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Liturgia di ringraziamento per il 50mo anniversario della Comunità di Sant'Egidio

10 febbraio, ore 17,30 Basilica di San Giovanni in Laterano

 
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18 Novembre 2008 09:30 | Hilton Cyprus - Ballroom A

Intervento di Jesús Delgado



Jesus Delgado


Vicario generale della diocesi di San Salvador, El Salvador

LA PACE IN AMERICA LATINA
Tra modernizzazione e rivoluzione
Mons. Dr. Jesús Delgado

LA PACE NEL SALVADOR

A partire dal secondo decennio del XX secolo, i paesi dell’America Latina si sono svegliati da un letargo economico e politico durato quattro secoli, per mettersi al passo con un mondo ormai in cammino verso la globalizzazione. Il compito più urgente consisteva nel costruire la pace nella regione. Per questo fu fondamentale l’illuminante contributo dato da Giovanni XXIII con la famosa enciclica “Pacem in terris”. Per ottenere la pace era necessario fondare la società sui pilastri della giustizia, della verità, dell’amore e della libertà.

La modernizzazione e la rivoluzione si presentarono come soluzioni di cambiamento nella regione centroamericana. Contrariamente ad altri settori del mondo in via di sviluppo, l’America Latina presentava una cultura piuttosto consolidata, tale da resistere alle violente trasformazioni di cui furono oggetto, ad esempio, le culture di Africa ed Asia. La nota caratteristica dei paesi centroamericani dell’epoca era il timore del dominio del colosso del nord, gli Stati Uniti, la cui politica estera frenava i cambiamenti sociali, politici ed economici che l’America Centrale cercava per sintonizzarsi con il Primo Mondo.

La modernizzazione
L’appoggio prestato dagli Stati Uniti alle dittature reazionarie di destra, insieme al controllo degli enormi interessi economici nella regione centroamericana, posero un freno al processo di modernizzazione socio-economico. I paesi dell’istmo centroamericano avevano chiara la necessità di favorire la crescita della produzione agricola, di una riforma fiscale, della stabilizzazione dei prezzi, dello sviluppo di fonti naturali, di un controllo della fluttuazione delle valute estere e di una integrazione e economica.

Il criterio di modernizzazione si definiva allora come la capacità di un governo di promuovere davvero cambiamenti sociali efficaci, insieme alla riforma economica. 

Venti ideologici di stampo comunista cominciarono a soffiare nei paesi dell’istmo centroamericano profetizzando, con forti dosi di demagogia, cambiamenti rivoluzionari dell’ordine sociale ed economico come risultato di un’aspra lotta contro le élites militari e oligarchiche di destra soddisfatte dello “status quo”.

Molti paesi del cosiddetto “terzo mondo”, asiatici, africani e latinoamericani, erano tentati dall’idea di un socialismo universale che li aiutasse a scuotersi di dosso un capitalismo troppo legato al guadagno a discapito del bene sociale, e all’individualismo a dispetto del bene comune. Era un socialismo inteso come pianificazione intensa da parte dello Stato, come nazionalizzazione  delle principali industrie e vasti programmi sociali. Non si trattava propriamente di comunismo, piuttosto di un “comunitarismo”, rappresentato da uno Stato-Provvidenza. In America Latina questo tipo di dirigismo volto al benessere sociale si fece strada nei paesi più progressisti come Cile, Venezuela, Cuba, Perù, Messico, Bolivia e Uruguay. I paesi dell’America Centrale rimasero intrappolati, bloccati da una crociata anticomunista e nel timore di una brutale repressione.

La modernizzazione si presentava allora come la volontà delle élites di progredire trasformando le società tradizionali in società moderne, orientate verso uno sviluppo tecnico più rapido ed una crescita economica più duratura che elevasse il livello sociale di vita della maggioranza della popolazione.

Uno degli intenti era quello di liberarsi da ogni tipo di imperialismo. Esso diede luogo alla febbre rivoluzionaria di stampo comunista che iniziò ad invadere gli animi degli intellettuali e delle generazioni di giovani studenti di allora. Tale intento era in un certo senso esterno al processo di modernizzazione. Gli altri erano più peculiari. Occorre segnalarne innanzitutto tre: il progresso economico per cementare le basi dello sviluppo, questo obbiettivo diventò l’asse della modernizzazione e il suo raggio d’azione si estese, in modo positivo, verso l’ammodernamento dell’agricoltura per sfamare le masse di lavoratori che si sarebbero concentrati nelle città industriali; la conseguenza negativa fu la distruzione, o il cambiamento dei valori culturali tradizionali che si presumeva impedissero il progresso industriale.

Il secondo obbiettivo era la socializzazione più intensa della vita economica e sociale per liberare la popolazione dalla prospettiva della povertà, dallo sfruttamento dei settori più ricchi della società e delle élites dominanti, tutto ciò accompagnato da un miglioramento dei servizi sanitari e nel campo della cultura, delle pensioni e dell’assistenza medica, ecc.

Il terzo obbiettivo andava nella direzione di intensificare le vie di comunicazione, per favorire la mobilità sociale della popolazione. Ciò implicava la modernizzazione delle reti di comunicazione e la formazione di tecnici e quadri.

La rivoluzione
Per contrastare i fattori che frenavano o impedivano il processo di modernizzazione nei paesi dell’area centroamericana, o semplicemente per promuovere vie alternative, il comunismo si presentava come redenzione dalla povertà e dalla miseria delle nostre popolazioni, ispirandosi alle esperienze  del comunismo sovietico o cinese.

Si cercava, quindi, in modo negativo, di distruggere lo “status quo”; positivamente, invece, di far convergere  lo sviluppo economico verso una distribuzione della proprietà più equa e, controllandolo, consegnare il potere nelle mani del  popolo che doveva elaborare il proprio destino all’interno e all’esterno.

Tale rivoluzione si accendeva laddove esisteva un disordine sociale di base e dove la maggioranza della popolazione povera era convinta di non avere nulla da perdere facendo la rivoluzione, abituata com’era a soffrire e a vivere nella povertà. Questa specie di fatalismo portava la popolazione alla disperazione e alla violenza. In questa situazione “libertà” significava morte dell’oppressore.

Nei paesi dell’America Latina in generale, e in quelli del Centro America in particolare, due fattori agivano come legna secca per il fuoco rivoluzionario. Da un lato gli interventi nordamericani causati dagli interessi economici sorti nella regione, dall’altro il loro appoggio alle dittature con la giustificazione ideologica che lo scopo fosse frenare l’avanzata del comunismo sovietico nella regione.

Una terza via?
La paradossale situazione politica in cui si trovarono immersi i paesi centroamericani era più o meno la seguente: gli Stati Uniti con la loro ingerenza in questi paesi non avevano nulla da perdere sostenendo lo “status quo”, anzi in tal modo pretendevano di frenare la diffusione del comunismo nella regione e difendere i loro interessi vitali; d’altro canto, neppure le masse popolari avevano nulla da perdere scendendo per le strade con la violenza propugnata dal comunismo internazionale di allora. Dov’era il paradosso? Il comunismo si presentava ideologicamente come il campione del nazionalismo universale, in realtà era una chiara negazione della libertà umana e del vero nazionalismo; d’altra parte, mentre l’ingerenza nordamericana difendeva lo status quo, pretendeva idealmente di promuovere la libertà politica e umana.

Le due tendenze finirono con lo scontrarsi e si creò una situazione di conflitto che portò a un bagno di sangue. Ma i popoli centroamericani non arretrarono nell’impegno di  cercare il progresso in tutti i campi economici, sociali e politici, servendosi magari di strumenti del capitalismo ma cercando di mettere in piedi realtà di stampo socialista al servizio delle maggioranze popolari e cercando di creare una classe media più forte. Un parto felice di questo approccio aveva già un nome: il comunitarismo.

La Democrazia Cristiana, animata in molti casi dalle forze religiose dei paesi centroamericani, si presentava come una terza via che cercava di mettere insieme, in modo non violento, gli interessi dei popoli più poveri con gli interessi degli Stati Uniti nella regione. Il serio problema che affrontò questa “terza via” fu quello di costruire una società in armonia con la dottrina sociale della Chiesa attraverso due strumenti, capitalismo e socialismo, le cui ideologie erano profondamente materialiste. Nel  XXI secolo queste aspirazioni tornano ad affacciarsi, e sono di stampo prettamente socialista con un volto umanista.

Monsignor Romero che per un periodo simpatizzò per la terza via offerta dalla Democrazia Cristiana, ne rimase poi deluso, quando si rese conto che l’elemento cristiano si perdeva nel mare magno dei due imperi, le cui ideologie e i cui interessi erano di fatto inconciliabili con l’ideale e le esigenze del Vangelo.

Gli accordi di pace

Il 16 gennaio del 1992 si firmarono a Chapultepec gli accordi di pace tra le parti in conflitto, dopo una lunga guerra di insurrezione e contro-insurrezione scatenata nel Salvador  da forze guerrigliere opposte all’esercito nazionale, entrambi appoggiati da forze militari e politiche straniere, nella cornice della guerra fredda della geopolitica di quegli anni.

L’infaticabile impegno di Monsignor Arturo Rivera Damas, quinto Arcivescovo di San Salvador, per richiamare i salvadoregni alla riconciliazione e al perdono reciproco fu ignorato pubblicamente dalle autorità del Salvador fino al 2007, data di commemorazione dei 15 anni da quell’evento. In quell’occasione, l’attuale presidente della repubblica nel discorso celebrativo disse: “ e non meno glorioso e meritorio per la patria fu il costante impegno di Monsignor Arturo Rivera Damas per chiamare i salvadoregni alla riconciliazione, sin dai mesi che precedettero la firma degli accordi di pace di Chapultepec. Senza di ciò, la stessa firma degli accordi sarebbe stata impossibile”.

La pace che da allora ha regnato nel Salvador è sicura, in quanto le parti in causa compresero e rispettarono il richiamo della Chiesa alla riconciliazione come unica via d’uscita da una guerra durata dodici anni. Mons. Rivera insistette molto sul fatto che la pace non si ottiene attraverso trattati e firme, ma dal cuore di uomini che conoscono la pace interiore e possono proiettarla verso l’esterno, nella vita sociale, politica e umana in generale.

Il Salvador è diventato per il mondo dei cercatori di pace, un modello di pace per edificare una solida democrazia. Gli ex guerriglieri entrarono da subito, dopo aver deposto le armi, nel gioco politico delle democrazie del mondo. Sin dal 1992 hanno svolto un ruolo importante come partito di opposizione. Hanno approfittato di tutto questo tempo per imparare a governare a livello provinciale, ed ora si trovano pronti a dimostrare le loro capacità nel governo del paese con la  presidenza della repubblica, che aspirano a conquistare nelle prossime elezioni presidenziali di marzo.

Tutta l’America Latina appare ora sospinta dai venti del cosiddetto “socialismo del 2001”. Si tratta di un movimento nato da settori fino ad ora sottovalutati politicamente e socialmente, ma che si apprestano ad assumere nelle proprie mani il destino dei loro paesi, precedentemente governati dal capitale agroindustriale locale, assecondati da un militarismo ben poco nobile, più spesso servile.

L’attuale arcivescovo di  San Salvador, Monsignor Fernando Sáenz Lacalle, ha seguito, a suo modo e con la propria attitudine e personalità, le orme dei suoi predecessori. Ha saputo pascere un gregge di credenti cattolici politicamente collocati su schieramenti opposti. Ha mantenuto le aspirazioni profetiche di Monsignor Romero, pur non avendo lo stesso carisma profetico; ed ha continuato a coltivare nei cuori dei salvadoregni la chiamata alla riconciliazione e al perdono per la quale tanto combatté Monsignor Rivera Damas. Monsignor Sáenz lo ha fatto attraverso un chiaro impulso alla vita spirituale come stella che guida gli uomini nelle loro attività politiche, economiche, sociali.

Nell’attuale fase pre-elettorale, esiste, nella popolazione del Salvador, una chiara visione della necessità di farla finita con gli antichi modelli sociali di governo. L’orologio della storia ha segnato la fine dell’emarginazione e della persecuzione politica di una parte della popolazione. I salvadoregni sono persuasi che, quale che sia il partito politico che giungerà al potere tra i due schieramenti ARENA (di destra) o FLMN (di sinistra), nessuno dei due potrà governare come si è fatto fino ad ora. Il grido dei poveri e dei miseri è già troppo forte e si fa sentire senza bisogno di minacciare violenze guerrigliere. Non ci sono più scuse né c’è spazio per piani come quello di Sicurezza Nazionale, né per disegni comunisti di stile sovietico.

Ora noi salvadoregni abbiamo ricevuto la chiamata dei vescovi latinoamericani, nella quinta conferenza continentale ad Aparecida, affinché anche nel campo della politica siamo creativi nell’amore, praticando una carità fatta di impegno, di prossimità e di avvicinamento dei più poveri e dei più bisognosi del continente.

Appare opportuno ricordare qui le parole di Andrea Riccardi, pronunciate a nome della comunità di Sant’Egidio:

“E’ necessario fondare una civiltà della convivenza tra molti soggetti del nostro mondo: stati, religioni, realtà economiche, culturali, civili…Bisogna fondarla se vogliamo un futuro di pace. Questa civiltà già esiste in molte regioni: è scritta nei cromosomi delle religioni, negli orientamenti delle culture. Grazie a Dio non si tratta solo di un sforzo volontaristico! La civiltà della convivenza esiste già in parte, ma è necessario ampliarla e renderla stabile, bisogna accrescere la sua accettazione tra la gente. Per ottenerlo resta un immenso lavoro culturale da fare. Siamo qui proprio per lavorare insieme per far crescere questo sogno”.

Conclusione
Il cammino verso la pace dei nostri paesi centroamericani è disseminato di pianto, di lutto, di morte ma anche di speranza. Siamo convinti che il sangue di chi morì affinché la giustizia, la verità, la libertà e l’amore diventassero i pilastri delle nostre democrazie, non sia stato sparso invano.

 

 



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