Vescovo cattolico, Francia
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Presiedere questo “Panel” su “Religioni e violenza” è per me un grande onore ed una grande responsabilità. Un grande onore per la qualità dei relatori di questo Panel, uomini di riflessione e d’esperienza, alcuni dei quali hanno subito sulla propria pelle le conseguenze di un funesto incrociarsi tra religione e violenza. E una grande responsabilità che condivido con coloro che si trovano a questo tavolo, a causa della pregnanza di questo tema e della sua attualità. Simone Weil scriveva nella sua “Lettera a un religioso”: “Credere che Dio possa ordinare agli uomini atti atroci di ingiustizia e di crudeltà è il più grande errore che si possa commettere su di lui”. Il mondo d’oggi, che è orripilato dai barbari atti commessi ultimamente in Iraq, nel nome di Dio, ha bisogno di una visione chiara sul rapporto tra religioni e violenza. Le religioni sono fonti di violenza o sono fattori di pace? La riflessione e l’esperienza degli uomini di studio e di fede che partecipano a questo Panel ci saranno preziosi per uscire dal subbuglio che alloggia nello spirito di molti di noi.
Ci sono in effetti coloro che vedono nelle religioni un’immensa fonte di violenza, al punto che, secondo loro, se queste sparissero il mondo non potrebbe che andare meglio. Altri, al contrario, le vedono come indispensabili strumenti di pace. Tutti hanno in mente un lungo elenco di avvenimenti – antichi o recenti – per sostenere la propria valutazione. Da un lato ci sono atti di violenza inaudita, abietti, barbari, e d’altro lato testimonianze ammirevoli di solidarietà, di compassione, di eroica resistenza al male – il tutto compiuto in nome di Dio. Le religioni sono quindi capaci del peggio come del meglio. La questione che si pone è quella di sapere a cosa si abbeverano questi estremi che sono il potere di fomentare l’odio, di umiliare, di dominare, e quello di generare la bontà, l’amore, la solidarietà.
Lo sguardo si volge naturalmente, in primo luogo, sui testi sacri delle grandi religioni. Orbene, ciò che colpisce è l’immensa bontà che se ne irradia: il Dio degli umiliati della Bibbia, il Dio dei poveri e degli oppressi del Vangelo, il Dio misericordioso del Corano e i doveri di solidarietà che ne derivano. Beninteso, si potrà anche trovare dei passaggi bellicosi nei testi sacri, citarli fuori dal loro contesto o dar loro un’importanza che questi non hanno. È quel che fanno tanto i detrattori dell’illusione religiosa che i fanatici e i fondamentalisti di ogni genere. Ma una lunga tradizione ermeneutica ci ricorda che un testo sacro deve essere letto tenendo presenti il suo contesto e il suo pretesto. Questo è incastonato nella storia dell’umanità e risponde a un’attesa che ha come posta in gioco la condizione umana. Sant’Agostino ricordava che la prima parola di Dio è la vita personale e collettiva dell’uomo. È nel quadro di questa vita che Dio parla innanzitutto. Non tenere conto di questo, significa fare del testo sacro un “idolo”, nel senso in cui lo intendevano i profeti biblici, cioè una cosa morta che si sostituisce alla vita e alla coscienza morale della persona e sottomette l’esistenza dell’uomo ad un potere inumano e schiacciante.
Un testo sacro assume senso solo radicandosi nell’umanità, nella vita e nella sua bellezza, aspetti a volte evitati dal discorso religioso istituzionale. Come se il mondo, la società, la vita, la realtà non fossero parte in causa nella nostra esperienza di Dio, come se per fare bene si dovesse lasciare il mondo fuori dalla porta del luogo di culto, perché quest’ultimo sia “puro”. Questo modo di vedere comporta una pericolosa frattura tra l’amore di Dio e l’amore del mondo. Ciò che prevale, allora, sono la stretta obbedienza alla legge di Dio e le pratiche rituali che vi si ricollegano. Il sacro definisce così un taglio radicale col profano.
Sicuramente esistono diversi livelli in questa scissione tra il religioso e il mondo. Ma ovunque si collochi, essa rimane una fonte di violenze larvate e strutturali. La paura della libertà reca in sé i germi della dominazione. Perché il sacro così concepito, regnando assolutisticamente sulle realtà umane – ed esigendo una totale sottomissione – finisce per strumentalizzare l’umano, al punto che il sacrificio della sua dignità e della sua libertà diviene una semplice esigenza in nome della Verità. Ciò che dovrebbe essere amore, servizio, condivisione, si perverte allora in dominazione, asservimento e giogo. E ciò che dovrebbe essere liberazione si trasforma in catena. Le parole di pace e di giustizia – e anche di Dio – si pongono allora al servizio di una violenza terribile, mascherata sotto il velo del sacro e dell’intoccabile.
La religione – la cui ragion d’essere è, secondo l’etimologia, di riunire e di rileggere – si trova così sfigurata. Essa non riunisce più gli esseri umani tra di loro, ma li lega. Essa non rilegge più la vita e le realtà in cerca di significato, ma sopprime il significato imponendolo.
La strumentalizzazione dell’essere umano e della vita a servizio di una verità o di una logica assoluta non è presente solo nelle religioni, ma trova in esse il vertice della sua perversione. La parola spetta ora agli intervenienti per metterci a parte della loro esperienza sulle derive contemporanee e della loro riflessione in materia. Parleranno a turno, ognuno per dieci minuti. Dopo i loro interventi, ci dovrebbe restare tempo per un dibattito. Mi rimane da presentare i relatori di questo Panel. Per non appesantire ulteriormente l’introduzione, li presenterò successivamente prima di dar loro la parola.
La parola va innanzitutto a Syed Muhammad Abdul Khabir Azad; Muhammad Abdul Khabir Azad è una delle più importanti personalità musulmane del Pakistan. Da 18 anni è il Grande Imam della moschea Badashi, a Lahore. D’altra parte, era amico di Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze religiose. È il responsabile del “Consiglio Interreligioso del Pakistan per la Pace e l’Armonia” e in tale veste ha organizzato, nel 2012 a Multan, una conferenza volta a sottolineare la necessità del dialogo e della pace in Pakistan, conferenza che ha riunito più di 500 studiosi e religiosi provenienti da diverse scuole di pensiero e dalle grandi religioni mondiali.
La parola va a Paul Bhatti, presidente dell’Alleanza di tutte le Minoranze del Pakistan. Da aprile 2011 Paul Bhatti è consigliere del Primo Ministro pakistano per le minoranze religiose, funzione che ha accettato dopo l’assassinio di suo fratello Shahbaz, il ministro per le minoranze, impegnato nella diffusione di una cultura della convivenza e della pace. Paul Bhatti ha oggi il delicato compito di assicurare il rispetto e l’uguaglianza dei diritti a tutte le minoranze del paese, ancora fortemente segnato dalle violenze e dalla divisione.
La parola va a Samir Franjieh, intellettuale libanese, che ha svolto anche un ruolo politico di primo piano. Possiamo ricordare in particolare che egli ha lanciato numerose iniziative di dialogo e di riconciliazione nazionale durante la guerra in Libano, in particolare l’appello di Beirut, dove si legge: “Noi pensiamo che si debba mettere fine ad ogni costo a questo processo di riduzione che è all’origine di tutte le follie: riduzione della civiltà a cultura, della cultura a religione, della religione a politica e della politica ad azione violenta”.
La parola va ad Abdul Majeed al-Najjar, membro dell’Assemblea Costituente Tunisina. Abdul Majeed al-Najjar è anche membro dell’influente Associazione Internazionale dei Sapienti Musulmani e vicesegretario generale del Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca, a Parigi. Questo Consiglio mira a riunire gli eruditi musulmani in Europa e ad unificare la giurisprudenza islamica.
La parola va a Domenico Quirico, giornalista de La Stampa, grande conoscitore della primavera araba, i cui sbandamenti lo hanno preoccupato sin dagli inizi. Egli ha vissuto l’esperienza del sequestro, una prima volta nell’agosto 2011 in Libia dove è stato liberato dopo due giorni, e soprattutto in Siria, nell’aprile 2013, dove è stato liberato soltanto dopo cinque mesi di detenzione.
La parola va al rabbino Abraham Skorka, rettore del Seminario Rabbinico Latino Americano di Buenos Aires, biofisico, professore di Letteratura Biblica. Nel nostro ambiente, egli è considerato come il rabbino di papa Francesco. Lui e l’arcivescovo, all’epoca, hanno condotto una serie di discussioni interreligiose su vari temi, come Dio, il fondamentalismo, gli atei, la Shoah.
La parola va infine a Jerry White, militante politico statunitense e cofondatore di Survivor Corps. È un capofila riconosciuto della storica Campagna internazionale per la proibizione delle mine. Nell’aprile 2012 è entrato a far parte del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, nell’ufficio dei conflitti.
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