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Vera Negri Zamagni
Universit� di Bologna, Italia
Il fenomeno della globalizzazione � il risultato ultimo di innovazioni tecnologiche (soprattutto di trasporto, di comunicazione e di conoscenza-informazione) assecondate da innovazioni istituzionali che hanno contribuito a rendere i mercati pi� omogenei e le societ� pi� aperte. I frutti di questa globalizzazione sono misti: da un lato essa sembra essere in grado di dare nuovo impulso al progresso economico mondiale, non solo nelle aree gi� sviluppate ma anche in alcuni territori che prima erano rimasti tagliati fuori, ma dall�altro lato sta provocando nuovi fenomeni di instabilit� sociale e politica e soprattutto sembra essere la causa di un approfondimento delle disuguaglianze sia all�interno dei paesi in progresso economico, sia tra questi e i paesi tagliati fuori dal progresso. In questo breve intervento non mi occuper� degli effetti socio-politici, che pure sono di grande rilevanza. Mi riferisco agli effetti sui modi di produrre (la fabbrica �globale�, con il connesso commercio in prodotti intermedi e la facile delocalizzazione delle imprese); sul mercato del lavoro (continua mobilit� delle persone, tra un lavoro e l�altro e all�interno del proprio lavoro, per monitorare la fabbrica globale); sull�incertezza endemica delle prospettive di vita; sulle politiche economiche (sempre meno �nazionali� e sempre pi� da concertare a livelli pi� elevati, nella UE, nel G8, nel FMI, nella Banca Mondiale, nel WTO); sulla democrazia politica (una relativa diminuzione del potere dei governi nazionali, che produce un gap democratico). Il focus di questo intervento sar� invece concentrato sugli effetti che la globalizzazione sta producendo sul trend delle disuguaglianze. E� ormai accertato che la globalizzazione � un processo che aumenta bens� la ricchezza complessiva (e dunque rappresenta un gioco a somma positiva), ma determina, al tempo stesso, vincitori e vinti. In altre parole, la globalizzazione riduce le povert� in senso assoluto, mentre aumenta le povert� in senso relativo. Tecnicamente, si considera "povero in senso assoluto" chi dispone di meno di un dollaro al giorno da destinare all'acquisto di beni di primaria necessit�. Secondo questa definizione - fatta propria dalle Nazioni Unite - oggi nel mondo ci sono un miliardo e 200 milioni di esseri umani il cui reddito si colloca al di sotto di questa soglia: si tratta di coloro che rischiano tutti i giorni di morire di fame e di stenti. Qualcuno afferma che questa situazione (di per s� scandalosa) sia frutto della globalizzazione. � stato stimato, invece, che, se negli ultimi 25 anni non avesse iniziato ad operare il processo di cui ci stiamo occupando, i poveri assoluti oggi sarebbero oltre un miliardo e 800 milioni. E� ormai evidente che paesi come quelli del Sud-Est Asiatico e alcuni paesi dell�America Latina stanno uscendo dallo stato di povert� assoluta generalizzata - stato nel quale versavano da secoli - solo a seguito dell'intervento di liberalizzazione dei mercati e dell�inclusione di tali aree nella competizione globale. Chi versa in condizioni tragiche �, viceversa, il continente africano. Ma ci� � accaduto proprio perch� tale Continente � rimasto tagliato fuori dal processo della globalizzazione, non essendo stato in grado di inserirsi in esso. E' per questa ragione che i rappresentanti dei paesi poveri o coloro che parlano in loro favore mai si dichiarano contrari alla globalizzazione in quanto tale. Semmai protestano perch� a certi paesi viene impedito di accedere ai benefici economici che dalla stessa scaturiscono. Valga per tutte, la seguente dichiarazione di M. Yunus, il fondatore e l'animatore della Grameen Bank: "Le nuove tecnologie possono davvero servire ai poveri. La globalizzazione � una cosa grandiosa per la povera gente. Oggi, anche i poveri sono cittadini del mondo". (Vita, 1/9/2000, p.13). Ci� riconosciuto, occorre con altrettanta franchezza dichiarare che la globalizzazione accresce le povert� in senso relativo, cio� le disuguaglianze tra i diversi gruppi sociali; e ci� avviene non solamente tra Nord e Sud del mondo, ma anche all'interno degli stessi paesi avanzati. Il punto su cui � bene riflettere � che quello della globalizzazione � un meccanismo efficiente nella produzione di nuova ricchezza, ma non lo � altrettanto quando si tratta di passare alla redistribuzione equa della ricchezza tra tutti coloro che hanno partecipato alla sua creazione. La spiegazione � semplice. Come gi� si � detto, la globalizzazione ha a che fare, in primis, con la conoscenza e la capacit� tecnologica. Si tratta di beni economici particolari, la cui natura non � facilmente riconducibile alle familiari variabili economiche, cio� prezzi e quantit�, dal momento che quanto � in gioco � costituito da processi di apprendimento. Sapere come un macchinario deve funzionare � conoscenza tecnologica; farlo funzionare in modo efficiente � capacit� tecnologica. Tale distinzione discende da una concettualizzazione della tecnologia diversa da quella in uso fino a qualche tempo fa e ha implicazioni rilevanti per il cosiddetto processo di trasferimento delle tecnologie, soprattutto quando questo ha luogo tra aree geografiche connotate da forti differenze economiche e culturali. La novit� � costituita dal fatto che l'insieme delle conoscenze incorporate in una data tecnologia solo in parte sono codificabili - e dunque facilmente imitabili da altri o altrove. Per lo pi�, esse sono tacite, specifiche di determinate persone e istituzioni, acquisite tramite l'educazione, l'esperienza e la ricerca, e pertanto assai difficilmente trasferibili (si veda J. Mokyr, I doni di Atena. Le origini storiche dell�economia della conoscenza, Bologna, Il Mulino, 2004). Questa componente tacita fa s� che le capacit� tecnologiche aumentino per il tramite di un processo di accumulazione che � essenzialmente di natura incrementale e che � basato in larga misura sull'attivit� di produzione stessa. Quali le conseguenze di tutto ci� per le singole nazioni e per le politiche pubbliche? La pi� rilevante � questa: la conoscenza pu� ben essere resa disponibile, ma per essere messa a frutto deve essere assorbita individualmente. Sono dunque i limiti alla capacit� di assorbimento della conoscenza a rappresentare le principali barriere alla sua diffusione. Ecco perch� non � lecito sperare di arrivare - come ancora tanti ostinatamente ritengono - ad una bilanciata (ed equa) globalizzazione dell'innovazione per mezzo della sola liberalizzazione degli scambi internazionali di beni e servizi. Accade cos� che, mentre i lavoratori superqualificati vedono progressivamente aumentare la loro posizione di benessere, quelli a qualificazione intermedia o coloro che soffrono di rapida obsolescenza intellettuale vedono peggiorare le loro condizioni di vita. Ma approfondiamo ancora un po� il nostro percorso analitico, prima di giungere ad individuare qualche proposta operativa. Se finora abbiamo insistito sulla conoscenza come radice principale delle disuguaglianze esistenti, almeno altri due importanti fattori vanno segnalati. La nuova economia ha necessit� di mercati finanziari dove il venture capital non sia pi� considerato l�eccezione. Poich� il fattore oggi decisivo per lo sviluppo � la capacit� concreta (non virtuale) di sperimentare la messa in campo di nuovi prodotti, di nuovi processi organizzativi, di tradurre in termini di valore la creativit� imprenditoriale, occorre rendere disponibili capitali per investimenti da parte di nuovi imprenditori che non sono gi� affermati sul mercato. E tutto questo deve avvenire in modo continuo, non una volta per tutte, perch� il flusso innovativo � tale che � la velocit� stessa del mutamento a fare problema. Ebbene, se in un contesto del genere il sistema finanziario continua a privilegiare la concessione di credito a chi � in grado di fornire garanzie reali o collaterali di vario tipo e non invece a chi � portatore di idee e di progettualit� innovative, si riesce a capire perch� alcuni paesi o regioni non siano capaci di inserirsi sulla traiettoria della nuova economia. Ancora, per rendere attuabile il nuovo modello di sviluppo occorre un assetto organizzativo dell�impresa che favorisca la messa in funzione di reti. Infatti, un imprenditore pu� bens� assumere nella sua azienda esperti di nuove tecnologie e dotare tutti i suoi uffici del materiale richiesto. Se per� i dipendenti allocati alle diverse funzioni sono tenuti a richiedere il visto di un superiore gerarchico ogniqualvolta devono prendere una decisione operativa, � chiaro che i guadagni potenziali di produttivit� sono persi in partenza e la necessaria creativit� viene tarpata. Un modello di organizzazione dell�impresa che non responsabilizza le persone perch� si rifiuta di affidare loro quote crescenti di autonomia e perch� non favorisce l�allargamento di circuiti di condivisione dei processi decisionali non � in grado di interpretare al meglio la nuova economia. Se, dunque, la capacit� di trarre vantaggio dalla globalizzazione dipende crucialmente dalla efficace diffusione delle conoscenze, dall�esistenza di un adeguato sistema di finanziamento e dal ripensamento organizzativo dell�impresa, si comprende che molti siano i paesi e i gruppi sociali che ne risultano tagliati fuori, con gli effetti sull�aumento delle disuguaglianze sopra richiamati. Le imprese transnazionali che risultano invece vincenti nella attuale arena competitiva hanno la possibilit� di ingrandirsi a dismisura a dispetto dellle esistenti agenzie antitrust (le quali sono legate ad aree territoriali limitate, gli USA, la UE, etc.), perch� si ramificano indisturbate in un numero elevatissimo di paesi e anche in settori diversi. Acquisiscono cos� un potere economico sproporzionato rispetto a quello gi� grande proprio delle precedenti multinazionali, generando una ipercompetizione che tende a togliere di mezzo i produttori locali � e sono la maggioranza - che non riescono ad acquisire posizioni di leadership. In questo modo, si impoverisce il tessuto produttivo locale a vantaggio di questi grandi colossi, che sono poi in grado di dettare condizioni sulla manodopera locale e persino sui governi. Un�implicazione non secondaria � l�irrilevanza economica cui sono condannate varie aree territoriali e gruppi sociali e la loro perdita di identit� culturale, tutti elementi che contribuiscono ad approfondire le disuguaglianze. Un�altra implicazione � che i poteri economici forti sono in grado di piegare le regole economiche internazionali a loro vantaggio tanto pi� quanto pi� i paesi poveri sono incapaci di coalizzarsi per contrastare questo trend. Si veda per esempio l�elevato protezionismo agricolo delle principali aree sviluppate (UE, Giappone, USA) o l�atteggiamento vessatorio nei confronti dei paesi poveri mantenuto dal FMI o le complessit� legali della contrattualistica internazionale o, ancora, la poca trasparenza in materia di immigrazione da parte dei paesi ricchi (R.A. Isaak, Globalization Gap. How the rich get richer and the poor get left further behind, Financial Times Prentice Hall, 200, Financial Times Prentice Hall, 2004). Si pu� dimostrare che l'aumento delle disuguaglianze (ovvero delle povert� relative) tende a minacciare il mantenimento della pace, determinando un aumento delle guerre civili e contribuendo a diminuire l�importanza attribuita dai cittadini al valore della democrazia. Il fatto � che quando in un Paese le disuguaglianze superano una certa soglia, i gruppi sociali svantaggiati tendono ad aggregarsi per avere accesso in modo violento alle risorse negate e quindi provocano fenomeni che, nella loro forma estrema, arrivano a vere e proprie guerre civili. Negli ultimi 40 anni hanno avuto luogo nel mondo una cinquantina di guerre civili, la gran parte delle quali ha avuto come causa scatenante proprio l�aumento delle differenze di natura economico-sociale. Ecco perch� chi ha a cuore le ragioni della pace non pu� restare indifferente di fronte al fenomeno dell�aumento delle disuguaglianze. In effetti, fino all'11 settembre mai si era pensato alla globalizzazione come a un fenomeno connesso con la guerra. Anzi, se c�era un convincimento diffuso, tra studiosi e opinionisti, questo era proprio che la globalizzazione, pur con i suoi difetti, servisse la causa della pace. Si veda, fra i tanti, l�influente volume di Robert Cooper (The Postmodern State and the World Order, Londra, 2000) dove viene difesa la tesi secondo cui la societ� post-moderna, il cui inizio viene fatto coincidere proprio con l�avvento del processo di globalizzazione, � una societ� inerentemente pacifica. E invece i fatti dell�11 settembre si sono incaricati di obbligare anche i pi� restii a prendere atto di ci� che si sarebbe dovuto vedere gi� da parecchi anni e cio� che la globalizzazione � bens� un gioco a somma positiva che aumenta reddito e ricchezza complessivi, ma � al tempo stesso un gioco che tende ad aumentare le distanze sociali sia tra paesi diversi sia tra gruppi sociali diversi all�interno di un medesimo paese, pur se ricco. Non solo, ma � lo stesso principio democratico che viene calpestato dall�aumento progressivo delle disuguaglianze. Quale il nesso di quanto precede con l�istanza pacifista? Il pacifismo tradizionale del XX secolo � il cosiddetto pacifismo di testimonianza - oggi non � in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace. Esso continuer� ad essere un'opzione della coscienza individuale, degna della massima tutela giuridica e della pi� ampia considerazione sociale; ma il mantenimento della pace esige, nelle attuali condizioni storiche, molto di pi�. E ci� per una ragione fondamentale: sono mutate sia le cause sia la natura della guerra, come sopra si � accennato. Giovanni Paolo II guida la piccola schiera di coloro che, per primi, hanno compreso questo fatto. Con la perspicacia che lo contraddistingue, nel suo primo Angelus del 2002, il Papa ha dichiarato: �Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra�(corsivo aggiunto). E nel messaggio per la giornata mondiale della pace dello stesso anno, il Papa ha ulteriormente ribadito: �Non c�� pace senza giustizia�. Se la pace � frutto della giustizia, allora la mancanza di giustizia genera la guerra. Se la guerra � un peccato gravissimo, allora anche la perpetuazione dell�ingiustizia lo �. Il destino economico e sociale dei singoli paesi, popoli gruppi sociali, dunque, non pu� essere ignorato perch� considerato irrilevante per i poteri che dominano il mondo, come � accaduto finora. Esso � una componente fondamentale dell�instabilit� politica internazionale, che si riverbera pesantemente anche su quei paesi dove le ingiustizie economiche sono minori. Di fronte a simili conclusioni, non solo si rivolta la coscienza di coloro che amano la giustizia, ma anche chi ha a cuore semplicemente una vita pacifica dovrebbe rendersi conto che � necessario sacrificare qualcosa per contribuire alla soluzione delle principali ingiustizie economiche esistenti. Ci sono due linee di azione possibili. La prima � quella raccomandata da filosofi politici come Held (D. Held, Democrazia e ordine globale, Trieste, Asterios, 1999) che vogliono arrivare a un �ordine democratico cosmopolitico�, con un parlamento mondiale, una corte internazionale di giustizia, un consiglio di sicurezza dotato di poteri effettivi. A questo ordine democratico cosmopolitico viene demandata la tutela dei diritti dei singoli e delle nazioni e la sanzione nei confronti di chi li viola, oltre che la determinazione delle regole valevoli a livello internazionale. All�interno di queste regole, ci deve essere un approccio chiaro al tema della redistribuzione su scala globale. Oggi pu� sembrare un discorso utopistico, ma il mondo sta veramente evolvendo verso forme di governance sempre pi� includenti e quindi � un discorso da tenere aperto e monitorare, anche se i modi di attuazione non sono ancora chiari ed i tempi sono certamente lunghi. Ma si possono studiare delle tappe parziali di attuazione. La seconda linea � quella della cosiddetta �societ� civile transnazionale�. I cittadini oggi sono in grado di esercitare direttamente molte funzioni che erano una volta di appannaggio degli stati (si pensi al welfare-mix), applicando il principio della sussidiariet� orizzontale. Questo approccio si pu� trasporre a livello internazionale, attraverso le attivit� delle molte ONG che operano a favore di paesi e gruppi sociali pi� poveri. E� urgente l�adozione di un nuovo contesto legale internazionale, per dare uno spazio pi� adeguato a queste ONG, che gi� operano con incoraggianti risultati nell�empowerment dei pi� poveri a fronte dello stallo nell�introduzione di un nuovo ordine internazionale. Ancora, la societ� civile pu� rendersi responsabile diretta dell�organizzazione di imprese sociali e cooperative che producano beni e servizi secondo criteri di reciprocit� invece che seguendo le regole dello scambio di equivalenti (Si veda per questo S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equit�, felicit� pubblica, Bologna, Il Mulino, 2004), contribuendo in questo modo ad allargare gli spazi di libert� nelle scelte lavorative e anche ad attivare modi diversi per impiegare produttivamente persone che non intendono � o non sono in grado di � inserirsi nel modo di produzione capitalistico. E� all�interno di questa �economia civile�, come la chiama Stefano Zamagni, che si potranno anche salvare le differenze culturali, le tradizioni locali e si potranno valorizzare i molteplici rapporti umani, di vicinato, associativi, di comunit�. Che si garantisca meglio la pace non preparando la guerra, ma preparando istituzioni di pace � un principio che la societ� civile pu� praticare meglio della politica, assillata com�� da logiche di potenza. Ma per far questo la societ� civile deve organizzarsi e coordinarsi, per far sentire alta e forte la voce dei valori di cui � portatrice.
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