Nel 1989 uno sparuto gruppo di studenti del Petrarca, accomunati dal desiderio di fare qualcosa per la propria città seguendo l'esempio del Vangelo, diede vita a un primo doposcuola multiculturale nel rione di Valmaura. Nacque così, da un piccolo seme, la Comunità di Sant'Egidio di Trieste. Passati 25 anni, i liceali sono diventati adulti e hanno messo su famiglia, e la comunità si è allargata esponenzialmente, estendendo il suo impegno al mondo degli anziani, con iniziative volte alla domiciliarità e alla cittadinanza attiva; degli stranieri, con una scuola di lingua e cultura italiana; dei senza fissa dimora, con la distribuzione di vivande, coperte e abiti nei pressi della stazione ferroviaria; e della lotta contro l'emarginazione. A occuparsi di tutto questo è una cinquantina di volontari di tutte le età, dai 18 ai 75 anni, coordinati dal presidente Paolo Parisini. Tra loro anche quel gruppo di ex liceali da cui nacque la comunità. Dice una di loro, Valentina Colautti: «Mai avremmo pensato che la nostra vita sarebbe stata così segnata da quel primo incontro tra ragazzi».
Per tutti i membri della Comunità l'appuntamento per festeggiare l'importante traguardo dei 25 anni sarà oggi alle 18.30, alla chiesa di San Giacomo, con la messa celebrata dal vescovo Giampaolo Crepaldi. «Nel 1989, quando da studenti decidemmo di avviare la Comunità racconta Emanuela Pascucci, che si occupa ormai da 25 anni della Scuola per la Pace partimmo dall'insegnamento di Gesù, che ci chiede di stare in mezzo ai più poveri. Ci recammo in periferia, a Valmaura, un rione di cui non conoscevamo nulla. Avevo 17 anni e arrivata al capolinea della 10 scoprii i casermoni delle case popolari. Lì la popolazione era composta da tante famiglie provenienti dal sud Italia: la Ferriera dava lavoro ai padri e le madri allevavano i figli, spesso numerosi. Nel rione non mancavano problemi di droga, alcolismo e microcriminalità. Capimmo subito che avremmo potuto aiutare le famiglie stando vicini ai bambini, così decidemmo di avviare in parrocchia un doposcuola, che chiamammo scuola popolare. Il doposcuola si allargò e facemmo amicizia anche con i genitori: entravamo nelle case un po' come amici di famiglia. Da una decina i bimbi divennero presto una quarantina».
Poi, nel 2000, la svolta: la situazione era cambiata e all'immigrazione dal Sud dell'Italia si sostituì quella globale, con l'arrivo a Trieste di un gran numero di stranieri e la crescita, soprattutto dopo l'11 settembre 2001, del sentimento di paura nei loro confronti. «Facemmo una riflessione prosegue Emanuela e decidemmo di cambiare lavoro e nome. Diventammo la Scuola della Pace, con l'intenzione di lavorare per l'integrazione e l'educazione alla pace con bambini italiani e stranieri, che sarebbero così cresciuti assieme». Di lì a poco, il trasferimento in Largo Barriera: «Cinque anni fa lasciammo Valmaura, dove nel frattempo erano stati creati molti servizi, dai portierati sociali alle cooperative, per spostarci in via Matteotti 12, nella parrocchia di Santa Teresa, accolti da don Paolo. In questa zona, la "Balkan city", trovammo un mondo di stranieri: oggi su 54 iscritti al doposcuola i bimbi italiani sono solo sei. Gli altri bimbi vengono dai Paesi dei Balcani, ma anche da Turchia, Egitto, Marocco, Tunisia, Algeria, Cina».
La Scuola della Pace ha aperto le porte anche ai piccoli malati in cura al Burlo, per restituire loro quella dimensione relazionale che in corsia è difficile da sviluppare. Tutto va avanti grazie al prezioso lavoro dei volontari che, spiega Emanuela, sono una ventina, tutti studenti delle superiori e dell'Università.
Giulia Basso