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3 Juin 2016

Reportage. Viaggio in un Paese che ha voglia di rialzare la testa

La primavera del Burkina Faso fiorisce sull'Ipad

Cresce un'élite cosmopolita di giovani che difende i valori del nuovo corso democratico. Nonostante le ferite dei recenti attentati terroristici e le contraddizioni di un Paese ancora troppo povero

 
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«Ha visto come lo abbiamo ridotto?». Abdullah ferma il furgone bianco e indica una facciata incenerita, porte e finestre divelte, macerie e vetri ovunque, carcasse d'auto nel cortile. «Eccolo il Parlamento del Burkina». A guardarlo sembra di sentire ancora l'eco degli scoppi, le urla, gli spari, le fiamme che bruciano, l'odore dei lacrimogeni. E sembra che la furia si sia scatenata da poco, invece sono passati due anni e mezzo dallo storico assalto ai palazzi del potere che ha portato alla caduta del padre padrone Blaise Compaoré, dopo 27 anni di dominio incontrastato.
Tutto è rimasto come lo aveva ridotto nell'ottobre del 2014 la rabbia (e l'orgoglio) di un popolo riuscito a stoppare il colpo di mano di un presidente intenzionato a far votare proprio da quell'Aula una modifica della Costituzione per garantirsi ancora l'ennesimo mandato (il quinto). Lo scheletro dell'Assemblée Nationale è rimasto qui a dire a tutti di cosa è stato capace questo "popolo integro", formato per oltre il 60% da giovani sotto il 25 anni. Un monumento a cielo aperto alla "primavera nera" del Burkina nel cuore della capitale, Ouagadougou. Un monito contro future derive autoritarie.
«Dovrebbe diventare un passaggio obbligato per i nuovi deputati per ricordare loro che sono in missione per conto del popolo e che se non lo fanno ... ecco cosa può succedere», va ripetendo Smockey, il rapper che con altri musicisti ha fondato il Balai citoyen, il "movimento delle scope" che ha spazzato via Compaoré. Proprio tra queste rovine ha scelto di lanciare il suo nuovo album un anno fa, mentre era in corso il festival Fespaco, il Cannes africano. «Un concerto memorabile: in questo cortile si respirava aria di vero cambiamento», ricorda ora Cleophas Dioma, suo compagno di scuola, noto in Italia perché organizza il festival "Ottobre africano". Era una sera di marzo, cinque mesi dopo la sollevazione popolare e sei prima dell'altro colpo di stato tentato dal generale Diendéré durante la transizione democratica e stoppato ancora una volta dal popolo.
«Tutto il Paese si è mobilitato, non solo la capitale», scandisce Dioma. E chiarisce cosa sia riuscito a cementare la coscienza politica di un Paese esteso come l'Italia con tassi di analfabetismo e povertà alti anche per i parametri africani, e forti disparità tra città e villaggi rurali, dove vivono 12 dei suoi 17 milioni di abitanti. «Da tempo Smockey e compagni avevano battuto ogni angolo del Paese con i loro concerti». Cantando «quand les peuples se mettent debout, les dictateurs tombent! Le pouvoir est dans la rue!», quando i popoli si alzano, i dittatori cadono! Il potere è in strada. La musica dunque, hip hop e reggae, intemet (si naviga pure in villaggi sperduti, pur se lentamente) e Thomas Sankara, naturalmente: il "Che Guevara africano", assassinato nel 1987 proprio su ordine di Compaoré (all'epoca suo vice), ha ispirato la generazione che lo ha fatto cadere. Arrivato al potere con un golpe nel 1983, aveva subito tagliato gli stipendi dei ministri e rimpiazzato le auto blu di stato con più modeste Renault 5. I suoi quattro anni di governo sono bastati per alimentare il mito.
«Alle manifestazioni che hanno preceduto la rivolta del 30 ottobre 2014 c'erano giovani che non avevano potuto vivere la rivoluzione di Sankara ma che si riconoscevano nei valori di giustizia e integrità portati avanti in quegli anni e si sono appropriati dei suoi messaggi. Il movimento Balai citoyen ha attinto all'icona di Sankara per galvanizzare i giovani burkinabé anche via Internet», racconta Léandre Guigma, architetto urbanista di 36 anni, nel suo studio aperto sette anni fa con la moglie Solange qui a Ouaga. College a Pechino, laurea in Togo e dottorato a Parigi, volontariato nelle carceri e studi sui "quartieri informali" (leggi bidonville) alla periferia della capitale, questo professionista che sorseggia Coca Cola e surfeggia sull'iPad ben rappresenta la nuova élite cosmopolita pronta a prendere in mano il destino del proprio Paese. «Sulle ceneri dell'Assemblea nazionale sarà costruito un museo vivente per conservare la memoria dell'insurrezione popolare del 30 e 31 ottobre», dice.
Al progetto, proposto da personalità della società civile, sta lavorando una archistar burkinabé residente a Berlino: Francis Kéré, che ha fatto del suo villaggio, Gando, a 200 chilometri da qui, il cantiere dove mischia quel che vede in Europa con saperi e materiali della sua terra. «Il progetto del museo è già stato approvato dal presidente del Parlamento, ma mancano i soldi», aggiunge Guigma. «Verrà aperta una sottoscrizione per permettere ai cittadini di contribuire. Anche all'ordine degli architetti stiamo valutando una forma di partecipazione collettiva. Nonostante le difficoltà, resistiamo e speriamo in un domani migliore, lottando ogni giorno sotto la canicola per onorare ciascuno i propri impegni. Come recita un detto locale: scoraggiarsi non è burkinabé».
La "Versailles tropicale". Eccolo il volto del Burkina che non s'arrende. i lavori fervono per poterlo riaprire al più presto. Al bar di fronte, invece, il tempo si è fermato: tutto è rimasto come dopo l'attacco. Gaetano Santomenna, il proprietario italo-libanese che quella maledetta sera ha perso moglie e figlio di 9 anni, «è ancora troppo provato per prendere qualunque decisione, ora non c'è, è via», dice un venditore ambulante piazzatosi con le sue cose proprio accanto all'entrata, adesso schermata da una staccionata. «Gli hanno chiesto di erigerla per nascondere il caos all'interno». Su di essa è comparso uno striscione con la scritta "je suis africain".
Adesso bisogna passare dal metal detector anche per andare a bersi un'acqua tonica al bar dell'hotel Laico di Ouaga 2000, il quartiere residenziale chic costruito 10 km a sud della capitale, dove si trova anche il palazzo presidenziale di Kosyam, la "Versailles tropicale", diversi ministeri, ville sontuose e l'ambasciata americana. L'albergo, imponente e lussuoso, è stato fatto costruire (come molti altri edifici qui) da Gheddafi alla fine degli anni 90: era il primo 5 stelle del Paese e si chiamava hotel Libya. Altri tempi.
Fino a gennaio il Burkina era riuscito ad evitare gli attacchi jihadisti che hanno colpito il Mali dal 2011. La convivenza pacifica tra islamici, cristiani e animisti è favorita dal fatto che i legami di sangue sono più forti dell'appartenenza religiosa. «Nella mia famiglia», ha detto l'arcivescovo cattolico della capitale, Philippe Ouedraogo «la maggioranza è musulmana, poi ci sono i cristiani e chi segue la religione tradizionale. Ci ritroviamo per gli avvenimenti felici e tristi». I matrimoni misti sono frequenti. Un melting pot che aiuta la convivenza della sessantina di gruppi etnici presenti nel Paese. La minaccia del terrore finora non sembra averla compromessa. E resiste pure la vitalità e l'effervescenza culturale. «La sera tutti cenano presto, e poi si esce per andare a un concerto, a bersi una birra, a passeggiare. Qui le donne musulmane non impegnate vanno in giro con il capo coperto, quelle sposate invece si scoprono», racconta Abdullah, autista musulmano di Ouaga, 35 anni, con due donne (una sposata, l'altra no) e due figlie.
«Rimettere il Paese in carreggiata dopo anni di instabilità», è l'obiettivo del presidente Roch Marc Christian Kaboré eletto a novembre nelle prime vere elezioni democratiche del Paese. Ci sta riuscendo? La crescita prevista per il 2016 è del 5,2% contro il 4,2% del 2015. «Non è sufficiente ma per gli choc che abbiamo subito le consideriamo delle buone performance», ha dichiarato l'altra settimana la ministra dell'Economia, che pure spera di ritornare ai valori del 6-7 % di un tempo. Certo gli effetti dell'anno di transizione politica continuano a farsi sentire. Molti cantieri sono stati aperti in quei mesi, ma con un mandato governativo così breve non sono più stati chiusi. Lo sa bene Guigma che ha come primo committente lo Stato. «Molte imprese non sono ancora state pagate, e a cascata ne patiscono tutti: produttori di materiali, trasportatori, progettisti, operai».
La disoccupazione resta altissima, un giovane su due è senza lavoro. Alexander si è laureato in diritto privato due anni fa e non ha ancora trovato un impiego: «Cerco di non abbattermi e di rendermi utile, mi dedico all'orientamento degli studenti in università e a questi bambini di strada», racconta durante il ritrovo settimanale con i volontari di Sant'Egidio su uno spiazzo del centro città.
Il presidente Kaboré ha invitato i giovani a non snobbare i campi. «Il problema è che qui c'è un'agricoltura di sussistenza, manca imprenditorialità», spiega Marco Alban, da nove anni in Burkina per la ong Lvia con progetti contro la povertà al fianco di associazioni contadine. L'80% degli abitanti sono agricoltori ma contribuiscono soltanto al 30-35% del Pil. «Il livello di indebitamento delle famiglie continua a crescere ( 40% dal 2008), per dare una svolta al settore agricolo e all'economia del Paese servirebbero investimenti stranieri», auspica questo cooperante di lungo corso.
La Farnesina ha ammesso le imprese private tra i soggetti della cooperazione internazionale. «Ma i finanziamenti e i prestiti agevolati disponibili per quanti vogliono investire qui risultano non utilizzati: un po' per mancanza d'informazione, un po' per paura», riferisce Alban. Sul piano sociale il nuovo governo burkinabé è partito con un programma ambizioso che introduce tra l'altro l'accesso gratuito ai servizi sanitari per i bambini sotto i 5 anni. «Una riforma da 30 miliardi di franchi, solo che le casse statali ne hanno a disposizione non più di 22. Per il resto contano sui fondi dei donatori internazionali».
Sfruttamento del sole. Tra i sei Paesi più poveri del mondo per sviluppo umano, il Burkina si sta dando un gran da fare per risalire dalle ultime posizioni nelle classifiche Onu per Pil, speranza di vita e alfabetizzazione. Sulla strada che dalla capitale va a ovest, verso la provincia di Sanguié, si va veloce ora che è asfaltata. Ci sono donne  e bambini che a 40 gradi pedalano verso la scuola o il mercato dei villaggi sperduti nella distesa di cespugli spinosi e alberi di karité. Li chiamano villaggi ma sono assembramenti di cascine distanti anche centinaia di metri l'una dall'altra. Sui tetti delle capanne di mattoni di argilla è tutto un pannello solare. Sprovvista di corrente elettrica, qui la gente sfrutta l'elemento che ha in abbondanza, il sole, per ricavare energia, utile anche per caricare i cellulari e rompere l'isolamento.
La voglia di alzare la testa trapela anche dalla grande adesione alla campagna "Bravo!" sulla registrazione anagrafica condotta in Burkina dalla Comunità di Sant'Egidio: dal 2009 sono stati portati a nuova vita tre milioni e mezzo di "invisibili": un quinto degli abitanti. Da fantasmi che erano, inesistenti per lo Stato, sono diventati cittadini con dei diritti: all'istruzione, alle cure, al lavoro, al microcredito, al voto. E per molti ha significato la differenza tra sopravvivere e vivere. Soltanto nella provincia di Sanguié sono stati registrati 35 mila bambini grazie a un progetto pilota con équipe mobili nelle scuole elementari. Il 26% degli scolari della provincia non avevano il certificato di nascita. Tra questi Marius. Solo al momento di iscriverlo a scuola nel piccolo villaggio di Didyr, i genitori hanno scoperto di dover andare all'ufficio di stato civile, ma a quel punto il certificato era a pagamento e loro, contadini con pochi mezzi, hanno lasciato perdere.
«Questo è uno dei motivi per cui 3 burkinabé su 4 sono analfabeti», spiega Mira Gianturco, coordinatrice di Bravo in Burkina Faso. Pochi mesi fa Marius ha visto arrivare nel suo villaggio l'équipe che registrava gratuitamente le nascite. Con i genitori e i suoi cinque fratelli ha potuto ricevere il certificato di nascita. «Ora vorremmo replicare l'esperienza in tutte le 45 province del Paese», dice Gianturco. Intanto nell'ottica di anticipare ulteriormente il momento della registrazione anagrafica, sempre nel Sanguié sono stati coinvolti i centri maternità: in alcuni villaggi, accanto alla sala parto è stato allestito un ufficio che rilascia l'atto di nascita. Così si viene al mondo da cittadini. La giovane democrazia del Paese avanza anche così.


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