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11 Septiembre 2017 16:30 | Bezirksregierung Muenster, Freiherr-vom-Stein-Saal

Intervento di Manfred Lütz



Manfred Lütz


Primary Physician of the Alexianer Hospital in Cologne, Germany
Sono stato invitato a parlare in questo consesso perché mi sono occupato a lungo del tema di una vita degna e di una morte degna. Mons. Paglia ha scritto su questo tema un libro estremamente interessante, per la cui edizione tedesca ho scritto la prefazione e che oggi viene presentato qui, per la prima volta, al pubblico tedesco.  Non voglio però parlare unicamente di questo toccante libro, ma anche delle domande fondamentali che il libro ci pone. 
 
Già da tempo osservo come la nostra si sia trasformata in una società dei sani. Tante persone non credono più ad un Dio amorevole, ma alla salute, e quello che prima si faceva per quel Dio pieno di amore per noi, come pellegrinaggi, digiuni e opere buone, si fa oggi per la salute. Ci sono persone che non vivono più in pienezza, ma vivono prevenendo e dunque muoiono sani. Ma anche chi muore sano, è pur sempre morto. L’indomito desiderio dell’uomo per la vita eterna e per la gioia eterna resta intatto, ma non trova più forma nelle religioni tradizionali, ma piuttosto nella medicina e nella psicoterapia. Senza in questo modo potersi realizzare: con rammarico, comprensibilmente. La salute è divenuta dovunque il bene più prezioso e allo stesso tempo un prodotto fabbricabile: bisogna fare qualcosa per la salute, dal niente discende il niente, chi muore, ne ha la colpa. E così le persone corrono nei boschi, mangiano granaglie e anche di peggio – e continuano a morire. La sacralizzazione della salute e contemporaneamente la sua irraggiungibilità sono però economiche e estremamente attrattive. Uno scopo raggiungibile è ininteressante dal punto di vista economico. Così la nota definizione utopica dell’OMS degli anni Cinquanta: “la sanità consisterebbe nel pieno benessere fisico, morale e sociale” ha contribuito involontariamente alla costruzione del mito salutista che si è imposto al di là di ogni confine e cheancora oggi tiene banco.
Friedrich Nietzsche ha detto al contrario in modo estremamente pragmatico: “La salute è quella quantità di malattia che mi permette ancora di adempiere ai miei impegni fondamentali”. E comunque la salute è un bene di estrema importanza, ma non il sommo bene. 
Questa imperante frenesia per la salute può essere considerata ridicola, o vista come un eccesso della nostra società eccessiva. Ma l’egemonia quasi incontrastata di questa religione della salute ha conseguenze etiche molto gravi. Se il vero essere umano è quello sano, produttivo, di successo, allora la conseguenza è che l’essere umano malato, soprattutto quello di malattie incurabili, e quello handicappato sono esseri umani di seconda o terza classe. “L’importante è che sia sano” è il commento leggero e spontaneo quando qualcuno racconta di aver avuto un figlio. Una donna di 32 anni mi ha scritto di aver avuto fin dalla nascita una grave malformazione cardiaca per cui è stata già operata sei volte. Per lei la tesi che la salute sia la cosa più importante è una insolenza diffamante. Se così fosse, lei non avrebbe mai posseduto la cosa più importante della vita, pur vivendola ogni giorno, pur amando i suoi figli – che i medici a causa della sua malformazine cardiaca le avevano sconsigliato di avere. Ma la miliardaria industria della salute vive per un verso formalmente della idealizzazione religiosa del concetto di salute, e per l’altro verso della sua irraggiungibilità utopica, per cui nessuno può essere veramente sicuro di essere realmente sano. “Sana è una persona, che non è stata controllata in maniera sufficientemente accurata” ha detto una volta un noto internista. Anche per quanto concerne la salute psichica, come psichiatra e psicoterapeuta dopo un colloquio di 20 minuti mi sento in grado di diagnosticare una piccola depressione a causa della sua prima infanzia, indifferentemente da come sia stata la sua prima infanzia.  
 
Un ulteriore problema è l’incalzante mentalità del casting. 
 
Anche i giovani vengono educati a credere che il lavoro e il successo sono fondamentali per realizzarsi nella vita. Ma questo è completamente assurdo. In occasione dei festeggiamenti per la fine della pubertà di entrambe le nostre figlie abbiamo dato una grande festa, e in questa occasione ho preso la parola in quanto padre delle festeggiate. Ho espresso la nostra gioia per queste ragazze, per il loro amore per gli altri, per il loro impegno sociale e ho augurato loro ogni bene e la benedizione di Dio per la loro vita – ma volutamente non il successo. Perché il successo non è importante nella vita.  Bisogna impiegare le facoltà che il buon Dio ci ha donato con costanza e impegno, che poi si raggiunga il successo, ciò dipende da tante casualità, che davvero nella vita non conta. I giovani vengono oggi sistematicamente resi infelici perché continuamente vengono spinti a confrontarsi con altri, che hanno altre capacità rispetto a loro, altrimenti non diremmo che sono “gli altri”. E in America oggi c’è un presidente a cui è stato insegnato che il successo è tutto nella vita, anche se non si hanno capacità. 
 
Il cristianesimo è l’opposto della religione della salute e del culto della produttività e del successo che domina nel nostro tempo. Per i cristiani gli uomini decisivi non erano i forti, i sani, i produttivi, ma i poveri, i sofferenti, i malati, gli anziani e i deboli. Era qualcosa di completamente nuovo. Il cristianesimo ha inventato la compassione. I pagani nell’antichità non conoscevano la compassione. Chi era handicappato o malato non aveva il favore degli dei e per questo era meglio starne lontani, per non essere associati al loro destino. In molte culture ancora oggi gli handicappati vengono tenuti nascosti dalle loro famiglie per vergogna. Ma la disabilità può anche essere una risorsa.  35 anni fa ho fondato a Bonn un gruppo di giovani disabili e non disabili senza assistenza da parte di specialisti - il gruppo esiste ancora oggi – e ho sperimentato che molti dei miei amici che hanno una disabilità mentale hanno una grande umanità e sono più affettuosi dei “normali”. Anche la Comunità di Sant’Egidio ha questa esperienza e il mio gruppo li ha potuti incontrare più volte a Roma e visitare le loro bellissime iniziative. Bambini disabili, “improduttivi” possono essere la gioia di una famiglia e riempiono il loro ambiente di gioia, forse questo non è sempre vero, ma nella maggior parte dei casi si. Anche gli anziani, che sono usciti da tempo dal mondo del lavoro, possono arricchire con la loro sapienza di vita altre persone. Sanno più loro della vita che un qualunque giovane psicoterapeuta che ha ricevuto una buona formazione. E anche alcune persone malate di demenza diventano nella malattia molto più amabili di quanto non fossero stati da sani. 
Il dolore, che pure è presente in tutte queste condizioni di vita, non può essere negato o rimosso, ma questo dolore non è tutto, e comunque il dolore non è eliminabile dalla vita di ogni uomo. Jehuda Bacon, sopravvissuto ad Auschwitz e insieme al quale ho scritto un libro, mi ha insegnato che anche nel dolore si può trovare un senso. 
 
La frase più ripugnante, incosciente, degradante per l’uomo che io conosca è questa: “Non voglio un giorno trovarmi a dipendere dall’aiuto di altri”.  Suona così innocente, ma quando la si pronuncia si afferma di credere di non dipendere dall’aiuto di altri, mentre il vicino ammalato di demenza ha bisogno di aiuto, come la nipote disabile, come il figlio piccolo dell’amico, e lui non vuole essere come loro. E in realtà questa frase è una grande assurdità, perché ogni uomo dipende dall’aiuto di altri. Non potremmo incontrarci qui se non ci fossero state persone che hanno sistemato le sedie sulle quali ci siamo seduti, ecc. Ogni uomo dipende dall’aiuto degli altri, all’inizio e alla fine della sua vita in modo particolare e nel mezzo possiamo un po’ aiutare gli uomini che sono all’inizio o alla fine. Questo è il cuore dell’umanità. L’uomo è un animale sociale. 
 
Gregor Gysi, che è stato a lungo portavoce dei Verdi in Germania ha detto all’Accademia evangelica di Tutzing di essere ateo, ma di temere una società senza Dio, perché potrebbe venire a mancare la solidarietà, e il socialismo non sarebbe altro che un cristianesimo secolarizzato. Per questo non era strano che anche i rappresentanti del partito Linke (sinistra) abbiano votato al Parlamento contro la legge che avrebbe consentito il suicidio medicalmente assistito. Perché quando una società smette di assicurare ai suoi membri sofferenti compassione, assitenza e aiuto, ma li costringe a scegliere l’uscita per non essere più di peso a nessuno sarebbe estremamente cinico dare a ciò il nome di autodeterminazione. Diventerebbe gelida la società in cui non si facesse più di tutto per abolire il dolore, ma per abolire il sofferente. Se avessimo una norma che regolasse il suicidio assistito, per cui questa pratica fosse “offerta” come qualcosa di normale, questo avrebbe l’effetto di provocare una sorta di dovere morale dell’anziano, o disabile a scegliere il suicidio, per non essere più di peso all’altro. 
 
Il filosofo agnostico Jürgen Habermas, per fondare il concetto di dignità umana, il concetto fondamentale del nostro ordine sociale, ha detto che sono necessarie “traduzioni salvifiche” dei concetti giudeo-cristiani della somiglianza a Dio dell’essere umano. In effetti non c’è un motivo secolare sufficientemente forte per cui l’art. 1 della Legge fondamentale tedesca (costituzione), che recita “la dignità umana è intoccabile” sia immodificabile. Nemmeno il Parlamento ha il potere di modificarlo. Così anche l’autodeterminazione giunge al suo limite, quando il sé, che vuole disporre di sé stesso, decide di annientare sé stesso. La distruzione di sé stessi non è un atto di autodeterminazione. Per questo non possiamo concedere questa possibilità a nessuno e non possiamo accettare con indifferenza che una persona malata accanto a noi definisca la propria vita come indegna di essere vissuta.  La nostra Legge Fondamentale (costituzione) stabilisce che nessuna vita è indegna e nella comprensione cristiana Dio è il Signore della vita, non l’uomo. Per questo noi cristiani siamo anche contro la pena di morte, come molto giustamente Sant’Egidio sottolinea sempre.
 
Ma non possiamo nemmeno restare bloccati in questi dibattiti. Dobbiamo stare vicini spiritualmente all’anziano, al sofferente e al moribondo. Papa Francesco ce lo ricorda con insistenza. E proprio per questo il libro dell’arcivescovo Paglia è così importante, perché da una ricca esperienza pastorale con queste persone rende concreto il messaggio cristiano. La Comunità di Sant’Egidio ha posto fin dai suoi inizi al centro l’antica premura cristiana per le persone ai margini della società e non solamente quelli ai margini delle nostre città. Mentre la società della salute toglie valore ad anziani e disabili, la Comunità di Sant’Egidio li ha circondati con un amore tutto speciale. Se la società che esalta la produttività tratta i malati di demenza come un inutile peso, tanto che già la diagnosi di una incipiente demenza per mote persone è un orrore, a Sant’Egidio queste persone sono trattate con rispetto e dignità. E poi è assolutamente falso che una diagnosi di demenza sia in tutti i casi una catastrofe. Ci sono malati di demenza che riescono a godere della loro vita, tanto che la loro malattia è vissuta peggio dai familiari che dai malati stessi. Non si può parlare della demenza con concetti solo negativi. In un dibattito televisivo ho detto recentemente: sarei felice di diventare demente. Dimenticherei tutte le nefandezze e avrei persone gentili che si prendono cura di me. Però mi sono permesso di dirlo – confesso – solo dopo aver chiesto ai miei cari il permesso di dirlo, perché saranno loro poi a doversi prendere cura di me...
 
E anche per quanto riguarda la morte, non è sufficiente che noi cristiani bisticciamo e ci opponiamo in maniera astratta all’eutanasia e al suicidio medicalmente assistito, dobbiamo anche aiutare concretamente. Ero amico del fondatore del primo hospice, il dott. Türks di Aachen, e lui già all’inizio aveva fatto un’esperienza che riceve continue conferme da chi lavora in questo campo: le persone che inizialmente avevano chiesto di essere aiutate a morire, ma hanno invece ricevuto una vera dedizione, partecipazione e anche una buona terapia del dolore e cure palliative, nella sua esperienza hanno tutte, senza alcuna eccezione, visto tramutare il loro desiderio di morte in un desiderio di essere accompagnati con amore da qualcuno che li tenesse per mano, non qualcuno che usasse la sua mano per procurare loro la morte. 

 


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