Comunidad de Sant’Egidio, Italia
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Cari amici,
benvenuti!
Il tema che ci raccoglie insieme porta il titolo di “preghiera, malattia, guarigione”. Sono tre sostantivi che entrano in rapporto l’uno con l’altro, solo se accettiamo di porci senza difese innanzi alla fragilità del corpo e della mente, di cui ciascuno di noi è portatore. Dall’incontro di questa mattina non ci aspettiamo alcuna risposta definitiva, ma un dialogo aperto e sincero senza negare le contraddizioni e la sfida che la malattia, le malattie sono e rappresentano per ciascuno e per le nostre comunità di fede, siano esse cristiane, ortodosse, cattoliche, evangeliche, ebraiche, islamiche. Non è un tema esterno, freddo, distante: è, al contrario, una dimensione della vita che sfida la coscienza, la fede, che muove all’empatia o alla paura, e che quando ci tocca nella nostra stessa carne, scuote tante certezze. La malattia rivela una verità profonda dell’umanità: siamo fragili e la vita è un dono che va preservato e attende di compiersi, di realizzarsi pienamente.
La malattia ci ricorda ciò che vorremmo dimenticare: nasciamo poveri, moriamo poveri, lì dove essere “poveri” significa non bastare a se stessi, essere dipendenti, ma in questa dipendenza – ed è il tema della preghiera - possiamo sperimentare il soccorso di Dio, che ci apre alla nostra vera vocazione di uomo, donna, bambino, anziano. E’ vocazione oltre il presente, alla vita piena, alla vita di amore, o - in termini cristiani, ma non solo – alla vita con Lui, che – solo - ha sconfitto la morte. La malattia irrompe come una contraddizione potente o come un inciampo: essa stessa limite, e richiamo ineliminabile alla finitezza del nostro essere.
E poi: chi è pienamente sano e chi è malato? Nel fratello e nella sorella la cui esistenza è segnata dalla ferita della malattia, c’è qualcosa di me. E quando sono io ad essere malato, spero ci sia un amico accanto, capace di sollevarmi e offrirmi un approdo di salvezza. La malattia erode la barriera che si vorrebbe alta e insuperabile, fra me e la fragilità. In realtà, tutti siamo fragili, e tutti possiamo, nella preghiera, aprirci alla attesa di guarigione.
Peraltro la malattia, le malattie, sono un segno dei tempi, inciso nel corpo, nella mente, nell’anima. Pensiamo all’incidenza del disagio psichico, in un tempo di solitudini…O pensiamo alle malattie che segnano corpo e anima dei rifugiati. Sono come la memoria dolente delle tappe dei loro viaggi disperati, delle persecuzioni, delle aggressioni subite. Altre malattie insorgono quali conseguenze dell’atteggiamento predatorio dell’uomo verso il creato, e riguardano popolazioni intere. Quanti deliri di onnipotenza generano male e malattie, a tutte le latitudini e in tutti le regioni del mondo: quelle più ricche come quelle più povere. La malattia del singolo, rivela la sanità o la patologia del corpo sociale. Mostra la capacità di empatia della comunità, che si identifica con i suoi figli più deboli, o denuncia la sola paura del contagio.
Altre volte la malattia insorge senza apparente ragione, all’improvviso, perché è scritta nei nostri geni. Spesso è percepita come un’ingiustizia, come un ladro che ci sottrae autonomia, rapporti, benessere, felicità. Altre volte si chiama malattia ciò che malattia non è, ma piuttosto è parte della esistenza e delle sue stagioni (le età della vita, divenire vecchi etc). Potremmo continuare. Non possiamo semplificare, ma solo accostarci al tema con sincerità e timore.
Ciò che è certo, la malattia rivela il nostro bisogno di accudimento, ovvero di cura, di speranza, di tenerezza, come un bambino con la propria madre. La malattia è portatrice di dolore, ma è anche ragione di domande autentiche sul senso della vita, sulla speranza e sul domani. Si pone al cuore del rapporto fra me e Dio, la sua giustizia, il suo potere di guarigione. Rivela la mia fiducia e la mia resistenza al male; sviscera la mia paura. Provoca alla preghiera, anche quando si esprime solo come un urlo o un balbettio. E la preghiera cerca segni e risposte. Pone, ad esempio, il problema dei luoghi, o se vogliamo dei santuari, ove dirigersi per cercare guarigione. Pone il problema serio alle comunità di fede.
Vorrei ora partire dalla mia e nostra esperienza come Comunità di Sant’Egidio; esperienza quindi parziale ma reale, per aiutarmi a dire qualcosa di vero e non retorico. L’incontro, o lo scontro con la malattia richiama volti di amici, di fratelli, e spesso di donne, uomini, piccoli o anziani per i quali la malattia ha rappresentato una povertà ulteriore, oltre a quelle che già segnavano le loro esistenze. Fra i più poveri infatti, la malattia acquista una forza devastante per l’assenza di difese, l’esposizione al contagio, l’impossibilità o la difficoltà nell’accesso alle cure, lo stigma che precede già l’insorgere delle patologie, la solitudine. Se la malattia è comune eredità, i più poveri, più di noi sono segnati dalla potenza del male.
L’incontro, o lo scontro con la malattia, ha anche attraversato le nostre personali esistenze. Abbiamo combattuto, pregato e sperato per la salvezza di tanti amici. Abbiamo sentito il graffio della morte e la perdita dolorosa di fratelli e di sorelle. Abbiamo sentito la gratitudine profonda per i tanti anni di vita in più che ad altri sono stati donati. Abbiamo visto risorgere e abbiamo visto morire. Sappiamo che la nostra vita è breve, e crediamo al suggerimento del salmo “Insegnaci Signore a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”. Non siamo rassegnati, né per noi, né per i più poveri. Dio tutto può e l’amore operoso può preservare tante vite. Questo amore operoso ha bisogno di una fonte a cui attingere determinazione, intelligenza, empatia.
Ogni comunità di Sant’Egidio si ritrova periodicamente a pregare per i malati, in una invocazione fatta di ascolto della Scrittura, predicazione, memoria dei nomi di quanti soffrono, accensione di luci di speranza e di resurrezione. La Basilica di S.Maria in Trastevere a Roma, ma anche ciascuna comunità nel mondo, raccoglie così un intenso desiderio di guarigione e lo presenta al Dio della vita, accettando che la fede, anche se piccola, ci renda mendicanti di speranza e della sua forza taumaturgica. Allo stesso modo, a Sant’Egidio, prima casa della comunità, ogni giorno alle ore 18.00, una campana suona e qualsiasi attività abbia luogo, ci si ferma e ciascuno si raccoglie in una breve preghiera silenziosa per i malati. La preghiera comune e personale attinge alla profondità e alla luce delle Scritture, alla narrazione dei Vangeli, per scorgere, nella tempesta, la mano di Dio.
Vorrei sottolineare come preghiera e amore fattivo si nutrano l’uno dell’altro. Non siano mai contraddittori. La preghiera anzi suscita e sostiene la tenacia e la creatività dell’amore, dona orientamento, crea sinergia, ci sostiene nella battaglia contro la morte che altrimenti ci vedrebbe vacillare. Il sapere scientifico, le risorse – anche nella loro insufficienza – vengono messe a servizio della guarigione e della rivolta contro la morte. Nella lunga storia del cristianesimo, si avverte ancora lo scandalo per le parole di Gesù, che mette in questione la fede dei suoi discepoli, ancora troppo piccola: ad essi sarebbe permesso di spostare le montagne, se solo credessero. Nell'incontro con il giovane epilettico, narrato dai Vangeli, è lui a guarire, mentre ai suoi, impotenti di fronte alle ricadute della malattia, ricorda che preghiera e digiuno possono compiere il miracolo. Scandalo analogo al suo modo di guarire: unico nel contesto palestinese, toccava i lebbrosi, assumendosi la loro impurità. Prossimità, la più fisica ed estrema, e sguardo in alto, mai scisso dalla fiducia nel padre. E quanti esempi, nella storia del cristianesimo che contraddicono una visione dualistica, contrapposta, ovvero una accezione spiritualista della preghiera o materialista dell'amore. L'evangelista Luca era medico egli stesso, e Gesù si è identificato con il medico che viene “per i malati e non per i sani”, come allo stesso tempo, viene “per i peccatori e non per i giusti”, ricordandoci che tutto l'uomo ha bisogno di guarigione, corpo e cuore. La nostra prossimità a lui ci spinge a opere più grandi, e a una fiducia inedita che permette di credere e lavorare per ciò che sembra impossibile. Credere e amare oltre il limite imposto dalla cultura corrente, dalla potenza del male, dalla rassegnazione imperante. Penso alla sfida immensa affrontata attraverso il programma DREAM, nato per contrastare l’AIDS in territorio africano per rendere possibile e accessibile, non solo la terapia antiretrovirale, ma anche l'educazione alla salute, il sostegno nutrizionale, la diagnostica avanzata, la formazione del personale, il contrasto della malaria, della tubercolosi, delle infezioni opportunistiche e soprattutto della malnutrizione. Le donne, marginali e marginalizzate anche a causa della malattia, sono divenute il centro di una consapevolezza nuova e rappresentano la possibilità di reagire e vivere l’inizio di una nuova vita. Con loro, gli uomini, il villaggio, i vicini. I bambini, nati sani, non si aggiungono più ai milioni di orfani destinati alla strada o a famiglie di nonni e bambini, senza più generazioni intermedie. Preghiera e amore possono condividere la stessa determinazione. Sono uniti dalla gratuità; entrambi necessitano dell’ascolto, entrambi producono uno sguardo nuovo su chi abbiamo di fronte, su noi stessi, e ci aprono allo sguardo di Dio.
Sono rimasto recentemente colpito dalle riflessioni di un docente italiano di bioetica, il Prof. Paolo Cattorini, che ha pubblicato diversi studi sulla malattia mentale, la preghiera, l’incontro con la fede. Cattorini ha scritto, nel volume I salmi della follia, “La malattia mentale ha bisogno di parole nuove per essere narrata”. Si tratta di una lettura competente e scientifica del disagio psichico, che diviene umana e spirituale quando è posta a confronto con il mondo di angosce, speranze, dolori, invocazioni, contenuti in questa parte delle Scritture ebraico-cristiane. “Il malato ha diritto di esigere che un alleato abiti insieme a lui un mondo frantumato. Chiede appunto, un aiuto a parlare a raccontare ciò che gli avviene. Chiede un salmista che reciti un’altra volta per lui, il testo della denuncia e della supplica”. Ciò che lui afferma del disagio psichico, io credo valga per tutte le malattie e per tutti i sofferenti nel corpo o nella mente.
La malattia infatti insorge spesso come cedimento e crollo di un’esistenza, come una minaccia alla persona, e, prima di poter capire se si tratta di un malfunzionamento del corpo o della mente, essa è già lacerazione o blocco della persona nel suo complesso. Di fronte all’insorgere delle malattie che feriscono il corpo, credo che in modo non dissimile a chi è provato nella psiche, si scatenano in noi voci diverse e contraddittorie. Come difendermi? Sono debole e rischio di venire schiacciato…Allora invoco un liberatore…Qualcuno accoglierà il mio grido e prenderà le mie difese. Non so chi, quando e dove, ma non demordo dal mio desiderio di Giustizia. Dio restaurerà l’ordine antico che l’empio ha distrutto. Nei salmi, i nemici sono voci esterne, aggressioni all’orante, assedio, esattamente come le malattie. Ma i salmi dicono che gli empi sono anche dentro di noi. Sono i veri nemici i più pericolosi. Tante voci, che però bisogna ascoltare o rimettere a Dio. Con Cattorini, potremmo riconoscere che a volte, queste voci sono anche interiori, ed entrano in conflitto l’una con l’altra. La preghiera è una battaglia interiore per riconoscere dignità alle voci “buone”, voci della debolezza, che rivendicano accudimento e speranza. Chi prega infatti rincorre un pensiero di speranza, che sia in grado di dominare il caso dell’angoscia, di governare le acque maligne, di generare un sonno nuovo, di riscattare dall’anarchia i pensieri ora dolorosamente conflittuali…E’ ricerca di un volto tenero, di uno sguardo comprensivo, che entri nelle porte del cuore e ci aiuti a distinguere le buone dalle cattive intenzioni. Chi prega, come l’orante, il salmista biblico, educa i personaggi interni della propria mente, tranquillizza le voci più spaventate…Chiede a Dio di agire in senso trasformativo, ma a una certa distanza, con un certo ritmo, rispettando i tempi maturativi, offrendo una tregua dallo sguardo troppo severo.
Chi nella preghiera non ha fatto anche esperienza del silenzio di Dio, o della sua distanza? La percezione della sua lontananza ci espone alla violenza della rabbia e della disperazione, e ci sentiamo come dei belligeranti assediati. Quando però questa percezione si trasforma in supplica, ci si trasforma da belligerante assediato, a uomo o donna fragile che protesta, e che sapendo di esserlo, come un balbuziente affida alla speranza il compimento di ciò che crede. Tuttavia, mentre volgiamo gli occhi alla ricerca dell’onnipotenza di Dio, lui stesso cerca risposta in noi, come un desiderio di alleanza, come un canto alla felicità di essere assieme. Scrive Paolo Cattorini: “La vera potenza, cui l’uomo può accedere, non è quella del vendicatore armato, ma quella di una supplica elementare, vera come quella dei bambini, tanto essenziale che non dispone nemmeno di parole chiare per chiedere aiuto” .
Pochi giorni fa, una piccola di quasi otto anni, insieme a sua madre, coraggiosa e credente, si è affacciata a S. Maria in Trastevere alla nostra preghiera serale per i malati. La piccola, dall’età di due mesi, ha subito il trapianto di quattro organi vitali, e vive in condizione di perenne pericolo. Immunodepressa per i farmaci antirigetto, è affamata di affetti, vita, rapporti, che spesso vengono rarefatti dal rischio di venire contagiata da malattie innocue per gli altri, letali per lei. Oltre la mascherina che le copre il sorriso, le parlano gli occhi. E portando in braccio un piccolo peluche fa dire a lui, ciò che non riesce a dire di sé: “Il mio cagnolino ha sofferto tanto da piccolo…Dice che avete il cuore traboccante di amore. E’ felice di stare con voi…”. La madre, come una leonessa tenera con il proprio piccolo, combatte con lei e per lei.
La preghiera nella malattia è spesso richiesta a Dio perché come un padre energico e forte spezzi le armi del nemico o come una madre ci cinga di un abbraccio tenero. Ma la preghiera ci apre anche a qualcosa di più di ciò che chiediamo (essere sollevati da un sintomo, tornare alla precedente condizione di sanità…): la preghiera ci apre alla ricerca e all’offerta di un’alleanza. Nella supplica infatti, mentre si chiede a Dio di sorgere in nostra difesa, anche il supplicante viene trasformato. L’alleanza con Dio ci contagia della sua stessa empatia. La piccola di otto anni, poche sera fa pregava per altri piccoli amici. Non chiedeva solo per sé. La pretesa della malattia di recidere i legami, di ridurre il mondo all’io sofferente, non ha la meglio su questa piccola e nemmeno su di noi se, umili credenti, ci lasciamo trasformare dalla risposta e dall’abbraccio di Dio, e sedurre dall’amore per gli altri, anche nella difficoltà. Questo abbraccio, questa alleanza, ci ricorda il valore e il senso della loro vita, sempre. Ho visto, e ciascuno può ricordare donne e uomini che, pur gravemente malate, hanno visto crescere il loro “uomo interiore” - definizione che l'apostolo Paolo da dell'anima, dei pensieri, del cuore. E questo, mentre il corpo esteriore si va indebolendo.
Ma bisogna allenarsi a dare e a chiedere aiuto. La guarigione è della nostra umanità nella sua interezza. E' il tempo in più che ci è dato, per vivere ancora il mistero, nella battaglia per fare – nella fragilità, esperienza di una forza nuova e debellare le tentazioni di vincere la malattia con la forza, timorosi della debolezza, percepita come ripugnante. Non l'eterna e vana autosufficienza, ma giorni in più per amare, credere, lenire, trovare senso e dare senso.
La sapienza cristiana e la saggezza dei Padri della Chiesa ha sempre guardato con attenzione alla sofferenza, luogo ove si svela la verità del nostro vivere e la verità di Dio. Jean Claude Larchet, ha scritto molto sulla storia del rapporto fra santità, malattia, guarigione, con particolare riferimento all’Oriente cristiano, lasciandoci saggi acuti e ponderosi, quali “Teologia della malattia”, “Terapia delle malattie spirituali” ed altri. Uno di essi porta il titolo significativo “Dio non vuole la sofferenza degli uomini”, prendendo a prestito un'affermazione molto forte di S.Isacco il Siro. Mi sembra che non si possa mai benedire la sofferenza in sé. La sofferenza è un grande banco di prova. E' una pietra d'inciampo alla stregua della morte ingiusta degli innocenti. I Padri greci hanno sottolineato come Dio non abbia creato la sofferenza, e come il cristianesimo sia via di salvezza, non di dolore. S.Basilio afferma: “Dio ha creato i corpi, non la malattia”. Per questi cristiani è la separazione dell'uomo da Dio seguita al peccato originale, ad aver introdotto i mali nell'esistenza dell'uomo. La sua autonomia da Dio è principio di amore malato per sé, che Massimo il Confessore chiama philautia: un amore passionale e fallito per sé, madre di tutte le passioni fallite che generano nuove sofferenze. E' un culto tragico e tirannico di sé. Una tirannia che è il contrario della libertà dell'uomo che vive nell'amore di Dio.
Da tutto ciò appare come la sofferenza sia piena di domande acute, alle quali non può mai rispondere una logica retributiva. Non si può, come gli amici di Giobbe giustificarla a partire da una lettura moralista, pseudo religiosa, esterna e distante da chi soffre, sino ad affermare che la malattia sia espiazione del peccato. Giobbe era giusto, era pio, era fedele al Dio di Israele. Non aveva compiuto alcun male. La sua protesta e la sua angoscia è attuale e viva, e scuote in ogni tempo chi è colpito: “Perché io? Perché Dio permette il male?”. In Occidente Gregorio Magno, vescovo di Roma, lui stesso malato, ha scritto un lungo commento al libro di Giobbe, nei Moralia. Gregorio lo ha scritto, immerso nel suo popolo e toccato egli stesso da una grave malattia, probabilmente un tumore allo stomaco, che lo ha segnato senza spegnere la sua inquietudine, accrescendo la sua empatia con gli uomini e le donne ai quali predicava. Insieme a profonde constatazioni sull'insensatezza e l'incapacità di consolare dei falsi amici di Giobbe, sulla giustizia di quest'uomo provato nella sua stessa carne dall'invidia del diavolo, sulla sua fede, ce n'è una sulla fiducia di Dio nel suo servo. “Sia ben chiaro, non fu per primo il diavolo a richiedere Giobbe al Signore, ma fu il Signore a fare l'elogio di Giobbe a dispetto del diavolo; e Dio non avrebbe certo scommesso su di lui, se non fosse stato sicuro della sua perseveranza nel bene”. Noi forse non siamo giusti come Giobbe, eppure nella malattia, fra preghiera e guarigione, fra dolore e speranza, possiamo sentire la fiducia di Dio. Lui crede che in ogni uomo, donna, piccolo o anziano, ha deposto un seme di amore per la vita, di amore per Lui che, nella prova può salvare e restaurare ciò che il male vorrebbe corrompere: il senso della vita che trova pienezza nell'amore, nell'alleanza con lui, nell'amore fra di noi, sempre. La guarigione è sempre alleanza. Grazie
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