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Susanna Tamaro
Scrittrice, Italia
IL DELFINO E LE OMBRE CINESI Cantano le cicale, sul mare e sulle rocce intorno � scesa la calma delle ore pi� calde. Dall�ombra della mia tenda intravedo una petroliera in lontananza e, pi� vicina, una piccola barca a vela che beccheggia, immobile, in attesa di un refolo di vento. Tutto sembra apparentemente senza vita. In questa sospensione, mi torna in mente una storia raccontatami, anni fa, da un amico velista. Stava compiendo, a bordo di una piccola imbarcazione, una traversata solitaria dalla Toscana alla Sardegna. Per farsi compagnia ascoltava una sinfonia di Mozart quando, a un tratto, a poppa comparve un delfino. Fin qui nulla di strano, era gi� capitato molte volte. La cosa curiosa, mi disse, � che sembrava nuotasse al ritmo della musica. Spense allora il registratore per scacciare quella che considerava una deleteria fantasia antropomorfa e il delfino spar�. Dopo lunghi minuti di silenzio e di tacita attesa, lo barca fu scossa da un forte colpo, seguito da un altro e un altro ancora. Era lui, il delfino che percuoteva lo scafo con la coda come a dire.� E allora, che succede?� Il mio amico riaccese subito la musica e il delfino riprese la sua danza, accompagnandolo felice fino a sera. I cetacei, dunque, riconoscono l�armonia musicale e ne provano gioia. La cosa non mi stupisce pi� di tanto perch�, quando suono il flauto, le mucche si radunano sotto le mie finestre e stanno l�, attente, con i nasi umidi e gli occhi stellanti, commentando con brevi muggiti come signore a un concerto. Le ricerche pi� ardite della frutticoltura ci dicono che gli alberi a cui viene fatta sentire musica classica guariscono dalle malattie, si fortificano e producono con abbondanza, mentre altri sottoposti a ritmi hard o techno deperiscono rapidamente e lasciano cadere i propri frutti prima che si compia la maturazione. Eppure gli alberi non hanno orecchie, i delfini vivono sott�acqua, e le mucche, di certo, non sanno leggere gli spartiti. S�, nell�universo esiste una percezione della bellezza che sfugge ai nostri canoni, alle nostre congetture e questa percezione si manifesta spontaneamente in gioia, danza e ricchezza di vita. *** Spesso mi chiedo come si possa definire il nostro tempo, se c�� un fattore che lo unifica e lo contraddistingue. Sicuramente � un�epoca di grande complessit� e di grosse contraddizioni. Viviamo, infatti, nell�et� del massimo benessere e della tangibile insoddisfazione, dell�estrema sicurezza e delle incontrollabili paure, delle sofisticatissime comunicazioni planetarie e delle totale incapacit� di comunicare tra le persone. Un tempo di grandi inquietudini spirituali e di agghiaccianti fanatismi. Se devo per� immaginare un fattore evidente, fisico, che distingue i nostri giorni e lega insieme tutte queste contraddizioni, � la presenza ossessiva e tirannica del rumore, di una disarmonia sonora che farebbe fuggire i delfini oltre l�orizzonte ma alla quale gli esseri umani sono ormai totalmente assuefatti. Il silenzio � morto e, scomparendo, ha trascinato con s� tutto ci� che costituisce il fondamento dell'essere umano. Non c'� silenzio nell'aria intorno, non c'� silenzio nelle menti, nei cuori. L'assenza di silenzio � il trionfo di quella che tutte le tradizioni orientali chiamano �la scimmia� - la nostra mente - che strilla per un�ombra, si agita, s�indigna, strepita per coprire lo schiamazzo degli altri. La scimmia produce un costante turbine di impressioni, di opinioni, di allarmi, un fiume in piena che travolge qualsiasi tentativo di porre, nella mente e nel cuore, vera pace e stabilit�. "Ci� che l'irrigazione � per le piante, il silenzio � per la crescita della conoscenza� scriveva Isacco di Ninive nel sesto secolo dopo Cristo. E infatti, senza silenzio, non posso conoscermi, non posso conoscere l�altro, non posso conoscere il misterioso destino che ci lega. Senza silenzio, non riesco a mettermi in ascolto. Senza ascolto, non posso attingere alla fonte della sapienza. Ma perch� siamo avvolti in questo turbine di spazzatura sonora? Da dove viene il frastuono, perch� nessuna forza riesce pi� a contenerlo? Il frastuono ci frastorna. Chi vuole che siamo frastornati? Un sospetto viene, quando, consultando il vocabolario, scopriamo che frastornare vuol dire: evitare, ostacolare, distogliere, distrarre. S�, qualcuno, qualcosa, ci vuole distratti. "Non hai idea" mi diceva di recente un�amica neuropsichiatra infantile, �di quanti bambini gravemente disturbati in et� prescolare mi arrivano al consultorio. Bambini che urlano, che mordono, che prendono a calci, che sputano in faccia ai nonni. Arrivano i genitori con faccia contrita e dicono, noi non sappiamo come prenderlo, ci pensi lei. Trattano il figlio come un elettrodomestico di cui hanno perso le istruzioni, un gadget impazzito a cui solo il tecnico sapr� ripristinare il giusto funzionamento dei circuiti. E� questa la vera emergenza degli ultimi dieci anni,� concludeva la mia amica con tristezza, �ma non fa rumore e cos� nessuno ne parla.� Il Novecento, con la sua tragica coda di ideologie, di nichilismo, di guerre e di stermini, ha seminato nel nuovo millennio la bomba a orologeria del relativismo etico. Il bene e il male non sono pi� valori riconoscibili collettivamente, ma derive del sentimentalismo individuale. Grazie al relativismo etico, la nostra societ� ha rinunciato alla sua funzione educativa. Non educa la famiglia, non educa la scuola, non educa il contesto civile. Educare, infatti, vuol dire condurre, indicare una strada da seguire, ma per farlo si dovrebbe conoscere la direzione verso cui tendere. Come si pu� indicare un cammino se la vita � un girovagare senza meta, se non ci sono limiti da rispettare, orizzonti da raggiungere? Compito principale dei genitori moderni sembra ormai essere unicamente quello di non creare ostacoli, (dai quali potrebbero nascere traumi inguaribili), di non porre limiti (per non rischiare di tarpare la naturale creativit� infantile). Sar� il caso, unito alla saggezza innata del bambino, si pensa, a fargli imboccare la strada giusta che lo porter� a realizzarsi nel migliore dei modi. La naturale bont� dell�essere umano � uno dei dogmi granitici che abbiamo ricevuto in dono dai secoli precedenti e nulla di ci� che accade sotto il sole riesce a scalfirlo. C'� un bellissimo motto africano che dice: �Per educare un bambino, ci vuole un villaggio.� E� proprio cos�, ci vuole la variet� e la diversit� dei rapporti e, al tempo stesso, la coesione di una comunit� che rispetta e fa rispettare le sue leggi. Forse per questo la striminzita famiglia mononucleare, nonostante tutte le sue attenzioni e finezze pedagogiche, produce, nella maggior parte dei casi, creature fragili capaci di coniugare all�infinto un unico noiosissimo verbo: �Io voglio�. Non ci si � accorti - o non ci si � voluti accorgere - che, nel frattempo, il modo di dire africano � stato assunto a livello planetario. Soltanto che non � pi� l'insieme di parenti ad educare - cio� il contesto sociale fatto di persone, di volti, di storie umanamente comprensibili - bens� l'anonimo, potentissimo e sottilmente perverso villaggio globale. Davanti l'abulia educativa dei genitori, davanti l'apatia della scuola e l'assenza di un contorno formativo, la comunit� educante diventa automaticamente quella composta dal volto opaco dei mass media, la grande antenna che, con il suo costante gracchiare, sovrasta e avvolge i nostri giorni. E� lei a dirci in che cosa dobbiamo credere e cosa dobbiamo disprezzare, che cosa crea scandalo e che cosa invece deve suscitare il nostro applauso. E� lei a imporci la certezza che, solo il possesso di determinati oggetti ci rende degni di esistere. Naturalmente tutto ci� avviene in modo democratico, privo di costrizioni. Per evitare ribellioni, infatti, dobbiamo essere convinti di essere sempre noi - e soltanto noi - a scegliere. Ma � davvero cos�? Un paio di anni fa ho ospitato a Roma due ragazzi filippini. A Manila frequentavano i migliori licei e, per la prima volta nella loro vita, erano venuti a trovare i genitori nel paese nel quale da molti anni erano emigrati per cercare lavoro. Si trattava di un viaggio "di istruzione", per far loro capire quanta fatica, quanta vita rinunciata ci fosse dietro ai privilegi dei loro studi a Manila. Ma di istruzione in realt� ci fu ben poco. Tutto il loro soggiorno si concretizz� in un frenetico correre da un negozio di telefonini a un altro di abbigliamento sportivo. Sapevano recitare le marche di ogni oggetto in ordine decrescente, secondo il valore di culto e il loro relativo prezzo come fosse il rosario o le litanie dei santi. E, naturalmente, veneravano le stesse identiche marche, gli stessi modelli idolatrati dai nostri ragazzi. Nelle pause degli acquisti, si stravaccavano sui divani di casa, sospirando annoiati. Non hanno mai sentito l�impulso di fare una domanda, di guardare fuori dalla finestra, mai desiderato o osato fare una passeggiata fine a se stessa, per annusare un odore, per osservare un volto, per vedere quanto sono diverse le strade di Roma da quelle di Manila. Quello che inquieta, nel consumismo planetario, � questa sorta di cupidit� ottusa. Ogni forza � tesa, concentrata verso l'oggetto del desiderio. Una volta incamerato, la stessa energia, intatta nella sua potenza, si sposta su un nuovo oggetto e poi su un altro ancora, in una corsa di cui non si riesce a intravedere la fine. Chi fa credere ai ragazzi di Manila, a quelli di Brasilia, di Mosca, di Roma, di Tokyo che quella scarpa, quel tal telefonino, quella maglietta siano pi� indispensabili del pane per nutrirsi? La futilit� degli oggetti, cio�, il loro insubordinarsi alla funzione originaria, � il segno distruttivo dei nostri tempi. Ci annulliamo quotidianamente, con lo sguardo rapito dal vitello d'oro - i tanti piccoli vitelli d'oro di poco prezzo - e intanto la nostra vita, la vita vera - con il suo mistero, le sue domande, il suo splendore - ci sfugge dalle mani, lasciandoci in balia di manifestazioni incontrollate: attacchi di panico sempre pi� frequenti, inspiegabili suicidi, estemporanee follie omicide di persone apparentemente normali. *** Ho sempre pensato alla diversit� come alla pi� grande ricchezza del creato. Ogni fiore, ogni insetto, ogni mammifero, ogni minerale, � in relazione di reciprocit� con tutto quello che lo circonda. Anche per gli esseri umani, il discorso della diversit� � fondamentale. Ognuno di noi nasce con un�attitudine differente - di sensibilit�, di intelligenza, di cultura - e scopo della vita � proprio quello di coltivare e comprendere questa nostra peculiarit�, portandola a dare i suoi frutti migliori. Il cammino della crescita � dunque quello di scoprire e di costruire lentamente il nostro volto, la nostra storia. Volto e storia unici e irripetibili e tuttavia complementari a tutti i volti e tutte le storie che ci circondano. Questa � la vocazione dell�essere umano, la sua chiamata a scoprirsi qualcosa in continua evoluzione, costantemente teso verso l�orizzonte dietro al quale si intuisce il mistero della finitezza. Una vocazione per� che richiede la capacit� di mettersi in ascolto. Ascoltare una voce che chiama ognuno di noi per nome. Ma chi mai ci pu� chiamare se la nostra genitura � il caso, se il cielo � vuoto e l'unico rumore che vi giunge � il sibilo dei satelliti? Se siamo figli del caso e il cielo � vuoto, l�unico punto di riferimento stabile � la grande antenna, che ci programma e ci guida con il suo incessante frastuono in ogni angolo del pianeta, facendoci credere di essere assolutamente liberi e nello stesso tempo inevitabilmente programmati. Liberi di esistere nella tirannia dell�ego, programmati dal codice genetico e dal flusso capriccioso degli ormoni. La grande antenna ci fa correre dietro le ombre cinesi, convincendoci che siano la realt�. La grande antenna ci fa credere che per noi � bene ci� che bene, per noi, non �. La grande antenna vive blaterando di tolleranza, ma basterebbe riflettere un po� per comprendere che una volont� che cancella la diversit� � la prima generatrice di intolleranza. La grande antenna ci mostra costantemente la felicit� e la bellezza l� dove non ci sono. Nella eterna giovent� del corpo, nella capacit� di generare creature su ordinazione, del sesso giusto, del colore giusto, dell�intelligenza giusta, nel possesso degli oggetti, nel successo effimero. La grande antenna ha sacralizzato i nostri diritti pi� futili � quelli relativi alla soddisfazione immediata e caparbia di qualsiasi desiderio � togliendo senso all�unica cosa veramente sacra, l�unicit� della vita umana. La vera bellezza, invece, � iscritta nel patrimonio dell�universo. Ogni struttura molecolare, ogni reazione enzimatica, ogni spettro cristallino racchiude in s� il riflesso dello splendore. Ma questo splendore resta nascosto agli sguardi ottusi dei consumatori planetari, ai figli che non vogliono essere figli, agli esseri che contemplano il bello nel temporaneo, a creature che vivono immerse nel sentimentalismo ma sono prive di sentimenti, in una parodia della vita in cui si balla e si canta istericamente, per non vedere il vuoto che divora i cuori. La bellezza potr� cambiare il mondo soltanto se gli uomini riusciranno di nuovo, come i delfini e le mucche, a percepirla e a gioire della sua gratuit�. Ma per riuscire a farlo, bisogna compiere il lungo cammino che trasforma il cuore di pietra in cuore di carne, il cammino che toglie l�opacit� dello sguardo, rendendolo vivo e costantemente aperto al moto dello stupore. Quel cammino che permette alle orecchie di ascoltare, al cuore di sentire, di respingere il rumore e accogliere il silenzio. Di fare vuoto dentro di s� e intorno a s� per immaginarsi diversi, non pi� automi, ma figli. Creature capaci di scegliere e di vivere nella luce della responsabilit�.
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