche facilmente invertire, a titolo d'ipotesi, i diversi ragionamenti presentati dagli uni o dagli altri e mettere in dubbio che lo Stato vada a risolversi nel mercato, nel "neo-regionalismo" o nella guerra.

Riguardo a quest'ultima, i conflitti contemporanei peraltro forse non si allontanano poi tanto quanto si dice dallo schema trinitario di Clausewitz che poggia sulla distinzione fra governo, esercito e popolazione civile, almeno non pi� di quanto se ne discostavano le guerre di ieri. La tesi di un carattere radicalmente inedito della belligeranza in quest'inizio di XXI secolo � vivamente contraddetta. I conflitti continuano ad ogni modo ad avere come posta in gioco il territorio nazionale, sia sotto la forma di ribellioni che mirano ad impadronirsi della capitale e del potere centrale, sia sotto forma di guerre interstatali classiche, per esempio quella fra l'Irak e l'Iran, l'Irak e il Kuwait, l�Etiopia e l'Eritrea, l'India e il Pakistan, o ancora secondo la perpetuazione di lotte precisamente qualificate come "nazionali", come in Palestina, TimorEst, nel sultanato di Aceh, nel Sahara occidentale. In continuit� col periodo della Guerra fredda, i conflitti o le tensioni interstatali restano, almeno in Asia e Medio-Oriente, delle spinte alla centralizzazione dello Stato. E' opportuno dunque chiedersi se il contributo classico della guerra, sia essa "civile" o "di un terzo tipo", alla formazione dello Stato sia veramente cosa d'altri tempi. In Algeria sembra aver davvero consolidato il regime destabilizzato dai moti del 1988. Ugualmente in Afghanistan essa sarebbe stata il "vettore di una modernizzazione delle forme organizzative" e di "concentrazione del potere" attraverso "l'eliminazione degli attori pi� deboli", conformemente al meccanismo descritto da Norbert Elias; lo "Stato clericale" dei talebani che ne � scaturito, prima di essere rovesciato dall'intervento degli Stati Uniti, avrebbe "ricostruito progressivamente delle istituzioni, in particolare un'organizzazione amministrativa e un sistema giudiziario, a partire da una visione fondamentalista della societ�".

Quanto al caso emblematico dell'Africa subsahariana, probabilmente ha un significato opposto a quello che gli si vuole attribuire. Certo, i conflitti armati vi si sono imposti come modo preminente di mobilitazione e organizzazione politica, estendendosi progressivamente dalla met� orientale e australe del subcontinente al suo emisfero occidentale e assumendo dei toni spaventosamente esasperati. Ma, con riserva d'inventario, il tratto saliente di questa evoluzione drammatica � proprio che la guerra non distrugge lo Stato in quanto entit� sovrana. Essa colpisce soltanto alcune delle sue capacit� amministrative, sociali o economiche e ne rinforza altre, a partire dal potere militare in paesi come il Ruanda, l'Angola, l'Etiopia o l'Eritrea. Cosa incredibile in rapporto alla tesi comunemente accettata sul carattere artificioso delle frontiere ereditate dalla colonizzazione: i due tentativi separatisti pi� rilevanti, quello del Katanga nel 1960 e del Biafra nel 1967, non invalidano la regola, e non si pu� neanche dire, secondo il luogo comune, che sono le eccezioni che la confermano, tanta � la loro ambiguit�. Mo�se Tshombe agiva secondo un disegno e un mandato belgi, sudafricani e rodesiani senza poter rivendicare di incarnare una vera aspirazione nazionale o protonazionale. E il generale Ojukwu intendeva preservare l'autonomia, specialmente fiscale, di cui godeva la Regione Orientale in seno ad una Nigeria pi� confederale che federale, costituitasi nel 1914 dall'unione di tre possedimenti coloniali distinti, e governata secondo i principi decentralizzatori dell'indirect rule.(governo indiretto). In fondo, la secessione del Biafra � piuttosto parente di certi esempi inquietanti di restaurazione armata in alcuni territori coloniali, quali l'Eritrea italiana, annessa dall'Etiopia, o il Somaliland britannico, "riunificato" alla Somalia italiana. Per il resto i protagonisti delle guerre civili si sforzano di appropriarsi dello Stato, non di farlo a pezzi. N� la RENANO in Mozambico ne l'UNITA in Angola accarezzavano un progetto di spartizione del paese su basi regionaliste o etniche, e nella regione dei Grandi Laghi l'idea strampalata di un "hutuland" che � germogliata in alcuni spiriti stranieri o dalla penna macchiata di sangue di Hutu Power, non � riuscita a convincere della sua validit�.

A dispetto di tutti i clich� il Congo-Kinshasa fornisce un superbo esempio al contrario. Nonostante vi siano riunite insieme tutte le condizioni per la sua disgregazione non si pone un problema di secessione, ma di occupazione o di annessione, cio� di "colonizzazione", senza che si indebolisca la coscienza nazionale, sempre molto viva. La guerra riproduce nel Kivu il modo di governo che prevaleva all�epoca di Mobutu. Inoltre essa si � innestata su questioni che si riferiscono direttamente alla genesi dello Stato: vale a dire la definizione legale della cittadinanza zairo-congolese e il diritto alla propriet� fondiaria e all'esercizio del suffragio universale che questa riconosceva (o negava) agli alloctoni di origine ruandese.

E� esattamente quello che sta succedendo dal 2001 in Costa d�Avorio, dove i ribelli reclamano il loro ritorno in seno allo Stato e assicurano essere i portaparola dei cittadini originari dei dipartimenti del Nord, esclusi dalla comunit� nazionale a causa di una cattiva interpretazione del concetto di ivorianit�. Anche qui gli elementi chiave della crisi si delineavano intorno al diritto di voto e al diritto di propriet�. E� vero che per impadronirsi del potere questi movimenti armati hanno stretto un patto con Blaise Compaor�, il presidente della vicina Repubblica del Burkina Faso, sempre in cerca di una crisi nella quale immischiarsi per accrescere la sua influenza regionale. Non di meno, fino a prova contraria, anche quest�ultimo intende consolidare la sua influenza sulla Costa d�Avorio, non su una qualsiasi � Repubblica dioula � del settentrione. Certo egli si impegna a dividere per meglio regnare. Ma regnare ad Abidjan, non a Bouak�.

Tanto e cos� bene che si � tentati di perorare un�ipotesi inversa al catechismo dello Stato �fallito� (Failed State). La guerra in Africa non partecipa anch�essa alla formazione dello Stato (e del sistema degli Stati) attraverso la crescita degli eserciti, il gioco delle alleanze regionali, il consolidamento delle coscienze nazionali? Essa non permette forse alle classi politiche nazionali assoggettate alle condizioni dei finanziatori di emanciparsene e di recuperare la loro sovranit�, ad esempio come � avvenuto in Uganda e in Angola negli ultimi vent�anni? Le operazioni multilaterali di salvaguardia della pace non veicolano forse la concezione liberale e westphaliana dello Stato? Certamente la crescita degli eserciti, la militarizzazione delle societ� tribali (a trasmissione ereditaria), l�avventurismo scissiparo degli imprenditori politico-militari, la depredazione da parte di uomini d�affari, ditte o mercenari stranieri potrebbero contrastare questa tendenza, di annebbiarne la visibilit�, ovvero invertirla. Tuttavia non si pu� escludere che questi fenomeni facciano in fine il gioco di quella formazione dello stato, come ce lo hanno dimostrato gli storici della Guerra dei Trent�anni. Precisamente il Congo-Kinshasa non occupa forse, mutatis mutandis, il posto poco invidiabile della Germania nella prima met� del XVII secolo, tragico epicentro al tempo stesso di una violenza sociale, sprovvista non di fini circoscritti ma di una strategia coerente su scala regionale, e delle grandi manovre degli Stati vicini, desiderosi di affermare la sua egemonia e di averla vinta sulla bestia ?

Noi sappiamo che l�invenzione della modernit� � spesso � paradossale �. Se serve, anche la crudelt� fa parte del paradosso. In Sierra Leone i ribelli che offrono alle loro vittime la scelta fra le � maniche corte � e le � maniche lunghe � non rifiutano l�immaginario dello Stato n� disperano completamente dell�avvento del � buon governo �. E nel Sud Sudan il tempo del � governo � (kume, dall�arabo hukuma) e quello del � fucile � (mac) sono un tutt�uno dalla colonizzazione britannica. L�orribile guerra civile che ha causato pi� di due milioni di vittime in un�indifferenza quasi generale � fatta eccezione per gli Stati Uniti, Israele, l�Etiopia , l�Eritrea e l�Uganda che hanno finanziato o facilitato il suo proseguimento per indebolire il regime di Khartoum � ha polverizzato le rappresentazioni culturali della morte, della parentela, dello statuto sociale della donna e del bambino, in parte a causa dell�introduzione e dell�uso generalizzato delle armi da fuoco:

�Anche per tua madre, una pallottola!

Anche per tuo padre, una pallottola!

Il tuo fucile � il tuo cibo!

Il tuo fucile � la tua donna!�

cantano � in arabo � le giovani reclute nuer del Sudanese People�s Liberation Army (dell�Esercito di liberazione del popolo Sudanese). I comandanti locali di quest�ultimo affermavano, alla fine degli anni 80, che la �gouvernment war� (koor kume) nella quale erano impegnati aveva la precedenza sulle identit� personali e sociali dei combattenti, e quindi sulla vecchia etica della belligeranza. Le forme abituali di regolazione della violenza non avevano pi� corso; i massacri delle donne dei bambini e dei vecchi o le distruzioni delle case e dei raccolti non dovevano pi� essere sanzionati dalla collera divina; e nessun compenso in bestiame poteva pi� ripagare il prezzo del sangue. Ma l�esperienza del conflitto ha ugualmente condotto i Nuer a distinguere fra il �governo della sinistra� (kume in caam), identificato con la rete amministrativa regionale dei capi, dei tribunali, della polizia, dei funzionari territoriali che �vogliono che la gente viva�, e il �governo della destra� (kume in cuec), l�esercito, che porta la morte. Certo niente ci dice che da queste atrocit� e da questi distinguo potr� emergere una coscienza nazionale o uno spazio civico. Se ne pu� dubitare, anche alla luce della distruzione metodica dell�istituzione scolastica che ha reso inevitabile l�assimilazione del potere a quella di uccidere.

Il mistero spaventoso della guerra viene anche dalla sua inutilit�. Non � nostra intenzione affermare che essa � una matrice dello Stato in Africa, e ancor meno che essa � una condizione necessaria e sufficiente della sua formazione, a prezzo di una grossolana semplificazione della storia europea e in nome di un evoluzionismo di connotazione barresiana insulso e inaccettabile. Si tratta solo di non escludere quest�eventualit�, di non nascondersi la ripugnante forza creatrice di Marte e di non prendere per oro colato il discorso sul declino dello Stato.