| 20 Febbraio 2018 |
La Comunità, nei volti, nei luoghi |
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Non si può arrivare a destinazione in macchina, mi spiega il taxista: a un certo punto del vicolo che abbiamo imboccato ci sono dei rialzi pedonali che fungono da dissuasori per chi volesse invadere con marmitte strombazzanti la piazza in cui sorge Santa Maria in Trastevere. Scendo e procedo a piedi, tastando con le scarpe i sampietrini ora sporgenti ora infossati: la stradina mi sembra un torrentello di pietra che scende lievemente a riversarsi in un lago. Sbocco nella grande piazza, procedo ancora un po’, oltrepasso la basilica, lasciandomela alla mia sinistra, poi giro a destra, entrando in uno slargo. L’attraverso in obliquo. Raggiungo il portone della Comunità.
Non suono il campanello, perché mi sembra sia ancora un po’ prestino, anche se il sole primaverile già splende e illumina i tetti. Mi limito a scrivere un sms sul cellulare. Un attimo dopo la risposta: «Arrivo subito». Mezzo minuto ancora e al portone serrato si sostituisce il sorriso di Adriana. Un saluto sbrigativo e, perciò, efficacemente accogliente per chi alle sei del mattino ha preso il primo volo da Catania. Adriana mi accompagna nel posto dove potrò essere ospitato: un piccolo appartamento, su un lato di Santa Maria. Ho a disposizione un’ora, per rinfrescarmi, per servirmi di latte e caffè, per assaporare una torta di mele, per tirare fuori dalla valigia carta e penna.
È questo il primo approccio con la realtà che mi accingo a conoscere dal di dentro: avviene di buon’ora, ma con calma, incontrando chi punta – senza lungaggini di formale cortesia – a venirmi incontro nelle mie reali esigenze, anche se queste possono essere inevidenti e semplici, come il bisogno di un po’ di riposo, di un minimo di ristoro, in un luogo riservato, in cui venga spontaneo ambientarsi, come se si fosse a casa propria. Adriana, dandosi il cambio con don Angelo, mi accompagnerà ancora – nei quattro giorni in cui starò qui – a far visita agli avamposti della Comunità di Sant’Egidio, sparsi un po’ per tutta Roma.
Guidato da lei o da don Angelo, vedrò la mensa dei poveri in via Dandolo, allestita dentro l’immobile che negli anni Settanta del secolo scorso ospitava la redazione di Lotta Continua e dove ora ci sono – oltre che il refettorio e una grande cucina – le postazioni del “telefono amico” della Comunità, a cui chi si trova in difficoltà può indirizzare le sue segnalazioni o richieste d’aiuto. E – ancora – la sala di smistamento e di distribuzione della posta che arriva da ogni angolo del mondo per migliaia di senza fissa dimora e di immigrati: un altro servizio – questo – prezioso non meno del pane quotidiano, per tanti ultimo appiglio per non scivolare nell’abisso dell’anonimato totale, perché permette loro di essere raggiunti dalle lettere dei familiari o degli amici lontani, e dalle comunicazioni sanitarie, e dai sussidi comunali e dagli uffici dell’anagrafe. Lì, un professore universitario – Augusto – distribuisce i pasti della sera ed Ezio, con molti altri, organizza la scuola di lingua italiana per porre le basi di una reale integrazione per quella folla di persone straniere in cerca di una nuova patria.
Vedrò anche la casa di via Anicia, dove al pianterreno funzionano a pieno ritmo gli ambulatori per le cure mediche da dedicare a profughi e a rom, non meno che a senza tetto d’ogni nazionalità, mentre nel retro ci sono le docce e i guardaroba per rivestirli – non solo di biancheria intima e di vestiti puliti, ma anche di un manto di dignità umana – e al piano superiore sono ospitati i malati terminali senza dimora propria, che altrimenti non avrebbero modo di ricevere le cure di cui hanno quotidianamente bisogno. Lì dentro vedrò Luisa che fruisce della dialisi, Antonio che è affetto dal morbo di Huntington, Giorgio che è sieropositivo ed Elio che si prende cura di loro. Lì vedrò anche Paolo, che quando non tiene lezione di diritto all’università, corre a far da consulente legale ai barboni. E vedrò Daniela, che è la responsabile del servizio per i migranti e che lavora al progetto dei corridoi umanitari. Vedrò Sandro, che quando smette di fare lezione a Tor Vergata, si mette a far visite mediche in quegli ambulatori, assieme a Giusi, già medico di bordo sulle navi di Mare nostrum, che l’affianca quando non è in servizio al Ministero della Salute.
E seppure qualche tempo fa avevo già visitato le strutture di Sant’Egidio nell’ex ospedale San Gallicano – con il Centro Dream, dove si elabora e si coordina il programma di lotta all’Aids in undici paesi africani e per almeno 500.000 ammalati – di nuovo rivedrò quegli ambienti, in cui è attiva anche una straordinaria scuola di lingua e di cultura italiana, che con i suoi laboratori linguistici e informatici si propone come luogo di formazione per bambini, giovani e adulti: con la lingua italiana viene loro insegnata anche la grammatica della pace e la logica della giustizia.
Massimo Naro
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