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10 Aprile 2016

Lesbo e i «corridoi»: gesti comuni dei cristiani

L'ecumenismo dell'accoglienza

 
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II peso delle lacrime. Le ragioni del cuore. La decisione del Papa di andare a Lesbo, ad incontrare i migranti parcheggiati dalla disperazione e dalla paura sull'isola greca, è una chiara denuncia dell'incapacità europea di governare un'emergenza diventata tragica quotidianità. Un grido di dolore contro l'indifferenza del ricco Occidente verso ciò che accade nel Mediterraneo e nel mar Egeo diventati, per citare la preghiera del Venerdì Santo, "insaziabili cimiteri".
Soprattutto, è un richiamo al cuore del Vangelo, interpella la ragione stessa dell'essere uomini, persone. Il viaggio, allora, non potrà che essere un pellegrinaggio condiviso da chi, pur nelle differenze, si riconosce nello stesso Cristo, nei medesimi principi di solidarietà e di attenzione all'altro, soprattutto se povero e abbandonato. Non sarà solo un gesto simbolico il mostrarsi insieme di papa Francesco, del patriarca ecumenico Bartolomeo I e dell'arcivescovo ortodosso di Atene Hieronimus II. Nessuna, seppur nobile, passerella nei discorsi di sabato prossimo, ma la chiara consapevolezza che di fronte a una politica preoccupata soltanto di blindare i propri confini, la coscienza del credente non può più tacere. E se è vero che servono analisi, confronti, ancora più necessaria è la forza della testimonianza, parola che ha la stessa radice di martirio, estremo dono di chi ancora oggi, cacciato dalla propria terra, perseguitato per il suo credo, ha il coraggio di confessare Gesù fino al momento della morte.
Alla paura che traccia fili spinati alle porte d'ingresso, che alza muri nel cuore dell'Occidente, che adotta il credo dei respingimenti, i cristiani, pur senza rinnegare le ragioni della sicurezza e della legalità, rispondono con la difesa dei diritti dei più deboli, con la logica della protezione umanitaria. È il principio evangelico dell'ospitalità, è l'ecumenismo dell'accoglienza. Quello che, grazie alla collaborazione tra la Comunità di Sant'Egidio e la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) ha avviato il progetto dei "corridoi umanitari" con il previsto arrivo in Italia, nell'arco di due anni, di mille profughi dal Libano, per lo più siriani in fuga dalla guerra, dal Marocco, tappa di chi parte dai Paesi subsahariani, dall'Etiopia crocevia della speranza anche per eritrei, somali e sudanesi.
Non iniziative velleitarie quindi, ma gesti concreti. Come i territori rinati grazie al contributo dei migranti, come le strutture religiose trasformate in case per chi non ha più niente. Come gli uomini e le donne che il Papa e Bartolomeo incontreranno a Lesbo, persone in fuga da una terra che non sa trattenerle verso Paesi che le rifiutano. L'isola greca come Lampedusa allora, meta del primo viaggio di Francesco, come Ciudad Juàrez terra di confine, piagata dalla violenza, tra il Messico dei migranti in fuga e gli Stati Uniti aurea e spesso irraggiungibile "meta".
Luoghi tragicamente simbolici, punti cardinali di un triangolo disegnato dalla disperazione, spine conficcate nella carne viva dell'umanità, stazioni di una Via Crucis infinita. Un pellegrinaggio della disperazione che va misurato non in numeri, in cifre, in statistiche, ma in nomi e cognomi, in storie vere. «L'attuale ondata migratoria - ha detto il Papa lo scorso 11 gennaio - sembra minare le basi di quello "spirito umanistico" che l'Europa da sempre ama e difende». L'iniziativa di Lesbo - ha sottolineato il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli annunciando il viaggio - «sosterrà e rafforzerà le migliaia di profughi provati e spingerà l'assunzione di iniziative idonee per proteggere le particolari comunità cristiane e per affrontare correttamente la questione di massima importanza dei profughi».
Toni diversi, vocaboli differenti per esprimere una comune consapevolezza, che cioè non ci si può permettere - sono ancora parole di Francesco - di perdere i valori e i princìpi di umanità, di rispetto per la dignità di ogni persona, di sussidiarietà e di solidarietà reciproca, «quantunque possano costituire un fardello difficile da portare». Non sono ingenui sognatori il Papa e il Patriarca, né utopici idealisti. Sanno che per arginare l'emergenza migratoria, per trasformare il problema in risorsa, bisognerà ritrovare il senso di una politica alta, non più ostaggio di facili slogan, ma capace di mettere al centro la persona. Per questo occorre più che mai una spinta dal basso, si deve riscoprire la compassione, è necessario reimparare a commuoversi.
A Lampedusa prima, a Ciudad Juarez poi, ma anche a Manila e in molte altre occasioni, papa Francesco ha invocato con forza il «dono», la «grazia» delle lacrime. Che non sono un segno di resa o di disperazione, ma collirio per purificare lo sguardo, chiavi per aprire la strada del cambiamento, medicine per ammorbidire il cuore. Fili d'argento con cui chiudere le ferite aperte dell'umanità che sanguina
.


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