Luned� 6 Settembre 2004
Universit� Cattolica del Sacro Cuore, Aula Lazzati
Globalizzazione e disuguaglianza

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Alberto Melloni
Istituto Scienze Religiose di Bologna, Italia
  

Le chiese cristiane e il magistero cattolico in modo particolare parlano della globalizzazione come di un processo che rimane esterno rispetto ad esse: i mercati, la finanza, la politica e la geopolitica sarebbero toccati da questo processo e il compito delle chiese sarebbe quello di mettere in luce i dilemmi soprattutto etici che esso innesca. Su questo - che � un dato - vorrei soffermarmi brevemente perch� mi pare consenta alcune riflessioni che credo non inutili ad un confronto come quello di questa sera. Mi pare, infatti, che questo modo di porre la questione dica qualcosa di significativo su �come stanno� le chiese, sull�effetto che la globalizzazione produce nel loro modo di pensare, e sui problemi che questo pone.

I.

� eloquente che le chiese - come soggetto del lungo periodo storico - siano poco consapevoli di avere �gi�� vissuto altre et� di globalizzazione e poco disposte a ricordare ci� che � loro costato: non ostante la retorica della globalizzazione voglia presentare l�attuale processo di interconnessione politico-economica come una novit� ed un marker del XXI secolo, sarebbe utile ricordare (basta leggere Charles S. Maier) che il mondo l�ha gi� globalizzato l�espansione della navigazione nel XVI-XVII secolo e che il mercato ha gi� avuto una sua espressione globale nel periodo di massima espansione del sistema coloniale dalla met� dell�Ottocento in poi. Se i soggetti politici di quella stagione (dalla corona di Spagna a quella del Regno Unito) sono oggi solo formalmente legati a quel passato, per le chiese non � cos� - e non � certo cos� per il cattolicesimo romano.

II.

Le chiese e certo la chiesa di Roma hanno vissuto entrambe quelle fasi, scoprendo sulla propria pelle una contraddizione legata al mito della �cristianit�� (christendom, christenheit, cristianidad). Perch� quella espansione dell�Europa divisa dalle invalicabili e sanguinanti frontiere confessionali sembrava l�opportunit� provvidenziale per una espansione della fede cristiana: era l�occasione per dimostrare a suon di conversioni, in un mondo divenuto un campo di lotta per le confessioni cristiane, quale era la vera chiesa, e quale era la societ� che, facendo della chiesa la riserva di legittimazione etica e politica, meritava di essere modello.

L�esperienza concreta di quella espansione, per�, si � rivelata ben presto ambigua, inquieta, inquietante: da un lato infatti, si piantava la croce su terre nuove e si costruiva una leggenda evangelizzatrice che contava i martiri europei della espansione missionaria senza chiedersi se e dove erano i martiri locali di un �descubrimiento� iniquo; dall�altro si voleva/doveva ignorare che quella espansione comportava prima e pi� di ogni altra cosa l�affermazione di interessi economici e di domini di cui i massacri dei popoli indigeni e la tratta degli schiavi erano la invisibile icona; e, non ultimo, l�esperienza di sofferenza e di rapina che questa globalizzazione portava diventava il seme di un cristianesimo diverso, vissuto dalla parte delle vittime e dalle vittime in un modo che, al fondo, trovava proprio nella parola della croce la chiave per interpretare le immense sofferenze patite.

Alcune aree del mondo portano ancora oggi i segni visibili di quel processo. Se si pensa a cosa ha voluto dire la presenza cristiana in Sud Africa ci si rende conto che la cultura politico-religiosa che ha accettato e poi fondato la discriminazione ha nella fede cristiana il punto in comune con la cultura politica e la determinazione spirituale che ha rovesciato il regime dell�apartheid e pensato un processo di riconciliazione che � forse la cosa pi� splendida che si sia mai vista su questo pianeta negli ultimi millenni. Se si guarda all�America Latina della teologia della liberazione si pu� cogliere (al di l� delle questioni sull�uso del marxismo che hanno allarmato cos� tanto e cos� inutilmente le autorit� romane) che la fede cristiana � stata la chiave dell�oppressione e la chiave della liberazione in culture che proprio alla luce dell�esperienza cristiana, vanno ora alla ricerca dei reperti indigeni sopravvissuti alla sacra violenza dei conquistadores.

L�esperienza storica delle precedenti globalizzazioni � stata dunque segnata dalla costruzione volontaria e rapinatrice di diseguaglianze (il che non �, ahim�, una cosa legata alla sola globalizzazione...): ma per quel che riguarda le chiese il problema tragico � stato che a presidiare quelle diseguaglianze non stavano solo le armi e le corone, ma anche la dottrine teologiche e la pratica ecclesiastica delle chiese.

III.

Nella globalizzazione di oggi cosa c�� di quelle esperienze e qualcosa di diverso, almeno sul piano delle opportunit�.

Perch� anche oggi la globalizzazione politica ed economica si svolge nel segno di una dominazione (per una necessit� logica gi� spiegata da Aristotele) che a seconda dei punti di vista viene identificata con la volont� di potenza di quell�entit� immateriale che il mercato o con gli Stati Uniti o con il sistema finanziario dei paesi industrializzati. Su questo - sulle sfumature e sui semplicismi �noglobal�. E anche oggi c�� la richiesta che delle �diseguaglianze� che si producono non si faccia carico soltanto la politica, ma anche le religioni, anzi �la� religione cristiana in nome dei valori di una civilizzazione occidentale di cui il cristianesimo sarebbe la madre e la culla. Europa oder Christenheit, si diceva gi� due secoli fa: e la globalizzazione vorrebbe che la �civilt� cristiana� si affermasse come tale per spiegare e sedare le tante contraddizioni, silenti o violente, che segnano questo processo. Certo: accettare questa prospettiva vorrebbe dire far risorgere presto o tardi miti crociati e fumi antisemiti; ma - dal punto di vista dei teorici del mondo unilaterale - ne vale la pena, cos� come vale la pena di fare la guerra.

Talora le chiese sembrano tentate da questa prospettiva che - dopo i secoli della secolarizzazione - le rimette al centro del potere e della sua proiezione mediatica. Ma l�esperienza del secondo novecento ha ormai reso impossibile perseguire questo disegno fino in fondo.

La shoa� e la seconda guerra mondiale hanno dimostrato alle chiese che appiattirsi su una cultura politica, farsi guidare dalle sue paure (quella del comunismo in ispecie) � in grado di portare il mondo all�orrore e fare di cristiani �normali� i carnefici che l�Europa ha visto all�opera nel Reich, in Italia, in Croazia. E il dopoguerra ha fatto scoprire alle chiese la ricchezza - davanti a Dio e agli uomini - della loro variet� e mondialit�: i cristiani hanno �scoperto� che la coabitazione con i musulmani in tutta la mezzaluna che va dal Marocco all�Indonesia non era la premessa militare di una �espansione� o l�avamposto da presidiare armi in pugno, ma un modo di vivere, una vita - una vita cristiana.

Inoltre hanno scoperto che la enorme presenza dei poveri nel mondo non era un carattere che rappresentava le quote sociologiche del pianeta terra, ma era qualcosa che le segnava da dentro: in un mondo di diseguali e di poveri, le chiese sono fatte per lo pi� da poveri. Se su questo issue si adottassero i criteri di quota che il femminismo rivendica per evitare di fare delle donne la �met� invisibile� della chiesa, bisognerebbe allora confrontarsi col fatto che il grosso dei cristiani � povero: vive indifeso economicamente e politicamente, sperando che la sua voce diventi voce delle chiese, voce della chiesa.

Nella globalizzazione, dunque, le chiese non possono pi� accettare il ruolo di cappellani dello status quo, ma nemmeno possono essere i leader di un riformismo sociale dietro al quale s�� cos� spesso nascosto il sogno costruire un regime cristiano pi� perfetto di quelli esistenti.

Ci� non significa che non abbiano nulla da fare e che non facciano nulla: lo sforzo contraddittorio e importante per riconoscere nell�altro (l�altro per fede, l�altro per cultura) non solo il soggetto di un �dialogo�, ma anche il sacramento di colui che � totalmente Altro e totalmente Prossimo, rappresenta il modo con cui le chiese vivono la globalizzazione e le intollerabili diseguaglianze che essa produce.

IV.

Sono convinto - e chiudo dicendo una mia opinione - che il destino di queste consapevolezze e convinzioni non dipende, per�, da una opzione di tipo etico: per le chiese il rifiuto della guerra e la scelta della pace, l�assunzione della voce del povero e la distanza rispetto al potere, ecc. ecc. non sono una scelta semplicemente morale, come quella di vivere nella trasparenza o di non rubare. Sono qualcosa che ha a che fare con la stessa in Cristo, che non � affermata semplicemente ripetendone il nome o ribadendo questo o quel punto del catechismo, ma quando � confessata come parola di salvezza che ridonda a beneficio di chi la accoglie non meno che a beneficio di chi segue la sua via di salvezza in una storia che tutti ci abbraccia e tutti ci conduce alla obbedienza ultima.

Non manca chi � convinto che il problema dei problemi per la chiesa oggi sia tutto e solo quello di ribadire punto su punto il catechismo dall�a alla zeta; ma questa � ancora una logica che spera di sottrarsi alla vocazione di questo tempo, che � un tempo creato da Dio e non da uno sciocco orologiaio del mondo. Nei tempi della shoa� fermarsi al catechismo non sarebbe stato solo insufficiente: sarebbe stato sbagliato, non per il contenuto, ma per il contesto. Oggi fermarsi a quello vorrebbe dire negare la speranza ai miliardi di �diseguali� che questo tempo produce e dimentica.

C�� una speranza di riforma del mondo che passa dalla speranza di riforma delle chiese nel segno dell�unit� e dell�incontro: lavorare per la irreformabilit� delle chiese, pensare che esse possano vivere nella disunione altri dieci secoli, operare perch� esse non si muovano da protagoniste nella famiglia umana e nelle sue molte storie �religiose�, significa negare il futuro, e dunque sottrarlo a Dio, e dunque negare Dio stesso. Cercare quella comunione che le chiese possono gi� ora darsi, imparare a incontrare profondamente l�altro, significa sperare un futuro e consegnarlo a Dio, goel di chi non ha speranza.