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Adalberto Piovano
Priore Abbazia di Vertemate, Italia
Una istintiva reazione di fronte al titolo proposto per questo forum � stato quella di un interiore disorientamento, provocato da un senso di inadeguatezza davanti ad un tema tanto complesso e in continua evoluzione come quello della globalizzazione. Cosa pu� dire un monaco, che per scelta vive una certa xeniteia (estraneit�, non disinteresse) rispetto al mondo, di fronte ad un fenomeno cos� ambivalente che investe livelli differenti dell�esperienza umana e assume dimensioni cos� vaste tanto da tradursi nella pretesa di un linguaggio comune per l�umanit� intera? Pu� un monaco attingere dalla sua esperienza se non una risposta, almeno una particolare angolatura da cui, come cristiano, pu� collocarsi per discernere qualche aspetto di questo fenomeno? Al di l� delle ambiguit� delle proposte e dei contenuti, il termine �globalizzazione� richiama in qualche modo una sorta di casa comune, una capacit� di comprensione attraverso un linguaggio comune, il tentativo di una via di unit� per l�uomo. E in un certo senso � qualcosa che affascina. E come monaco (monachos, colui che cerca l�unit�) sento una profonda sintonia con tutto ci� che si propone di dare unit� alla esperienza umana, superando divisioni e conflitti. E a dispetto della sua marginalit�, il monaco (anzitutto come tipo di uomo) sente di poter offrire qualcosa della sua esperienza come piccola luce per collocarsi in verit� di fronte ad un fenomeno cos� complesso. Anzi, si potrebbe dire che il monachesimo vive gi� una certa �globalizzazione�: come fenomeno antropologico, esso � presente in tutte la grandi religioni (anche se in alcune di esse in forma pi� sfumata e nascosta), tanto da offrire un linguaggio umano e spirituale comune, nella consapevolezza di una somiglianza tra quelli che lo vivono pur in contesti religiosi differenti. Come tale, il monachesimo tende ad uno sguardo unificato, ad uno sguardo che sappia trasformare le differenze in una armonica visione sapienziale dell�uomo in rapporto a se stesso, all�altro, al creato, a Dio. Un esempio di questo �sguardo unitivo� si pu� trovare in una esperienza mistica di Benedetto, narrataci da Gregorio Magno nel suo II libro dei Dialoghi (ed � significativo che Gregorio Palamas, nella sua difesa dell�esperienza dell �esicasmo, riporti proprio questo episodio di san Benedetto). Al termine del suo racconto sulla vita di Benedetto, prima di narrare la morte del santo, Gregorio Magno colloca una visione singolare: di notte , il monaco �volgendo al cielo lo sguardo�, vide un intenso raggio luminoso e �come raccolto in quest�unico raggio di sole�, �il mondo intero fu posto davanti ai suoi occhi�. La capacit� unificante dello sguardo di Benedetto, spiega Gregorio, deriva da un cuore dioratico, un cuore che vede tutto in Dio e che � ormai dilatato (il dilatato corde del Prologo alla Regola) alla misura stessa di Dio, se cos� si pu� dire: �� la stessa luce della contemplazione a dilatare la sua interiore capacit� di penetrazione e, nella misura in cui si espande in Dio, essa � sollevata e resa superiore al mondo�Nessuna meraviglia dunque, se vide tutto il mondo raccolto davanti a s�, colui che, sollevato nella luce dello spirito, era gi� oltre il mondo�. Uno sguardo trasfigurato � reso capace, si potrebbe dire, di vedere il chiaroscuro della diversit� (che altrimenti appare limite che minaccia e crea paura) nella prospettiva della luce di Dio, l�unica che permette di raccogliere e ricomporre tutto nella comunione. Come monaco vorrei collocarmi proprio in questa prospettiva chiaramente sapienziale e spirituale per tentare di offrire alcuni percorsi, alcune piccole luci che permettono di affrontare questa sfida del terzo millennio nella logica dell�evangelo. Certamente parler� da monaco occidentale, ma cercher� di farlo a partire da quei valori comuni che rendono il monachesimo cristiano indiviso, �uno� sia in Oriente che in Occidente, al di l� delle forme e delle strutture differenti o delle rotture ecclesiali. Una prima reazione da credente in ascolto della parola di Dio si esprime in un confronto tra due modalit� bibliche di costruire uno spazio abitabile, uno spazio di comunicazione, una citt� per l�uomo. La citt�, come simbolo, riflette un ideale di umanit�, un modo di rapportarsi tra uomo e uomo, tra uomo e cosmo, tra uomo e Dio. E la Scrittura ci presente due tipi di citt�, Babele e Gerusalemme, che ci offrono cammini differenti per realizzare uno spazio di comunione. Babele assolutizza una unit� idolatrica che di fatto porta alla divisione nell�uomo e tra gli uomini, in quanto � una unit� dal basso, voluta e progettata dall�uomo nella sua solitaria autonomia senza spazio per la diversit�. �E una citt� costruita di mattoni giustapposti, opera delle mani dell�uomo, segno di una perfezione artificiale. E l�euforia di una citt� che �tocca il cielo� si trasforma in una citt� auto-referenziale: gli uomini celebrano la loro comunione, dominando la terra mediante il loro progresso. Ma ci� porta alla progressiva estraneit� degli uomini tra di loro e rende ciascun uomo anonimo, solo, appiattito in una uniformit� che chiude al dialogo. Chiudendosi alla relazione con Dio, l�uomo costruisce una citt� dis-umana. Accade ci� che narra il midrash della torre: �(la torre) divenne cos� alta che per salire fino alla cima occorreva un anno intero. Agli occhi dei costruttori un mattone divenne allora pi� prezioso di un essere umano: se un uomo precipitava e moriva, nessuno vi badava, ma se cadeva un mattone tutti piangevano perch� per sostituirlo sarebbe occorso un anno�. L�ideologia che tende ad unire le forze attorno ad uno scopo grande ed accomunante rischia sempre di dimenticare le persone e di sacrificarle alla ideologia, per quanto attraente possa sembrare. E mi pare anche significativo che questa costruzione umana, nel racconto biblico, inizi con un movimento: �emigrando dall�oriente�, gli uomini raggiungono un luogo in cui decidono di costruire la loro citt�. �L�oriente�� la direzione verso cui si avanza, � il luogo dove sorge il sole, � il futuro e la speranza; questi uomini voltano le spalle a tutto ci�, sono in preda al disorientamento, e la loro impresa lo dimostrer��(De Benedetti). Dio rifiuta una sola lingua, una sola cultura, un solo potere; rifiuta tale progetto che si caratterizza da una ambigua unicit� e moltiplicando le lingue, crea le diversit� culturali, la variet� dei popoli e dei fini. Nella citt� che Dio stesso offre come luogo di incontro e di dialogo, Gerusalemme, l�infinito pluralismo di identit� si apre alla comunione. Dio risponde al progetto di Babele scegliendo un uomo, Abramo; � la scelta della singolarit�, della irripetibilit� della persona come garanzia di ogni autentica relazione. Abramo, in cui tutti i popoli ricevono la benedizione di Dio, diventa il seme di quello spazio di comunione che � la citt� donata da Dio, Gerusalemme. Essa � la citt� simbolo della relazione, dell�incontro come dono: si edifica a partire dalla capacit� che ognuno ha di incontrarsi in colui che � la relazione per eccellenza, Dio. Gerusalemme � la citt� costruita con pietre scelte ed uniche, ognuna delle quali mantiene quella alterit� che la caratterizza e la rende preziosa, quella imperfezione che la rivela come dono. Nella Pentecoste, nel cuore di Gerusalemme, per noi cristiani si compie il destino della citt� donata da Dio: ci� che unisce gli uomini non � il �nome� che si danno, ma lo Spirito (il volto della relazione intradivina) che viene donato. E l�unit� non � nella riduzione ad una sola lingua, ma nella comprensione della parola dello Spirito nella diversit� e nella unicit� di ciascuna lingua. E penso che il cristiano debba cercare nello Spirito e secondo lo Spirito una risposta a ci� che appare il progetto comunitario del terzo millennio, la globalizzazione, in quanto la comunione attraverso lo Spirito sa mantenere intatta la ricchezza di ogni alterit�, liberandola da una conflittualit� distruttiva. E in questo senso la risposta del cristiano pu� giocarsi essenzialmente su di una qualit� �spirituale� o meglio, su di una spiritualit� che sappia rispondere a quel bisogno di comunione e di unit� che l�uomo cerca. In questa prospettiva, vorrei fare un breve accenno a tre percorsi spirituali che, come monaco occidentale in ascolto della tradizione dell�Oriente cristiano, sento urgenti per i credenti oggi. Anzitutto credo sia importante riacquistare un linguaggio spirituale comune, un linguaggio che, di fatto, � gi� presente nella varie tradizioni ecclesiali, anche se espresso in forme differenti. Si potrebbe chiamare questo linguaggio dello Spirito un linguaggio �ecumenico�, intendendo questo aggettivo non nella sua accezione storica (si rischierebbe, in questo caso, di aggiungere una ulteriore scuola spirituale alle tante gi� presenti), ma nella sua valenza simbolica: un linguaggio capace di creare comunione e di ricondurre all�unit� la ricchezza dei linguaggi delle singole tradizioni. In fondo si tratta di superare o rileggere un fenomeno tipicamente occidentale e cio�, quello della frantumazione della spiritualit� in tante forme, certamente arricchenti, ma spesso in contrapposizione. A differenza dell�Oriente, l�occidente ha declinato la spiritualit� al plurale, rischiando di compromettere l�unit� della vita cristiana e la visione unitaria della sequela evangelica. Si pu� ricordare a questo riguardo il giudizio di H.U. von Balthasar: �La differenziazione della spiritualit�, oggi divenuta pacifica � si parla di spiritualit� dei diversi ordini, di spiritualit� dei sacerdoti diocesani, dei laici, dei differenti gruppi e movimenti � � quasi totalmente un aborto, spesso ben intenzionato, ma sovente avvelenato, e non solo inconsciamente, dal risentimento. Come se un santo potesse essere interessato alla �sua propria� spiritualit�! Come se una simile spiritualit� a scomparti non fosse indegna dello Spirito Santo, il quale vuole ispirare nei cuori sempre e soltanto la pienezza di Cristo�. In questa prospettiva, il monachesimo, nei suoi valori essenziali, pu� diventare un laboratorio per ricuperare un linguaggio spirituale comune. Non tanto perch� il monachesimo pu� offrire ricette oppure perch� ha una �sua propria� spiritualit� da proporre, ma perch� conserva, al di l� delle strutture e delle divisioni ecclesiali, quella koinonia di vita che � stata plasmata da un cammino comune nel solco della Chiesa indivisa. Esso conserva, a volte inconsapevolmente, quella che si potrebbe chiamare la �memoria storica delle origini� in cui � custodito quel linguaggio dello Spirito plasmato dall�ascolto della Parola, dalla ricerca incessante di un Dio presente e nascosto dalla preghiera, da quella unit� tra teologia e spiritualit� che ha alimentato i grandi Padri. �La divisione della cristianit� � scrive P.Evdokimov - non � un ostacolo formale, ma una mancanza di vera libert�, di quella che trova la sua origine nella verit� totale. Pi� di tutti gli altri, i monaci faranno l�unit� organicamente, per il fatto che la faranno liturgicamente�Attraverso la loro adorazione e i loro canti di lode, non escludono nessuno, invitano solamente tutti ed ognuno a diventare adulti in Cristo�Secondo la bella espressione di san Simeone il Nuovo Teologo, lo Spirito Santo non teme nessuno e non disprezza alcuno. Icona dello Spirito Santo, il monachesimo � una viva epiclesi ecumenica. L�unit� non pu� trovarsi che in questa dimensione del monachesimo universale se egli sa rendersi alla fine cos� libero come i soffi del grande Liberatore� Oggi assistiamo, in tante forme, ad una violenza della immagine e del linguaggio che abbruttisce l�agire e il pensare dell�uomo. Un tentativo di reazione a tale situazione pu� essere la ricerca di una perfezione e di una bellezza che, per�, hanno spesso il sapore di un fuga dalla realt� dell�uomo. Si percepisce che tale bellezza � di fatto artificiale e, alla fine, spersonalizzante. Come credenti siamo chiamati a scendere in profondit�, a cercare altrove quella bellezza che pu� strappare l�umanit� da ogni sorta di abbrutimento. Dobbiamo continuamente farci la domanda del protagonista de� L�Idiota di Dostoevskij: �Quale bellezza salver� il mondo?�. Credo che la bellezza, come dimensione e linguaggio dello Spirito, pu� diventare luogo di salvezza solo se riesce ad accogliere e a trasfigurare ogni esperienza di sofferenza, di lotta, di contraddizione, di imperfezione: � la bellezza del Risorto che porta impressi i segni della sofferenza e della passione. �E il cammino di una spiritualit� �filocalica� che sa comunicare una bellezza come frutto di un processo spirituale e ascetico, a volte drammatico e sofferto, che conduce alla unit� del cuore: �la bellezza � scrive ancora Dostoevskij ne� I fratelli Karamazov � � i mistero in cui il diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia � il cuore dell�uomo�. In questo senso, la tradizione spirituale orientale ci aiuta a ricuperare la via della santit� come via di bellezza, capace di comunicare una Bellezza �altra�: il santo, mediante la testimonianza della sua vita, � nella Chiesa e nel mondo icona della bellezza di Dio, una icona �scritta� dallo Spirito a partire dalla finitezza della creatura, dalla sua carne fragile, in questo mondo e in questa storia. E in questa prospettiva il santo, come icona di una bellezza che supera l�esperienza umana, pu� diventare profezia e parola di salvezza per l�uomo di ogni tempo. Anche del nostro tempo. Se noi pensiamo alla volgarit� dell�immagine e della parola che deturpano l�equilibrio dei rapporti tra l�uomo e la sua realt� interiore, tra l�uomo e i suoi simili, tra l�uomo ed il creato, ci accorgiamo come oggi venga a mancare non solo una profondit� spirituale, ma anche una armonia di umanit�; c�� una incapacit� a mettere nei rapporti, nella comunicazione, nel modo di vivere un gusto per la bellezza. Lo squilibrio interiore che si nasconde dietro la violenza della parola e dell�immagine, non pu� che generare inquietudine, disorientamento, aggressivit�. Il santo come icona ed espressione simbolica di una bellezza �altra� e pacificante, pu� ridonare realmente trasparenza al nostro sguardo: uno sguardo trasfigurato che sa cogliere al bellezza di Dio in ogni realt� umana e sa comunicarla in una armonia che investe tutta la persona ( parola, gesti, silenzio ecc�). �E evidente, per�, che tutto questo passa attraverso un lungo processo di maturazione - � l�ascesi del santo - in cui sono chiamate in causa virt� spesso dimenticate oggi e senza le quali non � possibile una armonia e una solidit� interiori: la pazienza, la perseveranza e l�umilt� nel cammino, il digiuno degli occhi, il silenzio dalle parole vane, e soprattutto la consapevolezza dell�attesa di un compimento che ci � dato solo di gustare nella bellezza della vita secondo lo Spirito. Il santo come icona di questa bellezza che � la santit�, ci insegna ad attendere una pienezza che � �al di l��: ci apre uno spiraglio sulla bellezza di Dio in Cristo e orienta la nostra vita, mediante lo Spirito, verso di essa. Proprio questa attesa di un incontro che d� pienezza � il terzo tratto che credo sia urgente comunicare oggi come percorso spirituale. Ho gi� fatto accenno alla tendenza, a vari livelli del vivere umano, di creare un mondo perfetto e unitario in cui sono eliminati tutti gli scarti e le contraddizioni che la storia continuamente presenta. Se � certamente un impegno di ogni uomo combattere ed eliminare tutto ci� che minaccia la esistenza e la dignit� delle persone e cercare sempre migliori condizioni di vita, resta tuttavia sottile la tentazione di costruire una citt� dell�uomo perfetta, un progetto simile alla torre biblica, cio� la pretesa di una completezza che unisce. A volte anche le comunit� ecclesiali sono tentate da questa logica. Spesso l�impressione che suscita una certa modalit� ecclesiale di presenza nella storia, � quella di una eccessiva preoccupazione di colmare, attraverso strutture, impegni, opere, ecc..., quegli spazi del tempo e della storia che si percepiscono come vuoti. Sembra che si abbia paura delle attese di cui � disseminata la storia; il non poter intervenire � considerato fuga ed irresponsabilit�. Si dimentica che l�attesa non � spazio vuoto, ma relazione con il Veniente; essa diventa, per il credente, capacit� di andare oltre a quello che si fa, liberandosi dalla preoccupazione di riempire gli spazi che la storia offre con le opere e impegnandosi a calare in essa il senso di una incompiutezza, di un cammino verso quella pienezza donata nell�incontro con il Veniente. Penso che sia urgente recuperare oggi una qualit� escatologica della spiritualit�: � lo Spirito, e non il nostro agire, che sa colmare, attraverso il desiderio e la vigilanza, il tempo dell�uomo e che sa aprire ogni vuoto della storia, ogni imperfezione e impotenza in spazio di attesa di Colui che ritorner� a dare pienezza a ogni nostra realt�. Una spiritualit� escatologica ci educa a guardare gli scarti e le contraddizioni della nostra storia come altrettante aperture ad un dono che viene dall�alto. E pu� aiutarci a vivere, nello stesso tempo, con responsabilit� di fronte al mondo, ma senza quella angoscia di dover risolvere e rispondere a tutti i problemi dell�umanit�. Uno dei misteri maggiormente sacri alla tradizione monastica � la Trasfigurazione del Signore. Questo sublime momento in cui il Signore Ges� manifesta la sua gloria � un momento di sintesi � la presenza di Mos� ed Elia � e di apertura verso il nuovo esodo. Un esodo che � nuovo per la sua assoluta e definitiva provvisoriet�, ben significata dal rifiuto di Ges� di acconsentire alla proposta di Pietro di erigere tre tende (la tentazione dell�agire dell�uomo!). Penso che la vita monastica in quanto sequela di Cristo ed esperienza emblematica di spiritualit� come pienezza di umanit� nell�icona del volto trasfigurato di Cristo, non � altro che memoria continua di una cammino sempre povero e nella cui provvisoriet� � non immune da momenti di scoraggiamento e di lotta interiore � il Risorto si pu� fare compagno di strada per �aprire la mente� alla intelligenza del �cuore� (Lc 24). Il cuore purificato dalle passioni �, in fondo, l�unico luogo vero di incontro e di promettente comunione.
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