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11 Septembre 2017 09:30 | Bischoefliches Priesterseminar Borromaeum, Kardinal-von-Galen-Saal

Intervento di Mario Giro



Mario Giro


State Under-Secretary to the Ministry of Foreign Affairs, Italy
Nichilismo: un'onda anomala che nessuno ha visto arrivare  
 
Davanti al dramma del terrorismo contemporaneo sorge spontanea la domanda su chi ne sia responsabile. E’ colpa dell’islam, intrinsecamente violento? Sono i nostri errori europei nel fare integrazione? Oppure nell’accettare troppa immigrazione? E’ la conseguenza delle ripetute guerre fatte in Medio Oriente? Della questione palestinese mai risolta? Del colonialismo? Sono le ingiustizie e le disparità tra le due sponde del Mediterraneo? I regimi autoritari e chi li sostiene? Le primavere arabe, divenute inverni? La guerra tra sciiti e sunniti? E’ colpa degli americani perché troppo presenti o troppo… assenti? Dei Fratelli musulmani o dei salafiti? Dello scontro di civiltà? Della fine della storia? Dei giovani e delle loro fragilità...? ormai le biblioteche sono piene di tale dibattito senza fine. 
 
Per capire dobbiamo abbandonare per un momento le spiegazioni e le tesi e guardare in faccia questi ragazzi e queste ragazze: tante storie di giovani di origine musulmana e non, nati o cresciuti in Europa, transitati per le sue anonime periferie, un cattivo rapporto con la scuola e famiglie fragili, spesso senza il padre, svuotati e alienati, alle prese con la polizia e il carcere, pronti per l’incontro con i reclutatori del jihadismo. Sono i figli di un’integrazione fallita, del disagio divenuto violenza. A loro si aggiungono altri che non hanno avuto problemi sociali ma condividono la stesso vuoto e la rabbia per la società. Entrambi i gruppi sono l’obiettivo di reclutatori senza scrupoli. 
 
In realtà li conosciamo: hanno frequentato le nostre scuole, le nostre piazze. Sono tra di noi ma covano in sé una ribellione e hanno stretto un patto di sangue verso un destino già scritto di assassinio, terrore e morte. Pongono una domanda alla società europea e alle società arabe. All’apparenza paiono giovani come altri, che cercano di emergere dall’anonimato, innamorati del rap, della musica, dello sport. Ma la loro fragilità interiore li ha resi prede consenzienti di un mondo parallelo e oscuro, che nel corso degli anni si è silenziosamente formato a casa nostra, nelle periferie delle nostre città. 
 
Travolti da una rabbia fredda e da un’ideologia indotta, hanno creduto nella “redenzione”, nella “guerra santa” che tutto avrebbe cambiato, nel jihad contro “corrotti e oppressori”, scambiando la loro funesta battaglia per quella di altri, in un miscuglio di mistificazioni, collera e nichilismo. Hanno abbracciato conflitti altrui come propri, si sono identificati con una versione astratta della religione, buona per tutte le stagioni, hanno pensato di trovare un’identità che li ripagasse da una vita frustrata e percepita senza sbocchi, un gesto finale che riempisse il vuoto, cancellasse i sensi di colpa e i fallimenti. 
Tra le storie di chi ha vissuto questa caduta verso l’inferno negli anni Ottanta, poi negli anni Novanta fino a giungere al nuovo millennio, c’è un’agghiacciante similitudine. Cambiano solo la rapidità della radicalizzazione e i mezzi tecnologici che prendono il posto di quelli umani. 
Le radici di questa tragedia sono state piantate decenni fa, dando luogo alla miriade di gruppi, cellule, nuclei e katibe del tessuto radicale e terroristico che si è progressivamente esteso inquinando moschee, centri culturali, famiglie. Il contatto è avvenuto tramite viaggi iniziatici, relazioni, incontri in carcere. Molte le moschee e sale di preghiera in cui si è reclutato. Anche se sono pochissimi, possono fare tanto male: è questo il loro obiettivo, vendicarsi con rancore di una società che non ha dato loro ciò che si aspettavano e che ora odiano. 
Nel tempo cambiano i metodi ma l’essenziale del problema è già presente fin dagli anni Ottanta. In Europa le nuove generazioni di origine musulmana non hanno accettato silenziosamente la posizione dei propri genitori giunti in Europa come immigrati e rimasti sostanzialmente estranei alla società europea, legati alla tradizione. Al contrario le seconde generazioni si sono buttate a cercarsi un posto e un ruolo, con il diritto di pretendere ed ottenere, com’era logico aspettarsi. Al pari dei loro coetanei autoctoni, i giovani di seconda e terza generazione immigrata sono stati afferrati dalle medesime aspirazioni e sogni ma anche dagli stessi incubi. 
Malgrado possibili handicap di partenza, per la stragrande maggioranza di tali “nuovi europei”, l’impresa ha funzionato: oggi in Europa vivono milioni di cittadini di origine islamica del tutto integrati nelle nostre società. Per altri, pochi in realtà, la corsa all’integrazione - non sempre sostenuta dall’attenzione del welfare e della politica - è fallita. Le cause sono molteplici. Ciò che importa è che tale insuccesso non abbia dato luogo solo ai più tipici fenomeni di antagonismo, violenza, criminalità, hooliganismo o droga a cui siamo abituati. Si è anche aperto uno spazio di proselitismo per i fautori della causa terroristica, facendo leva sulla particolare condizione psicologica di tali giovani. Cosa di meglio di adolescenti delusi e arrabbiati a cui ricordare radici religiose posticce, puntando su una forma distorta di solidarietà e sui sensi di colpa? E' avvenuto ciò che Olivier Roy chiama l'islamizzazione della protesta, dell'antagonismo: il rancore sociale e il malessere esistenziale si sono tinti di islam come forma di protesta che diviene violenza. Un islam addomesticato: nuovo prodotto religioso, base ideologica data al nichilismo ma con metodi contemporanei. Una specie di smartphone o app dell’islam, una religione portatile, semplificata e possibilmente sempre aggiornata. 
 
A tali giovani è stata fatta una proposta elementare: scegliere il bene contro il male. Così la religione diviene ideologia del terrore, trasformandosi in riferimento totalizzante per identità deboli. In un video di propaganda dello “stato islamico” si dice che “l’unico rimedio alla depressione è il jihad”: parole che non si applicano all’esperienza religiosa ma a quella psichica. La prescrizione di temi teologici come riposta alla frustrazione personale di ragazzi in crisi, è uno dei successi della propaganda di Dae’sh, che spesso utilizza ragazzi e ragazze fragili.... conosce la loro (la nostra) psicologia e sa manipolarla. Lo “stato islamico” si presenta come il governo ideale della religione contro l’apostasia, ma soprattutto come il regno della solidarietà in un mondo corrotto, dell'amicizia contro la solitudine, della giustizia contro la diseguaglianza, dell’apocalisse catartica contro la corruzione mondana. 
Il disagio che questi ragazzi sentono dentro di sé viene spiegato come effetto di una “malattia” di origine occidentale (anche se vivono in un paese arabo), che ha coinvolto le comunità islamiche, incluse quelle dell’immigrazione. Occorre – si dice - una lotta (jihad) per la “purificazione di sé”, per cambiare la propria vita in maniera radicale. Ma anche per redimere la propria vita fallita con un gesto eroico finale. Le logiche di mobilitazione jihadiste sono quindi tutte interne ad una società data e non hanno quasi nulla a che vedere con (utilizzo ancora le parole di Olivier Roy) “la falsa essenzializzazione del mondo musulmano” (cioè l’islam come religione della violenza, come essenzialmente violento in sé). Prova ne sia il gran numero di convertiti o “ri-convertiti born-again” (re islamizzati) nelle fila jihadiste: non provengono dal cuore delle società arabo-musulmane ma dalla sua periferia, dai margini o, addirittura, dall’esterno come nel caso dei neofiti occidentali. Si tratta di periferici a cui brucia questo loro essere periferia e a cui si propone di combattere per un nuovo ipotetico “centro”: la terra del califfo. 
Ai giovani in cerca di identità, i divulgatori ne propongono una semplice: schierarsi aderendo alla comunità dei “puri”, facendo riferimento ad un’epoca mitica, quella “dell’inizio” nella terra d’origine dell'islam. E’ una forma distorta di ritorno alle fonti. Viene così data risposta al malessere ma anche si pongono le basi di una scelta - sempre individuale - per la “guerra santa”, assimilata ad una lotta per la giustizia, senza compromessi, semplice da comprendere, che comporta sacrificio di sé. Dalla purificazione personale alla pulizia etnica il passo è breve. 
Tutto ciò non è così diverso da quello che il signore della guerra liberiano Charles Taylor predicava ai giovani emarginati dei campi illegali di diamanti in Liberia...mostrando loro il film Rambo first blood e dicendo: “gli adulti vi hanno abbandonato, vi hanno relegato qui: torniamo in città ad occupare ciò che è nostro, come fa Rambo”. La cosa da sottolineare è che il fenomeno della radicalizzazione violenta non è solo legato al mondo musulmano. Non soltanto in Europa e Medio Oriente le giovani generazioni delle periferie delle grandi città ricevono profferte di identità perversa o violenta. Il danno si verifica ad ogni latitudine. In America Latina avviene come affiliazione ai narcotrafficanti e alle maras, le gang giovanili di strada divenute vere e proprie società segrete con loro riti e loro forme religiose, come il culto di “Santa Muerte” in Messico, una risposta alla marginalità vera o presunta. Ad ascoltare le storie dei giovani mareros, pronti ad uccidere e morire per il gruppo, non ci si allontana poi molto dalle distorsioni morali dei nuovi jihadisti. Tornano i temi nichilisti e la mancanza assoluta del valore della vita, propria e degli altri. Tornano anche la crudeltà e l’orrore nel dare la morte. Allo stesso modo si possono analizzare i giovani arruolati dai “signori della guerra” in Africa. 
Dobbiamo quindi prestare maggiore attenzione alle “periferie urbane e umane”, per dirla come papa Francesco, laddove nell'abbandono possono nascere mostruosità. C’è un’intera generazione che si sente «scarto» e accetta di sottomettersi ad appartenenze malvagie. Gli esperti parlano addirittura di “youth bulge”, di bubbone giovanile: laddove ci sono troppi giovani, famiglie deboli e alcune condizioni sociali, essi diventano un pericolo. 
 
Nondimeno rimane il fatto che il terrorismo islamico contemporaneo rappresenti una sfida a sé stante, molto pericolosa innanzi tutto per le società musulmane. Perché l’islam? Come scrive Olivier Roy «Il Jihad è l'unica causa radicale presente sul mercato. Lo stesso accade a non pochi occidentali che si convertono: innanzi tutto sono in rivolta contro la società, nichilisti e radicalmente antagonisti. Non si fidano più, non credono in niente, sono complottisti... Esprimono questa ribellione abbracciando le idee jihadiste, quelle che garantiscono oggi il maggior grado di rifiuto del sistema. …dopo l’Isis resterà il problema della radicalizzazione dei giovani… alla base c’è il nichilismo, una repulsione della società che si trova anche a Columbine o a Utoya. …il nichilismo, la rivolta radicale e totale è comune a tutti questi episodi.  Poi esiste l’elemento del conflitto generazionale. Le famiglie sono spaccate. I genitori musulmani non se ne fanno una ragione e cercano di riprendersi i figli, andando fino in Siria”. 
Come tutte le ideologie totalitarie, il jihadismo contemporaneo offre il suo modello di uomo e di donna perfetti. Se si tratta di costruire “la nazione perfetta”, è necessario il vero combattente, il “guerriero sulla via di Dio”, come lo furono i primi compagni del Profeta. Per questo il jihadista deve essere inflessibile, totalmente dedito alla causa, incorruttibile e usare la stessa durezza che fu quella dei primi secoli dell’islam. 
Nulla di nuovo in questa proposta. Il metodo è quello di ogni dottrina totalitaria: creare l’immagine del nemico e specularmente, quella di “uomo nuovo” che taglia i ponti con il passato. Abbiamo già visto all’opera tale sistema in altri regimi e in altre epoche, più o meno recenti, e ne conosciamo il micidiale effetto finale. Dae’sh costruisce un totalitarismo nichilista di stampo religioso, usa temi e linguaggio teologici, si serve di internet e mezzi ultramoderni ma ripercorre un terreno già battuto, le cui vittime-carnefici sono sempre giovani immaturi a cui è stata annientata la coscienza critica. Manipolare il consenso, suscitando deliri avventuristici e sensi di colpa, mediante mezzi di propaganda accessibili a tutti, sono tattiche note e sempre in agguato. Una visione del mondo manichea, dove bene e male si contrappongono in una lotta senza risparmio, è l’offerta tipica che ogni regime totalitario fa alle giovani generazioni, come è accaduto in Europa negli anni Trenta. 
 
La “narrazione salafita jihadista” che sta alla base di tale prodotto religioso, é anch’essa frutto di una crisi: quella dell’incontro mancato con la modernità e con storia che tutto avvolge, intreccia, contamina. Il ritorno violento all’ “Islam dell’epoca d’oro” agognato da tali salafiti estremi è illusorio: produce un tipo di Islam dogmatico, dove nulla va cambiato, nato perfetto per combattere tutto ciò che viene prima e dopo. Si tratta di un Islam ridotto a ripetizione: una religione senza storia e senza cultura. Ricostruendo a modo loro la storia islamica, mitizzando un’unica lunga filiera di pensatori che dagli hanbaliti arriva fino a Qutb, i salafiti hanno tagliato fuori l’Islam dalla sua stessa cultura: se nella religione c’è già tutto, a che servono storia, culture, altre lingue, riflessione, ricerca? E’ tale Islam (ridotto e ristretto, liofilizzato) che i reclutatori jihadisti propagano. I reclutatori di Daesh propongono un Islam astorico, che risponde a tutte le esigenze: psicologiche, sociali, umane, economiche, politiche, di giustizia etc. meno che alla sua radice religiosa. Un “Islam-mondo”, un “Islam totale” e totalitario, ridotto a poca cosa, che divora tutto –lingue storia culture ideologie teorie- perché possiede già tutto in sé. Un Islam pronto all’uso in ogni occasione, buono per ogni luogo e per ogni occasione. E’ tale Islam che forma il nuovo musulmano radicale, il “global muslim” per usare un’altra espressione di Olivier Roy. Un Islam che si trasforma in dottrina universale, in “pensiero unico alternativo”, avvolto in un look religioso ma segnato dalla secolarizzazione. Come scrive l’autore francese: “le forme di violenze dei radicali islamici (…) rientrano più in uno spazio della contestazione anti-imperialistica che nel campo della tradizione religiosa… c’è un processo di acculturazione cioè il progressivo venir meno delle culture di origine a vantaggio di una forma di occidentalizzazione. … legata alla volontà di definire un Islam universale al di là delle culture specifiche, fragili e storiche”. Un prodotto “Islam-utopia” per un’epoca nuova, deterritorializzato e strappato dal suo alveo culturale, corretto con un’analisi occidentale dei rapporti di potere. E’ un paradosso per noi abituati a credere che la secolarizzazione sia solo quella nostra, infondo innocua: quando perde la sua anima interiore ogni civiltà produce mostri. 
 

 

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