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11 Septiembre 2017 09:30 | Bischoefliches Priesterseminar Borromaeum - Aula

Leopoldo Sandonà - Emergenza ambientale - #Pathsofpeace



Leopoldo Sandona'


Responsable del Programa del Festival Bíblico de Vicenza, Italia


Per un metodo dialogico
Münster, settembre 2017
Se comprendiamo le grandi questioni etiche attuali, dall’emergenza economico-sociale a quella ambientale fino alle questioni bioetiche, come profondamente e inestricabilmente unitarie, possiamo incamminarci verso la ricerca di un metodo dialogico, che prenda spunto da queste emergenze per introdurre cammini e tendenze di pace nella quotidianità di tutti e ciascuno, anche quando l’emergenza non sia così visibile e rilevante.
Per questo, dopo essermi soffermato due anni fa a Tirana sul tema specificamente ecologico aperto dalla Laudato si’ e dopo aver colto nell’appuntamento di Assisi l’occasione per un approfondimento degli insegnamenti dialogici di Evangelii gaudium, sia attraverso i celebri numeri sulle diverse forme di dialogo (nn. 238-258) sia attraverso le ormai celebri quattro polarità/regole del documento di Francesco, ritengo utile offrire sinteticamente una riflessione su una metodologia dialogica che emerge da tali emergenze nella loro unità e che si propone come possibile in ambito pratico, sia a livello etico come pastorale e civile. Prima di enucleare i punti di tale metodo sono però necessarie alcune premesse di fondo che determinano il contesto dell’agire dialogico.

1. La specificità dell’etica
Anzitutto è lo stesso ambito etico dunque a delineare alcuni caratteri del dialogo.
Laddove comprendiamo il dialogo come qualcosa che
è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo 1, la sua centralità propriamente originata nell’etica è qualcosa di illuminante. Non solo il dialogo avviene nell’etica, ma avviene dall’etica. In tutti questi riferimenti l’etica diviene luogo generativamente stilistico poiché luogo per eccellenza che è chiamato – per certi aspetti forzato – dal contenuto del suo intervento a sviluppare forme dialogiche. Il dirsi di tale verità è un darsi come giustizia praticata o impetrata, realizzata o, il più delle volte, attesa con uno sguardo rivolto non tanto all’origine quanto al compimento.
Di fronte alla situazione contestuale che chiede all’etica una risposta, essa può mettere in atto, nella matrice dialogica che vede protagonista un’etica teologica e filosofica, ed insieme che mette costantemente in relazione le etiche umanistiche alle riflessioni mediche, scientifiche, biologiche, economiche, una sana riconversione dei suoi elementi cardine nella prospettiva dialogica, non tanto come adattamento allo Zeitgeist quanto come fedeltà in divenire alla propria vocazione più profonda. Tali elementi possono essere descritti anzitutto come la circolarità ermeneutica tra portata universale dell’etica – che quindi pone le etiche teologiche in particolare dialogo con le etiche laiche – e la situazione singolare che si pone come caso; tale circolarità non va letta sotto il segno dell’alternatività ma come una costante rigenerazione reciproca che permette di superare gli opposti estremi e le opposte derive. In secondo luogo appare decisiva l’apertura all’altro, da prendere sul serio, e la centralità del dialogo non puramente come strumento; l’alterità assume anche in questo caso una pregnanza teologica perché non appare soltanto come una presenza incidentale all’interno del processo etico ma l’altro è generativo nella risposta e nella domanda, nel riconoscimento e nel rifiuto, comunque nell’interlocuzione con un sé che a sua volta non è statico e che come l’altro si relaziona ad una molteplicità di soggetti presenti nel dialogo stesso. Ancora l’etica dal dialogo riacquisisce un’attenzione specifica alla concretezza che emerge dal vissuto stesso dei singoli; tale prospettiva consente di superare dialogicamente lo iato tra prescrizioni e vissuto quotidiano degli stessi cristiani e si dà nell’apertura all’elaborazione di nuovi concetti che non vanno letti come rivoluzionari ma come uno sviluppo per molti versi necessario della stessa dimensione dialogale. All’interno di questo itinerario un recupero dialogico della dimensione etica implica una conversione permanente. Lungi dall’essere ambito di scandalo e ambito di arretramento della verità cristiana, l’ambito etico morale diviene la frontiera da abitare al massimo grado nella situazione di transizione e di travaglio – strutturale? – delle società specie avanzate.
Dentro la logica dell’asimmetria che descrive la reciprocità trinitaria emerge anche la prospettiva asimmetrica dell’etica “umana” rispetto alla grazia “divina”, nell’incontro etico-teologico da un lato della prospettiva antropologico-filosofica di una reciprocità nominabile, di contro ad un dono di grazia che fa vedere i suoi frutti anche in ambito etico ma che in certo senso non si può nominare. Nello spazio aperto da questa asimmetria si colloca la dimensione teologico-etica dialogale, nell’impossibilità di non dire e di non rispondere a questo appello ma insieme nella consapevolezza che l’appello trascende infinitamente la risposta che l’uomo può dare. In questo infinito l’uomo permane ed insieme nelle risposte etiche che gli uomini si scambiano l’uno con l’altro risiede la possibilità di camminare verso l’unico Dio che si è fatto presente per grazia.
Un quinto elemento assai pregnante è la configurazione di apertura al futuro che l’etica rivela nel suo assetto dialogico; se l’etica che non è rigenerata dal dialogo rischia di guardare all’oggetto in questione a partire da una strutturazione tradizionale e quindi rivolgendosi soprattutto al passato, l’etica dialogica, che accoglie in sé anche i contributi delle scienze e delle scienze umane, riesce a far emergere le conseguenze delle azioni a livello cronologico e spaziale, andando oltre il qui e ora e aprendo così una discussione sul futuro proprio a partire da un fedele ascolto di ciò che la memoria etica ci insegna.
Infine a partire dalla dinamica asimmetrica della rivelazione di grazia che si dà anche nel dialogo, è possibile ricostruire un accesso al religioso stesso a partire dall’etico, quasi a parafrasare il dettato lévinasiano dell’etica come filosofia prima ma traducendo nello specifico teologico la prospettiva di un’etica come teologia prima; così al contrario ma in maniera solidale emerge il tentativo di una descrizione trinitaria della teologia morale a partire dalla ripresa dell’analogia psicologica superando la prospettiva di una divisione del lavoro teologico, il quale non contaminando i diversi settori li impoverisce in maniera radicale. L’etico dunque non si dà come un momento “applicativo” di dottrine lontane, né come una disciplina irreversibilmente in crisi e lontana dalle prospettive di vita dei singoli uomini/cristiani, ma rappresenta un momento propizio per abitare la frontiera del pluralismo, sempre più marcato proprio nelle scelte etiche degli uomini e delle donne dell’età post-secolare. Il reale si dà nella sua disposizione etica rivelando nel dialogo degli umani il Dialogo della generazione del Figlio dal Padre nello Spirito. Dunque nessun utilizzo strumentale dell’etico, ma affezione al reale come solidarietà e fedeltà profonda all’origine, insondabile per certi versi ma altrettanto inoltrepassabile, non riducibile alla logica quantitativo-strumentale-analitica ma sperimentabile nelle pratiche delle vite come nell’affezione sinestetica.
Il dialogo, entro il rinnovamento dell’etica, sia filosofica che teologica, si situa come il cuore della stessa frontiera, perché è nel dialogo che si sviluppa l’argomentazione ed insieme le diverse argomentazioni si confrontano alla ricerca di una soluzione, condividendo quanto c’è di comune, lasciando sul terreno i nodi irrisolti e argomentando anche in vista di una futura ripetizione di casi simili. Dunque se la dimensione dell’etica ridiventa centrale a partire dalla sua collocazione nella frontiera dell’epoca post-secolare, il dialogo acquisisce un ruolo del tutto decisivo all’interno di questa rinnovata centralità.

2. Le novità nel dialogo
Se il dialogo spesso è concepito come rimedio ai problemi del presente, si può scorgere altresì nello stesso dialogo un momento generativo e di rinnovamento, secondo una feconda lettura dei signa temporum. I cambiamenti epocali e le novità inattese generano senz’altro diffidenza e preoccupazione, ma è altrettanto vero che il mondo contemporaneo rivela momenti generativi nelle crisi, così come il saper ritornare creativi di fronte alla necessità che si impone all’esterno. Dialogando le novità si possono incontrare, conoscere, ed insieme il dialogo può mostrarsi come generatore di novità e costruttore di sentieri nuovi, principiando da un dialogo di amicizia e di vita per giungere attraverso le opere ad un dialogo delle idee e dei sistemi. Assumere l’atteggiamento dialogico significa non solo rispondere alle esigenze epocali ma permette di maturare una dinamica dell’integrazione che prepara a rispondere alle sempre nuove esigenze e alle sempre nuove domande che emergono da un contesto in continua evoluzione.
D’altro canto il darsi dialogico di un atteggiamento di apertura consente anche di riflettere sulla dinamica di incarnazione che rivela il dialogo intra-divino. Tale dinamica è infatti una dinamica di svelamento di un significato radicalmente nuovo, non semplicemente come apparizione dell’atteso, ma anche come modalità relazionale e dialogica di manifestazione di tale avvento. Sul lato dell’uomo, che riceve questa rivelazione, l’attenzione alla novità non può che comportare curiosità e meraviglia, di fronte all’accadere e al giungere di novità, così come la pazienza per una lenta maturazione di ciò che sta sbocciando, come anche uno sguardo costantemente aperto e un atteggiamento di apertura rispetto al futuro.

3. La scelta del dialogo
Un secondo elemento di sfondo che fa sentire la sua decisiva importanza è senza dubbio il riferimento alla scelta del dialogo. Proprio perché il dialogo non è semplicemente un’opzione di rimedio, esso non può crescere come se fosse una necessità subita dal contesto, ma va assunto come scelta strategica e per certi versi irreversibile. In questo senso il dialogo non si configura praticamente come un momento di tolleranza, ma al contrario come un momento in cui si manifesta al massimo grado la fedeltà alla propria tradizione.
Scegliere il dialogo significa così praticamente collocare i cammini personali e comunitari dentro una strategia dialogica ben precisa, in cui è impossibile ricadere fuori dal dialogo stesso essendo tutti rivolti all’unità che trascende i singoli2. Qui emerge, rispetto alla prospettiva trinitaria, il nodo della reciprocità in rapporto al far spazio all’altro. Se per un verso appare decisiva la connessione con il perdono, che implica un percorso lungo e paziente di conversione, d’altro canto la reciprocità dialogica implica l’assenza di ingenuità e la costanza del porsi in ascolto della realtà e dell’altro. Come sarebbe possibile infatti un dialogo in cui il singolo dona riconoscimento senza riceverlo? Non rischierebbe così di dialogare in forma oblativa, rischiando di sottomettersi sottilmente all’altro che apparentemente dialoga ma lo fa strategicamente per “guadagnare terreno”? Nella scelta di dialogare emerge una componente esplicita di rinuncia e di esodo dalle proprie posizioni, in un partire che non è ancora chiaro dove possa farci giungere, senza escludere il fallimento e il tradimento, l’eterogenesi delle proprie intenzioni e l’amarezza dell’abbandono.
A partire dalla reciprocità realizzata nel dialogo è così possibile pragmaticamente sperimentare sentieri di unità e comunione in una forma che potremmo definire di apprendimento reciproco. In questo senso – quasi richiamando gli equivoci e le dimensioni inattese che rivela il dialogo tra Gesù e la donna Samaritana – anche quando l’altro non sa di rivelarmi implicitamente qualcosa di decisivo per il mio essere cristiano, nel dialogo con lui posso avanzare nella mia fede e approfondire nella ricerca della V/verità. Non solo, tale apprendimento reciproco – quindi apprendimento in cui il riconoscimento non è unilaterale – indica una strada per crescere nella conoscenza dell’alterità, integrando sempre in modo nuovo il mio stare al mondo con quello dell’alterità.

4. La verità nel dialogo
In questa direzione si comprende bene come andare verso il dialogo e sceglierlo nella reciprocità non significa assolutamente indebolire i propri cammini veritativi, pur facendo posto all’altro in un movimento kenotico, ma anzi evitare di fare del dialogo un cortese e cordiale dialogo di distanze. La prossimità nel dialogo è possibile proprio perché chi entra nel contesto del dialogo non rinuncia a compiere un cammino verso la verità, né la afferma in modo violento e integralista, ma la annuncia e la offre alla dialogica delle relazioni nella sua forma integrale, accogliente e reciprocante. Così il riflesso trinitario nel contesto pratico del dialogo si dà nella forza generativa delle reciprocità reciprocante. Proprio perché avviene un riconoscimento reciproco, questo è generativo e diffusivo e quindi la verità professata, in cammino verso la verità dell’eschaton in cui verrà contemplata «faccia a faccia» (1Cor 13,12), entra in contrapposizione con una verità che “cresce” nel dialogo, “si allarga”, “si approfondisce”. Come l’alterità in divinis non diminuisce la peculiarità di ogni persona, così la verità affermata relazionalmente e non in maniera subordinazionista non diminuisce la sua portata ma la allarga, la approfondisce e la invera, nel gioco delle posizioni e delle prospettive che non si negano dialetticamente ma che concorrono a costruire cammini di verità i quali a loro volta sono proslogici perché rivolti non tanto ad una persona specifica ma al compimento, insieme personale, comunitario e cosmologico dell’escatologia. L’essere rivolti ad una dinamica che ci trascende permette così di non alienarsi dal contesto concreto dell’esistenza dialogicamente vissuta quanto anzi permette di calarsi in essa in modo ancora più profondo ed irreversibile.
La verità donata nel dialogo non diviene solo generativa nel dialogo e oltre il dialogo stesso, ma permette allo stesso soggetto del dialogo, personale e comunitario, di approfondire sempre di più la verità in cui è vissuto e cresciuto. Nel mondo attuale, così complesso e frammentario, il rischio del dialogo diviene tutt’uno con il rischio della verità, proprio perché una verità isolata, non relazionale, separata, assume i caratteri del talento nascosto sotto terra invece che messo a frutto. La verità, dunque, nella prossimità e nella concretezza di un dialogo autentico, assume un contributo specifico per il dialogo stesso ma viene anche rafforzata nel dialogo.

5. Verso un metodo dialogico
La decifrazione di un metodo è pensata come in cammino, non dunque con la consapevolezza di un metodo in se stesso chiuso e definito, ma come una strada che rimane aperta ad indicazioni e a integrazioni3.

5.1. Gli atteggiamenti del dialogo
Prima dell’ultimo passaggio dedicato alla specificazione dei momenti dialogici non è fuori luogo però ricordare alcuni atteggiamenti del dialogo, che si potrebbero definire anche sensi del dialogo, perché aiutano a vivere il dialogo in tutte le dimensioni e aiutano insieme ad aprire direzioni dialogiche. I sensi del dialogo sono dunque le sfumature che salvano dall’operatività pragmatica, che immergono i partecipanti in un’esperienza integrale, ma che indicano anche il cammino e sono premesse per ulteriori dialoghi. Basti pensare all’ascolto, che implica fare spazio all’altro anche nella sua differenza, ma porta con sé anche la disponibilità del tempo, in cui un vero ascolto diviene dialogo senza tempo e senza limiti, senza essere per questo indefinito. Ancora il dialogo richiede decentramento, uscire dalle proprie sicurezze e operare un esodo autentico, mettere l’altro davvero al primo posto ed in questo senso, mettendolo al primo posto, farsi da parte non per sparire ma comprendere fino in fondo l’altro. Su questa linea si colloca l’elemento della simpatia/empatia, come stare accanto all’altro che è anche – forse più raramente – rivivere empaticamente quanto l’altro ha vissuto o sta vivendo; essere empatici non significa semplicemente giocare la carta del sentimento per superare un’ipotesi razionalistica, ma comprendersi nel dialogo integralmente e fino in fondo. In tale direzione il dialogo non può essere solo un dialogo limitato ad una prospettiva sensoriale, ma esso è fatto di parole, di visioni, di ascolto, ma anche di abbracci e di profumi-sapori, con cui entrare, specie sul piano interculturale ed interreligioso, nei mondi dell’alterità. Da quanto viene delineandosi relativamente agli atteggiamenti del dialogo possiamo capire come non solo essi richiedano un vero e autentico spazio per l’altro e un tempo per aprire processi ma anche come tali atteggiamenti, pur non essendo tutti presenti in ogni forma dialogica, si richiamino vicendevolmente e richiedano un costante sforzo di “ascesi” dialogica. Un atteggiamento che possiamo connettere all’apertura ai mondi dell’altro è anche l’atteggiamento “ecumenico” o glocale con cui il dialogo dev’essere approcciato; tale atteggiamento sottolinea la prospettiva di un’umanità che mai come oggi è una e unica, in cui la contrapposizione noi/loro, da sempre presente nelle civiltà, non ha più ragione d’essere, anzi rischia di essere deleteria relativamente alla costruzione necessaria di prospettive di vita per tutti nella caso comune di tutti. Questa dinamica apre ad un altro atteggiamento, che è quello della curiosità/meraviglia per quanto di nuovo attende nel dialogo: questo infatti non è uno strumento per risolvere questioni, ma è un cammino in grado di provocare esperienze inaspettate, scoperte inedite, paesaggi ogni volta da contemplare in modalità differenti e capace di aprire ulteriormente nuovi cammini. Lo scenario che abbraccia questi atteggiamenti – e che può prendere le forme di un atteggiamento comune – è quello del racconto, della narrazione in cui ci troviamo attori e partecipanti in una storia che ci precede e supera, contenendoci. Infine l’ultimo atteggiamento che ha caratteri di orizzonte è quello dell’ospitalità, intesa sia come accoglienza che come disponibilità a farsi accogliere: nella relazione all’altro e agli altri – ricordando una dialogica che raramente è di tipo duale e che più spesso è comunitaria o comunque di gruppo – non è solo difficile accogliere, sovvertendo le proprie priorità, i propri tempi e le proprie comprensioni del mondo, ma è anche difficile farsi accogliere, accettare che qualcuno voglia entrare in dialogo con noi e quindi rendersi disponibili, al di là delle necessità, a fare un cammino di strada assieme.

5.2. Per un metodo dialogico
Se dunque la criteriologia diaconico-diacronica della dialogica si associa alle dimensioni di fondo del dialogo stesso, possiamo trarre da tali criteri la possibilità per chinarci sullo specifico del metodo dialogico nei suoi momenti, compresi come momenti poliedrici a seconda degli ambiti del dialogo – vita, opere, meditazione, teologia – e a seconda delle prospettive – ecumenico-interreligiosa, pastorale, etico-morale per restare alle prospettive qui indagate –, senza dimenticare le sfumature del dialogo che sono create e disegnate dagli atteggiamenti dialogici4.
Il metodo dialogico nei suoi momenti può essere distinto anzitutto a seconda degli ambiti. Il dialogo può darsi come vita, come opere, come meditazione/preghiera/liturgia, come teologia/cultura. Se spesso il dialogo è stato compreso solamente in prospettiva intellettualistica, va colta tutta la gamma e tutto lo spettro delle possibili esperienze dialogiche, proprio a partire dalle dimensioni, dai criteri e dagli atteggiamenti dialogici ricordati. Tra questi ambiti è utile ricordare la differente possibile genesi dialogica, perché l’ambito della vita come quello della teologia/cultura vive un accesso dialogico anzitutto da fatti critici o problematiche che implicano una soluzione o comunque un tentativo di risoluzione; se è avvenuto uno scontro o un episodio divisivo, il dialogo della vita può portare due gruppi, comunità, soggetti a riprendere un cammino anzitutto a partire dall’esperienza di vita, in forme di condivisione e di ricostruzione amicale. Così sul piano teologico/culturale il dialogo principia da un divisione, sia di carattere confessionale o religioso, sia di carattere intellettuale/culturale, come avviene spesso nell’arena della vita pubblica per questioni di carattere politico, economico e sociale. Dall’altro lato i dialoghi delle opere e i dialoghi che portano a pregare/meditare assieme sono dialoghi che principiano già da un avvio di dialogo: se due comunità tornano a parlarsi e a condividere uno spazio di amicizia, potranno iniziare a progettare opere e attività in comune in modo da far crescere questa ripresa di amicizia. Così la prospettiva delicata di una situazione meditativa o di preghiera – nello specifico di dialoghi ecumenici o interreligiosi – è attuabile solo a partire da una precedente ripresa delle relazioni su più livelli. Se è vero che spesso le questioni teologiche/culturali sono state le prime su cui ci si è confrontati dopo le divisioni, tuttavia ci si potrebbe interrogare se anche in questo caso non sarebbe stato meglio, o non sarebbe meglio, principiare da un recupero di un’esperienza di vita in comune per poi giungere ad interrogarsi sulle grandi questioni teologiche e sulle prospettive di carattere culturale.
Dunque l’incipit di una metodologia dialogica è differente a seconda dei diversi approcci. Ma in che cosa può consistere un metodo dialogico? Si è cercato di riassumere gli elementi specifici del dialogo, come momenti oltre i quali non è possibile risalire e che, semmai, possono essere ulteriormente esplicati allargando la scansione dei momenti. Inoltre appare fondamentale connettere esplicitamente questi momenti precipui, che rappresentano una sorta di implicazione delle premesse, almeno con le dimensioni e con i criteri ricordati, mentre per gli atteggiamenti essi possono essere considerati come un lievito che sta dentro tali passaggi.
Un primo momento è dato dal riconoscimento/individuazione del problema-prospettiva-possibilità-questione. Nel caso di un dialogo che fa ripartire un’esperienza di vita in comune o di amicizia tale dialogo principia da una questione o problema concreto, così come nel caso di un dialogo teologico/culturale sovente nella storia esso è sorto da un nodo teorico o da una questione di divisione ecclesiale. Nel caso invece di un dialogo di opere e progetti, nascendo già da un dialogo riavviato o riguardando gruppi e comunità, tale dialogo principia da una prospettiva concreta che si apre e che può consentire di realizzare un determinato progetto. Così nel caso più specifico della meditazione/preghiera la possibilità che esse si realizzino deriva da una condivisione di vita, e talora di opere, già avviata.
Un secondo momento è dato dall’approfondimento della situazione. Se a livello teologico/culturale questo è il momento dell’argomentazione – si pensi all’argomentazione di tipo etico di fronte ad un caso clinico – nella vita che si fa amicizia è il momento in cui stare assieme, confrontarsi, esprimersi, portando in campo le perplessità, gli elementi di unità e le differenze. Così può avvenire positivamente nel confronto che si apre attorno ad un progetto e a opere che si possono realizzare con il consenso/sostegno di tutti. Rispetto al campo specifico della meditazione/liturgia il confronto appare fondamentale, e delicato, per “preparare” un momento che non escluda nessuno ma nemmeno che crei difficoltà inattese e, per lo più, non volute. Il caso della preghiera o meditazione tra le diverse confessioni cristiane o tra le diverse religioni appare paradigmatico – anche se estremo – perché fa capire la delicatezza del compito nel confronto che si apre in un possibile dialogo. Inoltre va sottolineato come questo secondo momento, che è quello maggiormente “sinodale”, acquisisca sempre più centralità all’interno non solo del mondo ecclesiale ma anche di quello civile, all’interno di processi in cui il decisore è comunitario e in cui la risoluzione di un caso/dilemma non può passare dalla decisione di una sola persona, sebbene spesso l’agone politico voglia personalizzare eccessivamente anche la fase decisionale. Basti pensare ai tanti gruppi decisionali che ormai sono presenti in ambito civile, dall’equipe curante ad un’assemblea di tipo economico, dalla camera di consiglio giudicante alla commissione per un concorso lavorativo. Dunque argomentare e confrontarsi non è momento opzionale per il dialogo ma essenziale. In fondo tale comunitarietà della scelta non fa altro che rimettere in primo piano, secondo una relazione con la tradizione, la scelta che il singolo si trova a fare a partire da tante possibili voci che segue nella propria interiorità, intesa sia in senso coscienziale/intellettuale che in senso spirituale. La prospettiva psicologica dell’interiorità si lega così inscindibilmente alla prospettiva del dialogo comunitario.
Il terzo momento è quello della scelta (argomentata), che sul piano della vita può voler dire fare un’esperienza comune, condividendo un momento della propria esistenza, nella forma del pasto, dello svago, del gioco. Dal punto di vista delle azioni dialogiche questo terzo momento è quello della realizzazione, duale o comunitaria, di un progetto o di un’opera, mentre sul piano della preghiera-meditazione assistiamo qui allo svolgimento, che può essere anche silenzioso, di un momento comune. Infine sul piano teologico/culturale il terzo momento dialogico è dato dalla decisione – per esempio rispetto ad una casistica etico-bioetica – o scelta comune, come nel caso di relazioni di tipo ecumenico-interreligioso, con la stesura di documenti/pareri. Individuata la questione e approfondita, si giunge dunque ad una decisione che può essere una soluzione o semplicemente la messa in atto di un momento comune in cui lo stare con l’altro/gli altri, anche senza un’ulteriore tematizzazione della questione, indica già una direzione dialogica ben precisa.
Infine il quarto momento è caratterizzato da prospettive-linee guida per il futuro. Avendo vissuto una questione ed avendola analizzata i partecipanti al dialogo possono approcciarsi diversamente al futuro. Nel caso di una problematica teologico/culturale l’approccio è proattivo o analitico di altri casi/questioni che possono essere risolte. Se ci troviamo di fronte ad un dialogo fallito in questa situazione è utile ritornare su quanto non ha funzionato e su come il dialogo può essere diversamente impostato nel futuro. Per quanto concerne una situazione di dialogo esistenziale l’insegnamento è già presente nello stesso dialogo, riuscito o meno, perché questo consente di evidenziare la prospettiva di una non ripetizione futura di quanto è stato fallito arrivando alla problematica conflittuale. Sul piano delle opere e delle azioni il dialogo riuscito, che già iniziava da una nuova condivisione di vita, può dare lo spunto ancora più forte per strutturare queste opere e renderle progetti costanti di crescita comune. Il dialogo dunque come istanza operativa diviene diffusivo, fruttuoso e fecondo e può consentire di creare reti a loro volta generative. Infine la dimensione della preghiera/meditazione che si lega strettamente ad un dialogo teologico approfondito ha due possibili configurazioni. Per un verso il dialogo ecumenico avendo affrontato delle questioni divisive può ritornare sui propri passi nella consapevolezza che il tempo di maturazione di alcuni processi non è ancora terminato, oppure, in caso positivo, può progettare altri momenti di approfondimento che aiutino a superare la ferita della divisione passata. Non solo, ma l’aver sperimentato un momento di confronto approfondito può generare altri dialoghi, di tipo esistenziale o progettuale, di tipo teologico o culturale. Come già ricordato il dialogo ecumenico nasce da ben precise ferite di tipo storico, che chiedono un’urgenza, sul piano della testimonianza teologale dei cristiani nel mondo, affinché tali divisioni possano essere superate. Per altro verso nel caso del dialogo interreligioso l’urgenza è diversa e vanno messi in atto tutti i momenti esistenziali, progettuali, meditativi e culturali per una mutua integrazione che, senza ricadere in forme di sincretismo o di relativismo, consenta di operare sempre nuovi passi in avanti.

5.3. Il paradosso dialogico cristiano
Le diverse esperienze di chiesa, nello squadernarsi del dialogo ecclesiale in sé e fuori di sé, verso le altre religioni o nel dialogo ecumenico, ha quindi fatto emergere non solo un percorso verso una metodologia dialogica necessaria e urgente a partire dalle grandi emergenze epocali, ma il costante riferimento ad una paradossalità del dialogo, che apre più che chiudere, inquieta più che rassicurare, consentendo tuttavia di camminare verso un’unità donata e non programmata, senza dimenticare l’aspetto drammatico del dialogo, che sperimenta l’abbandono e la lacerazione, come anche il suo carattere di apertura al futuro. Non poter governare sempre e comunque il dialogo può spaventare, ma in realtà ci proietta nei sentieri della complessità riconosciuta e abitata.

NOTE

 1 FRANCESCO, esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 142 (609). È interessante come questa magistrale definizione di dialogo, che porta dentro di sé i riflessi di un’interpretazione trinitaria del dialogo stesso, sia operata in riferimento alla liturgia ed in particolare in relazione all’omelia. 

2 In tale direzione va T.-M. COURAU, Verso l’unità: corrispondere all’appello della verità, «Concilium» 53 (1/2017), 143-149, nel disegnare un’apertura insita nella dialogica che va oltre i dialoganti. 

3 Per un’esemplificazione di metodo dialogico che si apre ad un decalogo dialogico si veda B. SALVARANI, Un tempo per tacere e un tempo per parlare, Città Nuova, Roma 2016, 253-255: «1. Il dialogo si fa tra persone […]. 2. Il dialogo si fa a partire dalle cose concrete […]. 3. Il dialogo si fa a partire dalle nostre identità […]. 4. Il dialogo si fa a partire dalle cose che abbiamo in comune […]. 5. Il dialogo si fa senza nascondere le cose che ci rendono diversi […]. 6. Il dialogo si fa, in primo luogo, a partire da qualcuno che racconta […]. 7. Il dialogo, però, è fatto anche da qualcuno che ascolta […]. 8. Il dialogo non è fatto solo di parole… […]. 9. Il dialogo come un fenomeno glocale […]. 10. Il dialogo è qualcosa che, mentre lo facciamo, ci arricchisce a vicenda e ci lascia migliori di come eravamo prima […]». 

4 Un’interessante proposta dialogica, ispirata alla tradizione domenicana, si ha in B. CADORÉ, Il dialogo come speranza della verità, «Concilium» 53 (1/2017), 131-142, che definisce gli elementi del dialogo come partire, incontrare, studiare, dimorare. 



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