La priorità della cultura in ‘Noi’ e in ‘Loro’
Quando il papa Giovanni Paolo II visitò Malta nel 1990 fu accolto all’aeroporto da alcune persone tra le quali il nostro ministro del Turismo. Il Papa gli disse “indubbiamente lei sarà grato a San Paolo per aver dato l’occasione per fare la prima pubblicità dell’ospitalità maltese negli Atti degli Apostoli” Il ministro rispose “ Certo noi gli siamo grati ma gli Atti degli Apostoli non sono il primo documento che pubblicizza questa ospitalità. Prima ancora Omero nell’Odissea descrive l’accoglienza data ad Ulisse da Calipso quando fece naufragio sull’isola di Ogygia che crediamo sia identificabile con Gozo”.
Il Papa non fece alcun ulteriore commento. Probabilmente molti di voi possono facilmente esprimere repliche che il Papa non ha fatto. C’è tuttavia un legame tra i due episodi con le due diverse versioni dell’ospitalità verso gli stranieri che è utile evidenziare. Infatti spesso oratori maltesi amano riferirsi a San Paolo e all’“astuto” Ulisse come predecessori delle migliaia di migranti che alcuni chiamano “clandestini” o altri “senza documenti” che nei tempi recenti arrivano sulle nostre spiagge con un aspetto malandato simile a quello di Ulisse e Paolo.
Indipendentemente dalle indicazioni geografiche non precise, c’è una ragione principale che ci porta ad identificare Ogygia di Omero con Malta e più precisamente con Gozo (Ogygia significa “tondeggiante” che coincide con Gozo). Essa è che Calypso, la figlia di Atlante è presentata come una divinità terrestre, legata al culto preistorico matriarcale della fertilità che era diffuso in tutto il Mediterraneo, finchè non fu rimpiazzato dal Pantheon greco con a capo il virile Zeus, grazie alla sua arma superiore e cioè i fulmini che lanciava dal cielo, con una destrezza che era molto al di sopra di quella delle Dea terrena
Nel caso di San Paolo, la questione è: perché, quando è chiaro come l’acqua che la Provvidenza desiderava che Paolo si confrontasse urgentemente con Cesare una deviazione causata da una tempesta mandata dal cielo gli fece ritardare l’arrivo a Roma di diversi mesi? La risposta data è che la missione di san Paolo era essenzialmente quella di predicare il Vangelo fuori dai confini di Israele. Ora era vicino alla fine della sua vita ed aveva annunciato diffusamente il Vangelo ma quasi esclusivamente all’interno del mondo greco-romano, dominio spirituale di Zeus e dei suoi compagni. La sua deviazione a Malta dimostra che la Buona Novella doveva essere portata anche al di là del mondo greco-romano così come era stata portata oltre i confini del mondo ebraico, anche in posti come le isole maltesi dove l’antica religione e la cultura della Madre terra era ancora fiorente nonostante la conquista romana. I maltesi vengono infatti descritti come “barbaroi”, a significare che non parlavano né greco né latino. La loro religione era la stessa di Calipso.
Quindi, il rapporto tra il ritratto che Omero fa di Calipso come regina di Malta e il ritratto di Paolo fatto da Luca come apostolo di tutte le genti è il seguente: l’accoglienza ricevuta sia da Ulisse che da Paolo a Malta mostra perfettamente l’universalità della convinzione che l’ospitalità agli stranieri era un dovere fondamentale di tutti gli esseri viventi verso tutti gli altri esseri viventi. La storia di Calipso è forse la miglior prefigurazione nella letteratura pagana del riconoscimento della dignità universale di tutti gli esseri umani che Paolo proclamò per la prima volta esplicitamente nella storia umana (cosa che il filosofo agnostico Alain Badou ha recentemente evidenziato in un suo libro)
Una cosa impressionante, comune ad entrambi le storie sia nell’Odissea che nella Bibbia, è che i due protagonisti superano frontiere culturali e religiose non politiche o legali. In realtà un tema che il fenomeno odierno profila in maniera preoccupante nelle menti di molti maltesi è proprio il cambiamento del significato delle frontiere. Invece che la dogana, edificio che tipicamente simboleggia la frontiera, i campi di detenzione ora occupano in modo ambivalente le menti della nostra gente. Questi luoghi ci mostrano chiaramente che le frontiere non sono solo linee astratte ed invisibili che separano due mondi come per una semplice finzione legale. Sono definizioni concrete di spazi, posti tangibili che rendono possibile esercitare un controllo e costringono gli ‘alieni’ a una fase della loro vita in cui attendere in un’angosciosa incertezza.
L’ambivalenza del significato di questi luoghi è dovuta a due possibili esiti dell’esperienza che le persone confinate all’interno di essi subiscono. Infatti, si può sperimentare la frustrazione , che porta addirittura all’esasperazione con un desiderio freudiano di morte, oppure il nascere di uno scambio culturale che potrebbe essere presagio di un positivo cambiamento nel processo continuo di globalizzazione
E’ questa l’immagine paradossale della “frontiera” che è emersa nelle menti delle generazioni più giovani particolarmente in questa nostra parte di mondo, ma anche un po’ dappertutto..
E’ in aperto contrasto con l’immagine di “frontiera” che avevano quelli che tra di noi appartengono ad una generazione più anziana. Quella immagine era frutto soprattutto dei film western che dominarono la nostra immaginazione quando il cinema non aveva rivali nel suo potere di catturare l’immaginazione. La “frontiera” era la linea immaginaria che i cowboys e i pionieri in America cercavano di spingere sempre più verso l’Ovest a danno degli indiani pellerossa. Gli “altri” al di là della frontiera erano proprio per questo motivo segnati come “i cattivi”.
La situazione globale è radicalmente cambiata. Non ci sono più terre da conquistare. Potrebbe sembrare che alcune situazioni come l’Iraq o la Georgia siano degli esempi che vadano nella direzione opposta. In realtà, tuttavia, queste situazioni sono generalmente percepite come anacronistiche e in parte come un modo di esibire la forma di inculturazione e di civilizzazione che la libido dominandi, per usare un’espressione di Agostino, ha preso in era post-moderna. Non sembra che la creazione di una qualsiasi mitica forma di arte confrontabile con quella occidentale sia ancora stata offerta dai mass media. Purtuttavia, il semplice avvento di reti globali quale internet sta incoraggiando l’idea che le frontiere sono fatte per essere attraversate con grande facilità sempre maggiore e che saranno forse da sopprimere completamente in un futuro non troppo distante.
Quindi, attualmente il problema della frontiere sembra essere tormentato da un doppio pericolo. Da una parte ci si illude che la tendenza alla globalizzazione, anche se nella sua attuale forma zoppicante, ha già tolto importanza alle frontiere, anche se il commercio mondiale e il governo mondiale non marciano ancora allo stesso passo. D’altra parte ci sono luoghi nel mondo nei quali si auspica un rafforzamento delle frontiere, ad esempio in Tibet. La non esistenza di frontiere legali in tali casi costituisce una minaccia alla sopravvivenza di preziose identità culturali. Un’ altra situazione in cui il definire giuridicamente le frontiere sarebbe qualcosa di positivo almeno in questo periodo è quella tra Israele e la Palestina. La multivalenza dei significati possibili di frontiera è in funzione delle diverse immagini che si possono far assumere allo straniero
Ci sono ovviamente molti altri casi in tutto il mondo dove le frontiere sono causa di conflitti internazionali o intra-nazionali quali l’Irlanda o il Kashmir e molte zone dell’Africa, e queste questioni sono tra le cause principali dei massicci movimenti di rifugiati che accadono in questo tempo. Le dispute per le frontiere possono anche essere viste in maniera illuminante collegandole ai concetti di “estraneo”, “straniero”, “xenos”. Gran parte dei milioni di rifugiati sono costretti a diventare stranieri in qualche parte del mondo poiché il loro diritto a conservare un’identità culturale, spesso significativamente contraddistinta dalla religione, non viene rispettato o addirittura non riconosciuto.. Per questo è necessario per noi riconoscere che le frontiere giuridiche possono essere una necessità positiva allo stadio di evoluzione raggiunto dal nostro senso d’identità come persone umane.
Il suo pieno sviluppo significherebbe che da una parte ci dovrebbe essere tra di noi tutta quella solidarietà che sgorga dalla coscienza dell’appartenere ad un’unica specie e dall’altra il pieno riconoscimento del diritto di ogni gruppo di godere della propria identità culturale in un mondo pluralista. Quindi la questione sui cui noi stiamo tentando di porre la nostra attenzione - Xenophobia, Philoxenia – non è tanto un problema di spostare fisicamente le frontiere ma di cambiamenti concettuali e funzionali.
Un’idea appropriata di ciò che costituisce l’identità umana dovrebbe portarci a cambiare il nostro concetto della funzione di frontiera, non più barriera divisoria ma indicatrice del patrimonio culturale, preservatrice di un’identità culturale originale.
Non si può non ammettere che dopo l’11 settembre la prassi per passare le frontiere è generalmente peggiorata. Prima di quella data si era verificata una positiva evoluzione nella direzione auspicata sia dai cristiani che da tutti quelli che dicono di credere nella dignità universale di ogni uomo. La crescente tecnologizzazione dei controlli alle frontiere ha, invece, portato quelli che tra di noi sono più paurosi a vederle come il primo passo dell’incubo descritto da Michel Foucault, quello dell’attacco furibondo di una calamità. Le carte d’identità biometriche e le apparecchiature per una verifica “total-body” alle frontiere indicano che le preoccupazioni per la sicurezza sono molto più pressanti che non il rispetto della dignità umana. Attraverso l’esperienza si è visto che è impossibile prevenire attraverso tali mezzi gli atti criminali dai quali quella sorveglianza, tipo grande fratello, vorrebbe proteggerci. Possiamo ottenere qualcosa di analogo ad un ritorno alle elementari tradizioni di ospitalità solo cambiando quelle situazioni di vita estreme che mettono a dura prova le risorse degli esseri umani e li portano a reazioni violente.
D’altra parte vari eventi stanno trasformando le frontiere da luoghi di reclusione e di attesa in occasioni di incontro e di scambi interculturali ed interpersonali. C’è, tuttavia, bisogno urgente di sostenere di più tutte quelle iniziative che promuovono un’ idea equilibrata dell’identità umana ed un uso delle frontiere che sia coerente con essa. Ad esempio, è chiaro che i passi fatti per ridurre le divisioni delle frontiere in Europa devono essere accompagnati da un rafforzamento dei mezzi di comunicazione nel continente per poter rafforzare il dialogo e la comprensione.
Sarebbe ancora più importante sforzarsi di stabilire reti efficaci di comunicazione nel Mediterraneo. Gli europei dovrebbero ricordare che almeno uno dei padri fondatori dell’Unione europea, De Gasperi, sottolineava che le frontiere in Europa non erano geografiche ma culturali. Egli definiva europeo qualsiasi persona che abbracciava quel patrimonio umanistico originato dal confluire della civiltà greco-romana con le tradizioni abramitiche condivise da ebrei, cristiani e musulmani. Ogni gruppo culturale che vive in questa area ha la sua propria cultura e in un certo senso i vari gruppi sono diventati relativamente estranei tra di loro. Hanno, dunque, bisogno di riconoscere e di rispettare le differenze tra di loro e contemporaneamente di approfondire la coscienza di quello che hanno in comune. Quando essi avranno completamente padroneggiato l’arte di questa coesistenza attraverso l’ospitalità reciproca, saranno pronti a far tesoro di questa esperienza a livello continentale ed intercontinentale, finanche a livello planetario.
Forse il più grosso contributo di Malta agli affari mondiali è stata la proposta di conservare lo spazio dell’oceano senza frontiere stabilendo per esso, attraverso una legge internazionale, lo stato di patrimonio comune dell’umanità così che continua ad essere un posto dove nessuno è straniero e ciascuno è a casa. Le Nazioni Unite hanno applicato l’idea anche alla luna e allo spazio, anche se questi non sono ancora vivibili per gli esseri umani. La nostra idea è stata fin dall’inizio che gli oceani possono essere un laboratorio nel quale ciascuno può sperimentare sistemi di governo che potranno essere messi successivamente in pratica anche sulla terra. Dopo tutto, così è andata la storia. E’ la vicenda che già Ulisse aveva in parte immaginato e che san Paolo dopo di lui concepì e proclamò pienamente.
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