«Non ci sarà più guerra in Burundi». Parole che vanno prese con prudenza, ma che hanno un pese se a pronunciarle è un capo africano Pierre Nkurunziza, dal 2005 alla guida del piccolo Paese della regione dei Grandi Laghi per 15 anni teatro di una tra le guerre più crude. li, sanguinose (e dimenticate) del nostro tempo. Nkurunziza, quarantenne ed esponente di una nuova classe dirigente africana, è state uno dei protagonisti della guerra del Burundi e un elemento di spicco dei gruppi armati più radicali. Sentirlo parlare di pace è dunque il segnale che, anche negli angoli più martoriati dell'Africa, si stanno rimarginando ferite antiche. Se questo è possible lo si deve a mediatori come la comunità di S. Egidio e Nelson Mandela che, nella ricucitura di drammi come quelli del Burundi, hanno speso le loro fatiche.
Paese affacciato sul lago Tanganica, confinante con Congo e Ruanda è stato dilaniato dalla violenta lotta tra l'etnia maggioritaria hutu e quella minoritaria tutsi, che, per decenni ha controllato il potere e l'economia. Riuniti nel partito Frodebu, gli hutu, dopo decenni segnati da reciproche stragi (il paese è indipendente dal 1961) hanno eletto nel 1993 il presidente Melchior Ndadaye, assassinato dopo pochi mesi nel corso di un golpe. Da allora il Burundi ha conosciuto solo violenze. L'armata tutsi da una parte, la guerriglia dall'altra. Ora, dopo un tortuoso percorso di pace, i ribelli hanno deposto le armi, sono stati integrati nell'esercito ed è stato formato un governo di unità nazionale. Si tratta di equilibri precari e instabili, ma non si spara più. Nkurunziza è stato eletto nel 2005. Dunque, da quattro anni, il piccolo Burundi è un paese democratico, ha abolito la pena di morte, garantisce istruzione e sanità, anche se il tasso di mortalità infantile resta tra i più alti del mondo. Una commissione «per la verità e la riconciliazione», sul modello del Sudafrica, indagherà sul passato.
Fontana Toni
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