Catholic Archbishop, France
|
Riporto questa frase tratta dall’intervista di un artista: «non sono credente, dice, non sopporto le religioni, ma sono affascinato dagli uomini di religione!»
Riporto liberamente il seguito di ciò che ho ascoltato: sono affascinato da questi uomini per il loro impegno personale in ciò che hanno scelto di vivere, in ciò che il proprio impegno permette loro di fare nella vita, per gli altri, per la società… Quanti recentemente hanno visto in Francia il film di Xavier Beauvois, che ha per titolo «Uomini di Dio» (« Des hommes et des dieux »), che racconta liberamente la storia del rapimento e della tragica fine dei monaci cistercensi in Algeria nella primavera del 1996, potranno anche capire di quale paradosso si tratti.
Ecco in effetti un approccio molto moderno del nostro argomento: non si può più supporre che le posizioni a confronto siano così chiaramente definite e marcate come pocanzi…
Si può dire solamente: credenti e non credenti? «Non sono credente»: per anni, una bella trasmissione di canti religiosi cristiani e più specificamente liturgici, su una radio pubblica, cominciava, in genere, con una lunga citazione che spiegava che non era necessario essere credenti per amare e cercare la musica religiosa, e che era quasi sconveniente supporre che l’amante di musica religiosa fosse più o meno in stato di ricerca religiosa. Confesso che mi sembrava abbastanza provocatorio ripetere ogni settimana tale professione di non fede cristiana: questo rifiuto non portava ad aggiungere come l’accenno di una confessione?
Del resto si può aprire il terreno del dialogo tra credenti e non credenti senza citare gli agnostici, quelli che dicono di non sapere, di non poter decidere in tema di fede, quelli che confessano un certo scetticismo? Nella ricerca della verità, pensano, si può giungere a una conclusione? E questo atteggiamento mina una gran parte delle nostre culture presenti. Ridurre il dialogo a credenti e non credenti non solo lascia da parte tutta una quota di umanità di oggi, ma neanche permette di delineare con pertinenza i contorni della posta in gioco e le sfide comuni della nostra umanità.
Nessuno ai giorni nostri dubita che le sfide comuni si impongono nello stesso tempo alle religioni e alle varie correnti di pensiero. Si ha un bel dire che la secolarizzazione segna una regressione delle religioni e delle loro espressioni pubbliche, rimane che delle manifestazioni di tipo religioso esprimono e riuniscono fattori di identità, solidarietà e comunità. Lo stesso si sviluppano anche delle ricerche personali in termini di benessere, di equilibrio di vita, di spiritualità, di approccio al sacro, di apertura a un’esperienza della trascendenza: anche la ricerca mistica ha un futuro. Si separano volentieri nel panorama religioso contemporaneo, secondo l’analisi di Ernst Troeltsch, le Chiese, le sette e le correnti mistiche - e nelle ‘Chiese’, vengono evidentemente annoverate le grandi comunità religiose rappresentate in questo incontro annuale «Uomini e Religioni» -; tale percezione è molto interessante perché impedisce l’assimilazione del dialogo interreligioso con le sole religioni fortemente istituzionalizzate. Che lo si voglia o no, ci si allontana dagli atteggiamenti di negazione della fede, e da una cultura di astensione da ogni convinzione, poiché le nostre culture sono segnate da una fioritura di credo.
Quanto agli uomini di religione, nonostante le debolezze umane che in loro vengono perseguite come si cerca la pagliuzza nell’occhio del proprio prossimo, essi sono sempre più accettati come portatori di un’esperienza personale, di un’esperienza che si può rifiutare o combattere, ma che parla al cuore dei contemporanei. Un’esperienza che può fornire un modello, o la possibilità di un cammino, almeno un interrogarsi. Il Papa Paolo VI ha riassunto, dal 1975, questa aspirazione della nostra epoca a trovare tali uomini, in ragione anche della difficoltà di orientarsi in un mondo complesso e suddiviso in tante scelte: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni.»
Quest’analisi di papa Paolo VI riguarda sia i credenti che i non credenti. Guardate a quale punto dei non credenti dichiarati cercano e propongono dei modelli di impegno umano, sociale, etico nel quale molto spesso la solidarietà si impone come un incontro, un dialogo, una ricerca possibile tra tutti. In Francia, ad esempio, abbiamo dei notevoli testimoni, in scienziati come Axel Kahn o Albert Jacquard, in filosofi come Luc Ferry o Edgar Morin; in Germania, si pensi a Jürgen Habermas.
Le istituzioni religiose dispongono di strategie per riconquistare influenza? Queste strategie sono coronate da risultati? Non si tratta più di evoluzioni culturali che occorre osservare e analizzare con pertinenza per cogliere le reali aspirazioni dei nostri contemporanei, ed entrare in dialogo con loro? Se i credenti vedono, negli avvenimenti culturali che attraversano le nostre società, dei segni da leggere e da interpretare per aprire i veri dialoghi tra fratelli umani, i non credenti vi vedranno forse degli elementi da cogliere per far progredire la razionalità e la giustizia; mentre gli scettici risolleveranno gli interrogativi che questi fatti culturali aprono… Ma nulla giustifica l’indifferenza. Mi sarà consentito citare i recenti «Stati Generali del cristianesimo», organizzati a Lille, la mia sede episcopale, dal settimanale cattolico La Vie, che hanno riunito qualche giorno fa due tremila persone, per alcuni dibattiti molto aperti, sulla domanda pertinente: «La nostra epoca ha bisogno di Dio?»
Nessuno è esonerato dal cercare di pensare alle ragioni di ciò che succede. È così che comprendo la domanda delle poste in gioco con le quali siamo messi a confronto…
Quali sono allora le poste in gioco e le sfide che si impongono agli uomini di religione, quali che siano le loro scelte: uomini di religione, istituzioni religiose, o uomini che hanno semplicemente a cuore di non lasciare che l’umanità si rinchiuda nel vuoto o nelle difficoltà, ma al contrario di permettergli di vivere?
Ne vedo tre:
La socialità universale, e il rispetto incondizionato delle persone. Charles de Foucauld voleva se stesso «fratello universale». Fin dall’inizio del XX secolo, percepiva la posta in gioco dei futuri incontri tra popoli e culture. Questa socialità non può costruirsi al di fuori di un rispetto assoluto dell’altro. Emmanuel Lévinas aveva basato la sua opera sull’incontro irriducibile con il volto dell’altro. È noto il suo bel pensiero: «guardare un volto, è accettare di essere tenuti in scacco da un enigma.» Concedete al pastore che sono di citarvi uno dei suoi colloqui con uno dei celebri settimanali francesi, Le Nouvel Observateur. Viene posta a Emmanuel Lévinas la seguente domanda: «Come è arrivato a dare all’interrelazione umana, all’incontro con il volto, con lo sguardo verso l’altro, il primo posto nel suo pensiero? E il maestro risponde: - È legato al modo di vivere che era quello del mio ambiente familiare e alla lettura di alcuni libri, tra cui la Bibbia, dove molto presto ho individuato l’obiettivo di edificare l’umanità, vale a dire un ordine morale integrale, partendo dai dati concreti dell’umanità reale.» Ecco perché credo che la sfida attuale delle migrazioni nel mondo – sfida di cui noi viviamo oggi probabilmente solo le premesse – stia per donare a questa domanda una dimensione fondamentale molto acuta.
La seconda è quella della libertà di opinione, e in particolare di opinione religiosa, e di espressione pubblica di questa opinione, della pratica religiosa come atto della sfera pubblica. Non si tratta chiaramente di aprire nuove occasioni di conflitti religiosi; il regime della laicità sta guadagnando le coscienze, e per fortuna: non è possibile che il campo della vita pubblica sia inquinato da affermazioni identitarie al punto di esacerbare le differenze e nutrire le occasioni di violenza. Ma la libertà di non professare alcuna religione non può trasformarsi in divieto di confessione pubblica della religione, né imporsi ormai come regola della vita sociale. Se gli Stati, progressivamente, scelgono l’astensione in materia religiosa, non è come una scelta filosofica che crea una norma interiore per gli individui, ma è un legittimo rispetto del pluralismo delle possibili scelte in questo ambito all’interno stesso di ciascuna delle società.
È evidentemente in uno stato di spirito molto attento a questo fenomeno nascente che il Concilio Vaticano II si è espresso in modo premonitore nella metà degli anni sessanta. Ma il suo punto di vista non è quello dell’ordine pubblico, è quello della persona umana, della sua dignità, e dei diritti imprescrittibili di ogni uomo. Lo cito «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa (…)così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata.» E nella sua udienza settimanale dello scorso mercoledì 8 settembre, a Roma, papa Benedetto XVI ha sottolineato: «Nel contesto sociale attuale, dove popoli e culture entrano in contatto, lo sviluppo dei diritti universali, intangibili, inalienabili e indivisibili, è indispensabile ».
In questo raggiungiamo la prima sfida comune: è perché ci sono, nel nostro tempo, tutte le culture presenti in tutte le parti del mondo che la neutralità degli Stati si impone, e che deve essere guadagnata la possibilità per ciascuno di farsi conoscere nel più profondo delle proprie scelte, e nel rispetto degli altri.
La terza è quella della speranza portata insieme di un futuro possibile per tutti. Il gusto del futuro, secondo la formula di Max Weber, ripresa da Jean Claude Guillebaud, ha certamente bisogno di essere nuovamente alimentata. Cito Max Weber: «Chi dunque, ai nostri giorni, crede – eccetto qualche ingenuo che si incontra tra gli specialisti – che le conoscenze astronomiche, biologiche, fisiche o cliniche potrebbero insegnarci qualcosa sul senso del mondo, o anche aiutarci a trovare le tracce di questo senso, se mai esiste. » temo molto infatti l’impatto allo stesso tempo molto razionalista e molto riduttore delle correnti di pensiero che sembrano appoggiarsi su ciò che si verifica, e su una tecnicità trionfante divenuta inconsciamente credente, senza curasi dell’esperienza umana! Tanto più temo questa evoluzione che osservo, i suoi danni in almeno due campi: l’approccio dell’umano, e l’impatto dell’individualismo.
L’approccio dell’umano si è frammentato sotto l’effetto del taglio scientifico delle discipline, fino a rimettere in causa l’unità e l’identità dell’uomo: si parla di bioetica, ma si cerca di giustificare delle manipolazioni che annientano la dignità umana. Bisogna ripensare l’umano; credenti, agnostici e non credenti vi sono convocati: dove si trovano le vere frontiere della determinazione, della decisione etica? Quali sono le nostre scelte, che concernono lo sviluppo e la protezione della vita?
Quanto all’impatto dell’individualismo, ci interroga perché giustifica un approccio nuovo delle singolarità umane. Tutti, credenti, agnostici e non credenti, abbiamo da scoprire e comprendere le opportunità di un individualismo nuovo: che non divenga l’occasione di chiudersi ciascuno in se stesso; al contrario che permetta di coniugare le forze di libertà della persona umana e il progetto di un vero vivere insieme.
Ci si può interrogare come il saggista Jean-Claude Guillebaud, nella conclusione della sua opera, La force de conviction (Forza di volontà): «in certi momenti, abbiamo l’impressione che la storia umana volga al termine, che venga il crepuscolo, che tutto sia perduto. In altri momenti ci sembra al contrario che tutte queste cose attese stiano finalmente per cominciare. Credere è scegliere.»
Vedo qui come una conferma di un invito proveniente dal Concilio Vaticano II che ho citato prima: «Si può pensare legittimamente che il futuro dell'umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza.»
|