Marted� 7 Settembre 2004
Universit� Cattolica del Sacro Cuore, Aula Lazzati
Mass Media: guerra e pace

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John Allen
"National Catholic Reporter", USA
  

Ci � stato chiesto di parlare, stamattina, su �Mass media: Guerra e Pace� e anche se forse dipende solo dal cinico professionista che � in me, non posso trattenermi dal sospettare un tema sotteso. Il mio sospetto � che il titolo scelto per la nostra tavola rotonda miri a suggerire che noi giornalisti, quando ci troviamo a fronteggiare una vicenda relativa alla guerra o alla pace, dovremmo comportarci da agenti di quest�ultima ed oppositori della prima. Cio� a dire che, tramite il nostro giornalismo, dovremmo promuovere esiti pacifici per il conflitto. Certamente ci� appare nobile, come molti altri casi relativi alla strada per l�Inferno (che � lastricata di buone intenzioni), ma ad una pi� approfondita riflessione temo che ponga una premessa pericolosa per la nostra discussione. Quindi, perdonatemi se dedico solo pochi momenti ad alcune regole basilari.

Sono sempre in apprensione quando dei giornalisti vengono invitati a parlare su qualche buona causa, perch� di solito c�� l�aspettativa che noi si prometta di promuovere quella causa. Di solito gli scopi sono certamente nobili; come si potrebbe essere contrari alla salute delle donne, per esempio, o alla prevenzione delle droghe presso l�infanzia? O, per citare l�esempio in questione, come si potrebbe essere contrari alla pace? Pure, ho timore di dove ci potrebbe portare un simile modo di ragionare. Temo che, ogni qualvolta un giornalista prepara un articolo avendo a cuore una causa, la tentazione sia di distorcere i fatti al fine di supportare quella causa, di omettere le voci che cantano fuori dal coro, di porre l�accento sugli elementi che coincidono con la conclusione pre-ordinata e di minimizzare quelli che non coincidono con essa. Alla fine, sia che uno propenda per la pace nel mondo o per la Coca-Cola, il principio in questione � lo stesso: l�abilit� nel vendere ha trionfato sul giornalismo.

In quanto giornalisti, vorrei dire, noi abbiamo sempre una causa pienamente nobile: la verit�. Il mio obbligo � di raccogliere su ogni soggetto dato quanto pi� possibile di verit�, poi di spiegare ai miei lettori perch� queste specifiche verit� sono importanti, come si inseriscono nel pi� ampio contesto degli eventi globali e quali conseguenze ne potrebbero scaturire. Se io cercassi di fare qualcos�altro � spingere verso determinate conclusioni circa l�articolo, attirare l�attenzione dei miei lettori su una particolare direzione degli eventi � oltrepasserei la linea che separa i giornalisti dagli attivisti e dai mezzibusti di regime. Sfumare quella linea � pericoloso per la salute della societ� civile. Il giornalismo radiotelevisivo e della carta stampata � tenuto ad essere la moderna pubblica piazza, un luogo in cui persone di ogni ceto e di ogni opinione possano incontrarsi per avere quanto meno un quadro comune di informazione e di punti di riferimento prima che comincino le argomentazioni ideologiche e politiche. Un giornale degno di fede promuove un vocabolario comune, mantiene le persone in conversazione l�una con l�altra, promuove dialogo. Quando tale ruolo viene meno, il risultato � l�ideologizzazione e la polarizzazione del dibattito pubblico.

Posta questa premessa, penso che esista una critica propriamente giornalistica da avanzare a come i media trattano le situazioni di conflitto. Penso che il giornalismo contemporaneo spesso non renda giustizia a queste vicende � non perch� non siamo riusciti a costruire un mondo pi� pacifico, fine che non rientra nelle nostre competenze, ma perch� non siamo riusciti a dare alla gente gli strumenti di cui ha bisogno per capire cosa sta succedendo.

Non mi sono mai occupato di zone di guerra. (Mi occupo del Vaticano, che certamente conosce a volte le sue battaglie campali, ma per fortuna non del genere in cui si spara sugli osservatori). Tuttavia, ho scritto praticamente per tutti i principali giornali degli Stati Uniti, e faccio l�analista vaticano per la CNN, di modo che conosco qualcosa anche delle dinamiche del lavoro televisivo. Confido di mettere a frutto tale esperienza nella riflessione su come ci occupiamo di guerra e pace.

In questo spirito, permettetemi di avanzare tre osservazioni.

Prima Osservazione: La �mentalit� gregaria� limita la nostra visione

L�odierno mercato delle fonti d�informazione offre ai consumatori uno sconcertante ventaglio di scelte. Internet, canali radiofonici d�informazione, pubblicazioni specializzate e numerosi altri strumenti offrono un�ampia variet� di ulteriori metodi di informazione. La cosa impressionante, in verit�, � come questi strumenti siano relativamente omogenei in termini di contenuto. In ogni dato momento, la maggior parte dei canali televisivi, dei siti Internet e della carta stampata che fanno informazione rincorrono la stessa vicenda � qualunque sia �la vicenda� del momento. Questa � la cosiddetta �mentalit� gregaria� dei media moderni. Dato quanto pu� essere costoso e rischioso spiegare le risorse dell�informazione, gli editori ed i produttori esitano a muoversi a meno che qualcun altro non si muova prima. In particolare le reti televisive non si occupano di una vicenda a meno che non la vedano sulle agenzie o non la sentano alla radio, ma una volta che una delle reti decide di occuparsi di qualcosa, allora lo fanno tutte.

Per ironia della sorte, la conseguenza della mentalit� gregaria � che oggi noi abbiamo una pi� grande variet� di strumenti di informazione e minor variet� di contenuto che in ogni altro periodo nella storia del giornalismo.

Una conseguenza della mentalit� gregaria � che, in attesa di una decisione collettiva, siamo decisamente troppo lenti ad arrivare sulla vicenda. In situazioni di conflitto, questo significa che la stampa classicamente arriva solo dopo che � scoppiato il combattimento, piuttosto che occuparsi delle fasi iniziali in cui le decisioni si sarebbero potute prendere in modo diverso. Similmente, spesso abbandoniamo una vicenda decisamente troppo presto, lasciando in sospeso interrogativi critici. Ricordo abbastanza bene, per esempio, il viaggio del Papa Giovanni Paolo a Cuba nel 1998. I media americani si accalcarono in attesa del Papa, pronti ad occuparsi di un altro scontro tipo Piazza Tienanmen tra il Comunismo e le forze favorevoli alla democrazia. Tuttavia, appena il Papa arriv�, quegli stessi richiamarono il loro personale da Cuba e lo fecero tornare negli Stati Uniti. Sul Papa aveva prevalso l�esplosione dello scandalo di Monica Lewinsky. Questa decisione non aveva nulla a che fare col fatto che la vicenda cubana si fosse o meno risolta, e molto a che fare con la percezione istintiva che gli indici di ascolto sarebbero stati portati alle stelle dalla saga erotica di Clinton.

La giustificazione offerta per tali decisioni � che, in un mercato competitivo dell�informazione, nessuno pu� permettersi il lusso di rischiare centinaia di migliaia di dollari di equipaggiamento e di personale su vicende che potrebbero non produrre indice d�ascolto. Questa � una comprensibile inclinazione manageriale, ma non pu� fare a meno di produrre una comprensione superficiale di questioni complesse. Perch�, ad esempio, ha costituito una sorpresa la recente risorgenza di ostilit� etnica in Ruanda? Chiunque avesse pensato che il conflitto tra Hutu e Tutsi si era �risolto� non gli prestava [ulteriore] attenzione � e, certamente, la maggior parte dei media nel mondo occidentale fu tra quelli presi alla sprovvista.

N� si pu� pi� giustificare una concentrazione artificiosa su un numero limitato di vicende sull�assunto che l�informazione sia difficile da trovare. Nell�epoca di Internet, l�informazione non � pi� una risorsa scarsa. Il problema � precisamente l�opposto; c�� un eccesso di dati, e la gente ha bisogno di aiuto per decidere cosa davvero meriti la sua attenzione. Per ironia della sorte, quindi, mentre un tempo si temeva che la raccolta fai-da-te dell�informazione avrebbe minato il tradizionale ruolo di �indirizzo� della stampa, per come si evolvono le cose quel ruolo � oggi pi� importante che mai � non nel senso di decidere quale informazione sia disponibile, ma di decidere quale informazione sia importante. Ovviamente, questo ruolo � gravemente compromesso se le scelte non sono basate sull�intrinseca importanza di una vicenda, ma semplicemente sul fatto che tutti gli altri se ne stiano occupando o meno.

Infine, la mentalit� gregaria � pericolosa perch� fa della velocit�, piuttosto che del contenuto, la via attraverso cui i soggetti dell�informazione si distinguono. Una rete [televisiva] o un giornale ha successo essendo il primo a dare notizia della �grande vicenda�, qualunque vicenda abbia in sorte di esserlo. La verifica dell�informazione prima della pubblicazione o trasmissione diviene decisamente meno importante, il che ovviamente consente il radicamento di ogni sorta di informazione errata o di mito prima che qualcuno abbia il tempo di cernere la verit�. Il fatto che un�ampia percentuale degli Statunitensi creda ancora che l�Iraq fosse dietro agli attentati terroristici dell�11 settembre 2001 esemplifica il problema.

Un possibile antidoto alla mentalit� gregaria sarebbe un maggiore investimento pubblico nella raccolta di notizie, in modo che i media siano meglio protetti dalle pressioni degli indici d�ascolto e degli introiti pubblicitari. Per tutte le sue regolamentazioni, la National Public Radio (Radio Pubblica Nazionale) degli Stati Uniti � un esempio delle possibilit� di questo tipo di copertura delle notizie. Al di l� di decisioni di questo tipo, che si collocano su un piano politico, comunque, penso che noi che siamo nel business dell�informazione dobbiamo essere un po� pi� decisi nello sfidare la saggezza convenzionale. Sappiamo per certo che non c��, per esempio, un mercato per servizi meglio informati e pi� regolari dall�Africa? Come lo sappiamo? Io suggerirei che ci� non � stato dimostrato. Sappiamo per certo che non c�� un mercato per un�informazione consistente e ragionata dall�America Latina? Almeno negli Stati Uniti, i 40 milioni di ispanici del Paese potrebbero reagire bene se solo una delle reti o uno dei quotidiani volessero fare dell�America Latina una priorit� nell�informazione. Il punto � che non potremo sapere quanta differenziazione, quanta indipendenza di giudizio e pazienza nell�approccio il mercato sia in grado di sopportare, finch� qualcuno non rompe le righe.

Seconda Osservazione: Il �culto dell�immagine� distorce il modo in cui ci occupiamo del conflitto

Proporr� un altro aneddoto tratto da un viaggio del Papa. Mi trovavo nella postazione della CNN alla Giornata Mondiale della Giovent� a Toronto nel 2002, la mattina della Messa conclusiva, quando circa 2 milioni di giovani si riunirono intorno al Papa. Quella mattina, eravamo in competizione per i tempi di trasmissione con l�altra grande vicenda del giorno, che era centrata sul salvataggio di un gruppo di minatori intrappolati in un pozzo crollato in una miniera di carbone negli Stati Uniti. Ogni volta che la regia ad Atlanta doveva prendere la decisione di tagliare una delle due vicende, la domanda era sempre la stessa: �Chi ha le migliori immagini?�. Fu un�opportunit� fortunata per noi, a Toronto, perch� i liturgisti vaticani sanno come imbastire eventi spettacolari e cos� riuscimmo a mandare in onda un bel pezzo. Valutato in termini di logica giornalistica, comunque, questo appariva un modo molto strano di agire; la decisione non aveva nulla a che fare con l�importanza della vicenda, ma molto a che fare con come essa appariva.

Il problema pi� ovvio riguardo al �culto dell�immagine� � che esso spinge i media ad occuparsi delle storie pi� spettacolari piuttosto che di quelle pi� importanti nella sostanza. Se una storia non pu� essere raccontata visivamente, non pu� essere raccontata per nulla. La frase �questa non � una storia adatta alla TV� diventa la scusa per rimuovere notevoli quantit� di notizie importanti dal palinsesto. Noi mandiamo in onda molto meglio la guerra piuttosto che i negoziati di pace, perch� la guerra � interessante da vedere, mentre i negoziati generalmente non lo sono. Come dice la vecchia massima: �Se sanguina, passa avanti�.

A un livello pi� profondo, comunque, la priorit� accordata alle immagini come cuore della narrazione della vicenda, distorce il modo in cui ci occupiamo della notizia in modi meno ovvii. Per un verso, il nostro bisogno di accorrere rapidamente l� dove le notizie accadono per ottenere delle immagini ci porta a dare giudizi che sembrano terribilmente sospetti in rapporto ai principi del giornalismo. Per esempio, nella recente guerra condotta dagli Stati Uniti in Iraq, le agenzie d�informazione americane accettarono di buon grado un�offerta del Pentagono di �includere� dei giornalisti nelle unit� militari americane, cos� che i reporter e le troupe televisive viaggiarono, dormirono e si ripararono insieme ai soldati americani durante le prime critiche fasi [della guerra]. Reti TV e giornali accettarono la proposta, fondamentalmente perch� ci� significava che il loro personale si sarebbe trovato in una posizione adatta a catturare drammatiche immagini nella battaglia mentre essa avveniva. Loro sapevano certamente che ben poco di questo avrebbe potuto essere qualificato come �reportage� in senso stretto, perch� i giornalisti sarebbero stati totalmente dipendenti dalle forze americane quanto ad informazione e punto di vista. Ancora una volta, il bisogno di immagini in tempo reale del conflitto soffoc� ogni altra considerazione. Oggi i risultati appaiono, a dir proprio poco, discutibili. Nei primi giorni del conflitto, i media americani si sono abbassati ad un ruolo di supporto propagandistico ed � almeno in parte a causa di questa stretta identificazione con le forze della coalizione che i giornalisti occidentali sono divenuti adesso bersagli, in Iraq, ad un livello senza precedenti. Una conseguenza � che i giornalisti occidentali non possono muoversi al di fuori di un piccolo recinto di alberghi, a Baghdad, e quindi spesso non sono in condizione di afferrare le vicende realmente importanti.

Un altro modo in cui la dipendenza dall�immagine distorce il discernimento delle notizie � il fatto che chi ha le risorse per produrre e distribuire video ha possibilit� molto migliori di formare l�opinione pubblica rispetto a chi ne � privo. Una delle ragioni per cui i conflitti africani attirano proporzionalmente meno attenzione sulla stampa occidentale, per esempio, � che molte nazioni africane mancano di servizi efficienti di televisione di Stato che propongano immediatamente video quando scoppia una crisi. Tragedie in luoghi con standard di produzione video da primo mondo � l�attentato terroristico in Spagina, per esempio, o l�ultima esplosione della crisi cecena in Russia � si accaparreranno tempi di trasmissione di gran lunga maggiori, e non solo perch� si pensa che siano di pi� grande interesse pubblico. E� anche perch� � molto pi� facile produrre buoni video velocemente. Similmente, organizzazioni capaci di gestire e mettere in opera avvenimenti pubblici il cui scopo � finire in televisione � quindi avvenimenti collocati su uno sfondo drammatico, forniti di moderne tecnologie per la stampa � hanno una molto maggiore opportunit� di trasmettere il loro messaggio all�esterno. Ancora, tutto questo ha decisamente poco a che fare con l�intrinseca importanza della vicenda, ma piuttosto con la velocit� e la facilit� con cui possono essere generate immagini video.

Il nocciolo della questione � che non sempre un�immagine vale un migliaio di parole. Sia i mezzi d�informazione che il pubblico devono imparare ad accettare che ricevere un video dal vivo e comprendere la vicenda non sono sempre la stessa cosa. Sicuramente, in un�epoca di grafica informatizzata e di animazione della Pixar, i mezzi d�informazione sono in grado di trovare modi spettacolari di proporre vicende che non finiscono, mettendo il carro davanti ai buoi � in altre parole, sacrificando all�immagine l�indipendenza e il discernimento delle notizie.

Terza osservazione: Ci occupiamo della guerra meglio che della pace

Ho passato recentemente un paio di giorni in compagnia di Fra Clemente Ortega, un indio peruviano e parroco responsabile di 24 minuscole comunit� sulle Ande fuori Lima. Un mattino, mentre andavamo in macchina su per una tipica, stretta strada di montagna senza segnaletica, mi mostr� un incrocio in corrispondenza del quale si incontravano i confini di due comunit� della zona. Mi spieg� che queste due comunit� avevano litigato per quasi un decennio per una qualche offesa dimenticata da tempo, e l�inimicizia aveva causato violenza ed anche alcuni morti nel corso degli anni. Per un lungo periodo, Ortega aiut� le due comunit� a sedere insieme e a far emergere le loro controversie. Quando la faida fu infine conclusa, Ortega li port� tutti insieme, per una Messa di riconciliazione, all�incrocio che mi aveva mostrato. Da quel giorno, la pace � durata.

Ortega raccont� la vicenda in un modo prosaico, come se stesse descrivendo un giorno qualunque in ufficio. In realt�, � un fatto notevole, ed ancor pi� notevole � il fatto che nessuno se ne sia occupato. Se Sendero Luminoso avesse fatto esplodere queste due localit�, certamente i giornali e le stazioni televisive vi avrebbero prestato attenzione. Quando Ortega li salva dal saltare in aria essi stessi, tuttavia, nessuno � interessato. A mio modo di vedere, questo � ben scarso discernimento giornalistico. Il nostro mancato racconto della vicenda di Fra Clemente Ortega � simbolico del nostro pi� esteso venir meno all�occuparci della pace con lo stesso zelo col quale ci occupiamo della guerra.

Come giornalista, quando parlo con gente che viene da zone di conflitto, che siano il Congo o il Medio Oriente o la Bosnia o il Sudan, una recriminazione che sento ripetutamente � che i media no fanno abbastanza attenzione alla cosiddetta �societ� civile�, vale a dire gruppi umanitari, chiese, organizzazioni non partitiche di attivisti ed altri enti di volontariato. Spesso, questi gruppi sono coinvolti in sforzi creativi per promuovere la riconciliazione e la comprensione che danno risultati positivi in modi imprevisti. Certo, non ho bisogno di dirlo a nessuno di Sant�Egidio, perch� la mediazione della comunit� in Mozambico e altrove � un caso classico in materia.

In questo senso, noi giornalisti facciamo spesso un lavoro incompleto di esposizione della vicenda di situazioni di conflitto, perch� la violenza e le sue conseguenze non costituiscono la totalit� dell�immagine. Spesso le zone pi� segnate dal conflitto generano anche i tentativi pi� innovativi ed eroici di immaginare un nuovo futuro. Lo penso, per esempio, della Terra Santa, dove una variet� di progetti � come Neve Shalom, il Centro Internazionale di Betlemme e Jerusalem Link � mettono insieme israeliani e palestinesi in tentativi di costruire fiducia e comprensione. (Lo scrittore italiano di questioni religiose Luigi Sandri offre una panoramica molto utile di tali movimenti nel suo libro del 2001, Citt� santa e lacerata). Il fatto che tali gruppi rimangano ampiamente sconosciuti ai media occidentali e quindi al pi� ampio mondo, suggerisce l�esistenza di una seria lacuna nel nostro fare reportage. Ci� non perch� noi giornalisti dovremmo essere parziali in favore di quanti fanno il bene, ma perch� siamo obbligati a porgere l�intera vicenda.

Ci sono una quantit� di ragioni per questa negligenza troppo complesse da esplorare qui. La mia percezione tuttavia � che, dati i tagli in corrispondenti dall�estero ed in uffici che molte imprese occidentali di informazione hanno conosciuto nell�8ultimo decennio, la maggior parte dei reporters sono cos� impegnati a cercar di reagire ogni qual volta un�ultima bomba esplode che essi hanno ben poco tempo per fare qualsiasi altra cosa. Finch� le imprese di formazione fanno della copertura dell�internazionale una pi� alta priorit� , � ovvio che la societ� civile � tanto nella forma di movimenti organizzati che di singoli come fra Ortega � rimanga fuori dal nostro schermo radar.

Certamente questa � una rassegna m0olto breve ed essenziale, che non pu� fare altro che indicare i punti per un�ulteriore riflessione. Non so se quel che ho suggerito stamattina � una maggiore variet� nelle materie di cui occuparci, meno enfasi sulle immagini a spese del contenuto, e pi� attenzione alla societ� civile � debba necessariamente costruire un mondo pi� pacifico. Penso tuttavia che possano rendere il mondo meglio informato e gi� questo � una conclusione decisamente auspicabile.

Grazie.