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Peace is the future

 
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8 Settembre 2014 16:30 | Auditorium ING

Intervento



Vincenzo Paglia


Arcivescovo cattolico, Presidente della Pontificia Accademia per la vita, Santa Sede

 Religioni e culture in dialogo per la vita

 
Per la prima volta nella storia l’uomo ha nelle sue mani il potere sulla vita e sulla morte in maniera globale. Un filosofo laico italiano, Salvatore Natoli, per descrivere tale novità richiama la prima pagina della Genesi. E immagina che il serpente abbia suggestionato ancora una volta Eva: “Sarai anche tu come Dio!”. In effetti – scrive Natoli – l’uomo moderno ha voluto farsi come Dio, con un “assoluto delirio di onnipotenza”. L’uomo contemporaneo pensa che ha tutto il potere nelle sue mani. Se è ancora vero l’adagio baconiano homo homini lupus, credo si debba aggiungere anche homo homini deus. Ciascuno si sente Dio. Giuseppe De Rita, un sociologo italiano, parla di “egolatria”, di culto dell’io. E uno psichiatra italiano, Massimo Recalcati, afferma: “il nostro tempo esaspera a tal punto la nozione di individualità, amplifica a tal punto la riduzione dell’uomo al potere dell’Io, che finisce per provocarne una ad ogni versione di trascendenza e si considera davvero l’unica ragione del mondo”. L’Io – sciolto da ogni legame, anche da Dio – diviene il padrone assoluto di sé e della intera convivenza. Tutto deve ruotare attorno all’Io. Un tale iperindividualismo sta indebolendo in maniera radicale il convivere. E’ la società “liquida” di cui parla Zigmunt Bauman: i rapporti sono appunto liquidi, istabili, alla mercé dei desideri individuali. 
 
L’uomo è relazione, non solitudine
 
L’uomo però non è un essere solitudinario nel suo profondo, non è un’isola. Lo mostrano i due racconti della creazione nella Genesi. Nella seconda narrazione (Gn 2, 4b-25) la creazione dell’uomo inizialmente non è completa. Dio, dopo aver creato l’universo e aver posto l’uomo nel giardino terrestre, si rende conto che all’uomo manca qualcosa di essenziale. Quel primo uomo non è felice, tanto che Dio stesso afferma: “Non è bene che l’uomo sia solo”(18). E subito Dio si corregge: “voglio fargli un aiuto che gli sia simile”(18). Ed ecco la creazione della donna, estratta dalla costola dell’uomo per indicare che sono uguali, non per significare una qualsiasi dipendenza.  l’uomo, appena la vede, esclama di gioia: “Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa”(23). 
Questo radicale rapporto di relazione è evidente anche nell’altro racconto. L’autore sacro scrive: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”(1,27). L’uomo e la donna insieme sono l’immagine di Dio; non è quindi la singola persona, ma ambedue assieme. Quel che conta davvero nella vita di ciascuno e dell’intera umanità è riconoscersi uniti agli altri nella diversità. Potremmo dire che l’immagine di Dio sulla terra è la fraternità tra tutti, a partire dall’uomo e dalla donna. Nessun individuo può dirsi perciò assoluto, ossia sciolto dagli altri. La creazione dell’uomo nega in radice l’autosufficienza e afferma il “noi” come la verità dell’uomo. Nessuno è mai sconnesso dagli altri, né in vita né in morte. 
 
Libertà e responsabilità
 
La concezione individualistica dell’uomo fa crescere purtroppo la tristezza del vivere. Quando si è senza relazioni e senza amicizia è difficile essere guide sagge di se stessi e la capacità di autodeterminazione si indebolisce seriamente: “La vita solitaria (…) può essere allegra ed è probabile che sia molto indaffarata, ma è destinata ad essere anche rischiosa e terribile”(Bauman). La paura della malattia e della morte divengono a tal punto forti da condizionare in maniera profonda la coscienza. In tali condizioni  – senza speranza di poter vivere felice da anziani o da disabili - una persona è portata facilmente a chiedere di morire. Molti suicidi – inclusi i suicidi assistititi praticati da alcune organizzazione non profit – si spiegano col terrore che il paziente ha della solitudine o con la depressione d’essere rimasti soli davanti alla vecchiaia imminente e alla malattia. 
Occorre dare una risposta, sul piano culturale, che valorizzi la vera pienezza del vivere, anche se questo non corrisponde alla idea di felicità oggi più propagandata. Emblematico è il discorso sul corpo: lo si esalta rendendolo il centro di mille attenzioni, ma poi lo si disprezza quando si indebolisce, quando diventa fragile. Il feticismo del corpo e l’idea di dover assecondarne un modello di perfezione rende particolarmente vulnerabili adolescenti e anziani. Pensiamo alla diffusione di disturbi quali l’anoressia o all’esplosione della chirurgia estetica. Entrambi, adolescenti e anziani, appaiono più esposti allo sguardo giudicante degli altri. Jean Amery ha giustamente notato che “il mondo annienta l’individuo che invecchia, rendendolo invisibile. Lo sguardo degli altri lo attraversa come potrebbe attraversare una materia trasparente”.  Ma cancellare i segni che il tempo lascia sul corpo significa anche cancellare la memoria e, in definitiva, la propria identità. 
Non è vero che non si possa vivere pienamente o felicemente da malati o avendo delle disabilità. Un tratto decisivo dell’umanesimo – cristiano e non - è la valorizzazione della relazione: non solo si può essere felici in una condizione di debolezza quindi di indispensabile bisogno di aiuto, ma proprio la relazione con l’altro costituisce la cifra del legame sociale e affettivo che consente di vivere bene in una condizione di fragilità sempre immanente nella vita.
 
La vita di ciascuno “patrimonio dell’umanità”
 
La vita poi è un bene che ci accomuna, che ci unisce, che ci avvolge. Nessuno ne è padrone assoluto anche perché la vita di ognuno è legata saldamente a quella altri. Per questo Aldo Schiavone – anche da un punto di vista laico - sostiene che la vita è un bene di cui il soggetto non può totalmente disporre. La vita di ogni persona – nella sua singolarità e concretezza - esprime un valore e una potenzialità sociali a tal punto alti da non poter essere affidati unicamente a chi quella vita vive. Ogni singola persona è un “patrimonio dell’umanità”, e come tale va custodita, aiutata e difesa. Talora si ha più preoccupazione per monumenti storici che per la vita della gente. Scrive bene Schiavone: “Se noi ci rendiamo conto davvero che non esisteranno mai due vite uguali – biologicamente e culturalmente – che ogni vita individuale porta con sé un patrimonio di diversità unico al mondo, possiamo ben concludere che questo moltiplicarsi infinito delle differenze sia una ricchezza della specie, un patrimonio che appartiene, in ogni suo frammento, all’umanità tutta intera. Ogni morte è, sia pure in minima parte, la nostra morte: ‘Non chiederti per chi suona la campana, essa suona per te’. Insomma, l’essere padrone esclusivo della propria vita non significa essere autorizzato a poterla cancellare per un capriccio soggettivo”. 
Continua il filosofo italiano: “Dobbiamo accettare regole in cui la libertà individuale – nella figura estrema di libertà di porre fine ai propri giorni – si misuri con l’interesse collettivo che ogni vita sia conservata, sin quando possibile”. Qui Schiavone mette in campo una sorta di principio della specie e quindi il coinvolgimento di tutti nel giudicare il valore della vita e della morte che a suo parere richiederà una pensosità nuova visto il nuovo contesto “post-naturale” nel quale anche la morte viene inserita. 
Anche Hans Jonas invita a riflettere sulla responsabilità che ciascuno ha per la vita degli altri: “Io posso avere responsabilità nei confronti di altri, il cui benessere dipende dal mio, ad esempio come capofamiglia, come madre di famiglia, come autorevole titolare di una funzione pubblica: tali responsabilità limitano non giuridicamente ma moralmente la mia libertà di rifiutare cure mediche. Si tratta in sostanza delle stesse riserve che limitano dal punto di vista etico il mio diritto al suicidio, anche quando nessun divieto religioso riveste più per me valore”(p.14). E ritiene sia moralmente responsabile impedire ad altri che si suicidino: “Gli altri, inclusi i poteri pubblici, hanno il diritto (che in definitiva viene persino considerato un dovere) di impedire, mediante tempestivo intervento, che non esclude neppure il ricorso alla forza, un tentativo attivo di suicidio”. E’ vero – sottolinea – che si entra nella intima sfera di libertà del soggetto, ma è comunque momentanea e in diretto rapporto con la libertà del soggetto: “Colui che è stato salvato è comunque  padrone di confutare questa interpretazione. Il suicida risoluto conserva sempre l’ultima parola. Qui non discuto l’etica del suicidio in quanto tale, ma soltanto i diritti (e i doveri) che altri hanno di interferie”(pp 15-16). Queste parole suonano importanti di fronte alla situazione contemporanea. Secondo l’OMS, ad esempio, ogni anno nel mondo si suicidano in media 800.000 persone, ossia uno ogni 40 secondi (El Pais). E per ogni persona che riesce ce ne sono 20 che lo intentano. E se non fosse ancora un tabù, la cifra salirebbe in maniera esponenziale.
 
L’eutanasia, una domanda d’amore inevasa 
 
La richiesta dell’eutanasia si affaccia sempre attraverso l’enfasi del caso estremo di profonda sofferenza, di solitudine, di angoscia, che richiede un intervento compassionevole. La paura di una morte in queste condizioni ovviamente muove l’opinione pubblica ad avere un sentimento di compassione. Poi si aggiunge: non c’è nessuna legge che obbliga a chiederla. La morte per eutanasia è presentata come un evento positivo che comunque risponde ad una domanda di dignità del morire. Si afferma, infatti, che la vera umanità e la saggia responsabilità consistono nel far morire bene e non soltanto nel diminuire la sofferenza. Purtroppo, ancora una volta avviene uno slittamento pericoloso: ‘aiutare’ un malato vuol dire sempre di più ‘aiutarlo a morire’ più che ‘aiutarlo a vivere’. E affermare che bisogna ‘morire in modo degno’ significa sempre di meno ‘morire in modo naturale’ (considerato spesso indegno, specie se la morte si fa aspettare) e sempre più ottenere la morte per via medicalmente indotta.
C’è chi dice che se qualcuno la chiede va rispettato nella sua libera scelta. Esiste il diritto alla vita, non l’obbligo. Se qualcuno vuole vivere la sua vita fino alla morte naturale, benissimo; ma con quale diritto la società vieta ad uno di voler morire se liberamente lo sceglie? In verità, chi sta accanto ai malati terminali e li assiste con attenzione, pazienza e amore sa bene che tanto spesso la richiesta di eutanasia non è una domanda di morte ma richiesta di accompagnamento e di aiuto a non soffrire. Ed è qui che c’è il vuoto della risposta. E la legge reclamata di fatto vuole tranquillizzare la coscienza di chi non si assume il peso della risposta di amore. 
Emmanuel Hirsch, nel suo volume L’euthanasie par compassion? Manifest pour une fin de vie dans la dignité, racconta che nel corso degli ultimi anni più volte gli è capitato di dialogare con pazienti che gli hanno chiesto di morire: “Una volta comprese le motivazioni di questa richiesta, rispondevo: ‘Ciò che mi domandate non lo farò mai, ma vi prometto che, se vi aggravate, farò del tutto per impedirvi di soffrire e di prolungare le sofferenze’. In tutti i casi, salvo un paziente che è rimasto in silenzio, i malati mi hanno risposto più o meno così: ‘è ciò che io mi aspetto esattamente da lei, non altro’”.
Giovanni Paolo II smaschera la pretesa della compassione che giustifica la pratica eutanasia: “Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell'esistenza di chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante "perversione" di essa: la vera "compassione", infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell'eutanasia se viene compiuto da coloro che - come i parenti - dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti - come i medici -, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose. La scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. " (Evangelium Vitae, 66).
La compassione è vicinanza, comprensione, fiducia e non affidamento alla pura tecnica o alla freddezza della legge per porre in atto un’azione che provoca la morte. Lo aveva intuito bene, per fare un solo esempio, il Presidente francese, Francois Mitterand. Dopo essere stato operato di tumore, in un colloquio con una amica espose la sua decisa opposizione all’eutanasia: “Non ho abolito la pena di morte per poi reintrodurla sotto un’altra forma!”(M. de Hennezel, Nous volulons tous mourir dans la dignité, Paris 2013, p. 38). E aggiunse: “In un paese democratico, una legge non può sacralizzare un tale diritto! Finché vivrò, mi opporrò perché questa linea rossa non venga oltrepassata. E’ troppo grave!”. 
Un altro grande medico, non credente, Lucien Israel, non ha dubbi: la “moda dell’eutanasia” è il crollo della società occidentale. E tra i motivi del suo netto dissenso ne esplicita il seguente: “L’eutanasia legalizzata rappresenta la rottura del legame simbolico tra le generazioni. Figli, nipoti e, ormai, pronipoti, visto che stiamo per diventare una società a quattro generazioni, sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi”. La scelta di una cultura eutanasia, ben lontana da inscriversi in una dimensione umanistica, spinge verso una tragica deriva di inciviltà. Wijkmark, in un romanzo degli anni Settanta, La morte moderna, mostra la deriva di una ‘democrazia della morte’ – ossia la convinta auto eliminazione dei vecchi come un traguardo egualitario che elimina la differenza tra chi è malato, chi è sano, chi è solo, chi è circondato da affetti - è la morte della democrazia”. 
 
Il mistero della vita e della morte: verso un nuovo umanesimo
 
C’è bisogno di una nuova alleanza tra le religione e gli umanisti. L’intera vita umana e il creato sono immersi nel mistero. E mi riferisco ad una dimensione teologica ma anche temporale. C’è il mistero nel senso religioso, ossia della creazione che ci precede ci avvolge e ci supera. E’ il senso stesso della religiosità che pone l’uomo come creatura. Ma c’è anche il mistero di quel che sul piano semplicemente scientifico può accadere e che oggi non conosciamo. In tali “questioni ultime” siamo sempre “penultimi”, ossia con le conoscenze scientifiche del momento e ignari del possibile progresso. Ecco perché ogni decisione deve restare nei suoi limiti. Quel che si rende indispensabile è l’incontro e il dialogo su tali temi evitando di abbandonare alla “tecnica” ciò che è sommamente umano come la vita in tutte le sue fasi.
 

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