È il senso del tempo, il suo scorrere minuto dopo minuto che accomuna la storia di Paola, Mimoza e Mary, donne che hanno vissuto l’esperienza del carcere come detenute. Le date, quelle del processo, dell’inizio della pena, dei giorni premio ogni sei mesi, dei colloqui con i familiari, il periodo finale della detenzione da scontare in affidamento ai servizi sociali, sono stampate a fuoco nella memoria delle tre donne.
Ed è la percezione del tempo la maggiore differenza tra uomini e donne secondo Paola, 52 anni di cui 9 e mezzo passati tra carcere e affidamento. “I detenuti maschi – ci racconta, dopo essere diventata volontaria con l’associazione carceraria Ristretti Orizzonti – non hanno il senso della realtà, hanno un atteggiamento da duri quando sono dentro, poi, usciti vogliono recuperare il tempo perduto. Come se questo fosse possibile”.
Gli anni passati “dentro” sono anni perduti, che per Paola “non si contano in mesi, ma in giorni, ore, minuti, secondi”. E in questa solitudine, che non si lenisce neanche in compagnia di altre detenute, ma anzi si esacerba, c’è una domanda “con la quale tutti si devono confrontare: perché l’ho fatto?”.
Paola è stata processata e arrestata a 40 anni, in un maxi processo per traffico internazionale di stupefacenti, a Norimberga. I primi due anni e mezzo di detenzione li ha passati lì. “Essere processata in Germania è stata una fortuna – ci spiega – il regime detentivo là è molto dignitoso, avevamo una cella a detenuto”. La “stanza singola”, garanzia di una privacy che diventa fondamentale in un luogo dal quale non si può uscire. “Mi ero abituata bene, avevamo questo spazio personale in cui nessuno ci veniva a spiare, la sera venivamo chiuse dentro, di giorno lavoravamo per 7 ore e mezza, poi c’era tempo per farsi un bucato giù in lavanderia, per cucinarsi qualcosa. L’impatto con il carcere italiano – quando ho fatto la domanda di trasferimento – è stato agghiacciante”.
“Lì gli spazi sono sempre in comune con tutti gli altri, le agenti di polizia penitenziaria hanno la possibilità di controllarti a vista in ogni tua attività, compreso il dormire o l’andare in bagno: l’angolo delle ‘turche’, scrostate e maleodoranti, non è coperto da nessun muro. E ad un metro di distanza ci sono i fornelli per cucinare”. Il percorso di Paola è stato “regolare” fino ai 40 anni, le sue difficoltà maggiori, arrivando alla Giudecca, un ex convento con 80 detenute divise in nove grandissime celle, è stato quello di socializzare. “Non avevo voglia di fare amicizie, avevo paura di condividere lo spazio con così tante persone. La notte dormivo con tappi di cera e mascherina, la sensazione era quella di vivere sempre come in piazza. Logorante”.
Paola ha intrapreso, dopo la pena, un percorso come volontaria nel carcere: “I vissuti vanno rielaborati bene, ho pensato che non era il caso di dare un colpo di spugna ad una cosa che mi era penetrata così nel profondo”. Ma non si può rimanere sempre inchiodati allo stesso personaggio. “Dopo sette anni ho deciso che mi trasferirò con il mio compagno al sud: da Padova al Salento per aprire un bar, ho bisogno di mettermi in gioco altrove”.
Mimoza di anni invece ne ha 40, è fuggita dal suo paese, l’Albania, perché sposata ad un marito-padrone che la picchiava, è arrivata in Italia con la prospettiva di diventare assistente familiare di una signora anziana. “Ma dopo tre giorni dal mio arrivo a Ravenna – racconta – la signora è stata ricoverata in ospedale. Sono finita sulla strada, a vivere, a dormire e a un certo punto, costretta dalla povertà, anche a lavorarci”. Il riscatto arriva dopo qualche mese, con un lavoro da commessa nella vicina Rimini. Nel 2010 una condanna di sfruttamento della prostituzione minorile e l’inizio del calvario. La sentenza definitiva sancisce quattro anni e mezzo nel “collegio” della Giudecca.
“È stata durissima vivere in mezzo alle altre detenute, – confida Mimoza – quelle che avevano una pena maggiore da scontare e niente da perdere hanno tentato di mettermi sotto, una volta mi hanno anche rotto il naso, ma non ho mai reagito, e per buona condotta ho guadagnato 9 mesi di sconto sulla pena”. C’è un sogno alla fine del percorso della donna albanese, poter riabbracciare i suoi due figli, ormai universitari. Non c’è invece quello di tornare in Albania, per la paura di subire ritorsioni gravi dal marito che l’ha sempre minacciata di morte. Il pensiero del fine pena, a febbraio, per lei è dolce ma anche carico di ansia verso il futuro.
Per Mary, 45enne romana, figlia unica di un membro della banda della Magliana, la vita è stata dura fin dall’infanzia: “Ricordo perquisizioni, arresti, poliziotti sempre in casa. A 16 anni ho commesso il mio primo reato, subito dopo ho iniziato con la tossicodipendenza”. La strada per lei è stata per anni la casa, che alternava alla prigione in un continuo entra-esci che ha inasprito la pena fino ad arrivare nel 2003 ad una condanna definitiva a 8 anni e mezzo. “Non basta una vita per imparare perché si nasce, certo i figli delle persone ‘bene’ hanno già un cammino segnato, in positivo, che noi non abbiamo avuto”.
È conoscendo la comunità di Sant’Egidio e i suoi volontari che questa spirale di inerzia si interrompe: “Mi sono disintossicata una volta per tutte un anno fa – racconta ancora Mary – ho visto persone, i volontari, che mi hanno accolta, voluta e amata per quello che sono, ed è per loro che ho deciso di diventare un’altra”. Ora vive una seconda vita, ha fondato un’associazione che si occupa di animali abbandonati, ha vissuto l’inferno di cinque carceri tra nord e centro Italia e dentro si porta un mondo di sofferenza, ma anche un tenace desiderio di serenità e una forte capacità di “vivere in empatia: in carcere era nel dolore, ora, in questa nuova vita, ho scoperto che si può vivere legati anche da sentimenti positivi”.
di Marta Ravagna
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