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8 Settembre 2014 16:30 | Thomas More, Campus Carolus, Aula 005

L’ebraismo e la povertà


David Rosen


Già Rabbino Capo di Irlanda, AJC, Israele
Nonostante nel midrash gli antichi saggi ebrei dichiarino che “colui che è schiacciato dalla povertà partecipa in prima persona a tutte le afflizioni del mondo” (Midrash Rabbah, Esodo, 31:12); la povertà non è soltanto una sfida, ma anche un’opportunità – soprattutto per coloro che hanno i mezzi per poter prendere parte ad alleviarla.
 
Nel cuore della sfida della povertà non vi è soltanto la responsabilità umana nell’assicurare una saggia ed equa divisione delle risorse (contrapposta alla cultura assistenzialistica), ma, soprattutto, l’imperativo stesso della solidarietà umana, seppure persino questo stesso imperativo, da un punto di vista religioso, sia funzionale ad uno scopo più alto. 
 
Una delle omelie rabbiniche più efficaci a riguardo è basata sul secondo verso del Salmo 65: “Sorga Dio e siano dispersi i suoi nemici e fuggano davanti a lui quelli che lo odiano” [Compare nel salmo 68 secondo la traduzione CEI, n.d.t.]. Dicono i saggi: “Cinque volte (nel libro dei Salmi) Davide chiede a Dio di sorgere e di disperdere i suoi nemici. Tuttavia non troviamo che (nel libro dei Salmi vi sia alcun  alcun accenno al fatto che ) Dio sia sorto (in risposta a tale invocazione). Ma dove è che Egli sorge (o, meglio, dichiara di volerlo fare)? (Lo troviamo nel salmo 12, v. 6: ) “Per l'oppressione dei miseri e il gemito dei poveri ecco, mi alzerò - dice il Signore!”.
 
In questa omelia così efficace, i rabbini del midrash ci insegnano che, neanche essendo il Re Davide in persona, si può avere la certezza che Dio è dalla propria parte.
In maniera simile, si racconta che Abraham Lincoln, rispondendo alla domanda se credeva se Dio stesse dalla sua parte, disse che la cosa importante è essere noi dalla parte di Dio!
Noi siamo dalla parte di Dio, dichiara il midrash, se ci prendiamo cura dei poveri e dei bisognosi!
Ciò ovviamente si accorda con l’insegnamento ebraico fondamentale dell’”Imitatio Dei” (basata su Levitico 19, 1: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”), e, come detto dal saggio Abba Shaul: “Alla stessa maniera in cui Egli è compassionevole e misericordioso, dovrete essere compassionevoli e misericordiosi voi” (confronta anche Maimonide, Yad, “doni ai bisognosi 7, 6).
 
Siamo veramente divini nel nostro comportamento – comportandoci come Dio vuole che siamo – se diamo risposta alle necessità dei poveri e dei vulnerabili.
 
La bibbia mette per iscritto questo precetto nel modo seguente:
Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo … e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello bisognoso e tu non gli dia nulla: egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te. Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi…. il Signore, tuo Dio, ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: "Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra". (Deuteronomio 15:7-11).
 
Infatti, la parola ebraica per carità è “tzedakah”, che significa letteralmente “giustizia”.
Occuparsi dei poveri e dare a loro è, secondo rettitudine, nostro impegno, responsabilità e dovere. Facendo ciò affermiamo i legami della nostra comune umanità, e promuoviamo la pace nella società. La parola ebraica “shalem”, che significa “completo” ed “unito” è la radice della parola “shalom”, pace. E’ attraverso la risposta pratica alle necessità degli altri che promuoviamo l’unità e l’armonia che è l’essenza di una vera pace e della redenzione della società (confronta Maimonide, c.s..).
 
Precisamente, poiché è nostra responsabilità prendersi cura dei poveri e sradicare la povertà essere espressione della solidarietà umana, la maniera in cui noi agiamo è importante sia quando sappiamo dare un aiuto materiale che quando non siamo in grado di farlo.
Maimonide (Yad, Doni ai bisognosi, 10, 4-5) riassume ciò come segue:
Se un uomo povero ti chiede dei soldi e tu non hai niente da dargli, parla a lui in maniera consolatoria. E’ proibito rimproverare una persona povera o gridargli, perché il suo cuore è contrito ed affranto, come è stato scritto: “un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 51, 19). Ed è anche stato scritto: “Per ravvivare lo spirito dell’umile, e ravvivare il cuore di chi è contrito” (Isaia 57, 10) [Verso non corrispondente, nella traduzione CEI in italiano, n.d.t.].
Guai a chi fa vergognare un povero. Bisogna piuttosto essere dei padri per i poveri, sia nella compassione che con le parole, come sta scritto: “Padre io ero per i poveri” (Gb 29, 15). Inoltre, chi fa l’elemosina ad un povero in maniera scortese e con lo sguardo di disprezzo, ha perso qualunque merito per la sua azione, anche se avesse dato mille monete d’oro. Bisogna, piuttosto, donare con grazia e con gioia. Bisogna parlare a chi è povero con parole di consolazione e simpatia, come sta scritto: “al cuore della vedova infondevo la gioia” (Jb 29:13).
 
Oltre la nostra responsabilità di rispondere alle necessità immediate dei poveri, siamo obbligati a lavorare per sradicare la povertà. Tuttavia, la risposta più virtuosa e degna di apprezzamento è quella che facilita la piena espressone della dignità del bisognoso, permettendo a quest’ultimo di diventare autosufficiente.
Il Talmud conosce otto livelli di risposta, ordinati dal meno degno, che corrisponde al donare con riluttanza o con rammarico. Ma il livello più alto (in base a Levitico 23, 25), è quella di dare alle persone la possibilità di uscire dalla povertà attraverso donazioni, prestiti, collaborazione o trovando loro impiego.
Maimonide (v. s.), codificando tale testo del Talmud, specificò che questo livello più alto di risposta significa dare loro sostegno in maniera tale che ricadere nella povertà per loro sia impossibile. O, come dice un proverbio cinese: “Se dai ad un uomo un pesce, gli hai dato da mangiare per un giorno. Se gli insegni a pescare lo hai nutrito per tutta la vita”.
Tuttavia, un maestro hassidico aveva l’abitudine di dire che in effetti i poveri rendono un servizio ai benestanti, dando loro la possibilità di osservare l’obbligo religioso della  “tzedakah”, ossia gli obblighi di rettitudine rispetto ai bisognosi. Con ciò, la teologia evidenzia quale sia il fine più alto nel combattere la povertà. Non è soltanto l’eliminazione delle ristrettezze umane. E’, come si è detto, l’attualizzazione della solidarietà umana. Facilita le espressioni pratiche di compassione, di comunione, delle interazioni umane che vincono l’alienazione.
Perché, come diceva il profeta Isaia, la redenzione sarà portata da “mishpat utzedaka” , 
giustizia e rettitudine nel nostro mondo.
 

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