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20 Setembro 2016

Il presidente

«In Centrafrica Francesco ha riconciliato»

«Mai la fede sia arma di scontro». Il presidente centrafricano: dal Papa il via alla riconciliazione

 
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Il simbolo del domani in Repubblica Centrafricana è il "cantiere Lakuanga". Situato alla periferia di Bangui, è un brulicare confuso di attrezzi, mani e braccia. Appartenenti a persone di differenti comunità, cristiane e islamiche. Intente, insieme, a ricostruire la grande moschea, distrutta nei giorni più drammatici del conflitto che, per oltre tre anni, dal 2013, ha insanguinato uno dei Paesi più poveri d'Africa.
Oltre un milione di sfollati, 5.700 morti solo tra 2013 e 2014 sono alcune delle cifre più drammatiche di una guerra dimenticata. Resa ancor più crudele dal tentativo di strumentalizzare la differenza religiosa - fra cristiani (la maggioranza) e gli islamici (circa il 10 per cento) -per alimentare gli scontri. Con la costituzione di milizie contrapposte: seleka, in gran parte formate da musulmani, e anti-balaka, perlopiù composte da cristiani e animisti. Dal 2016, però, il Centrafrica sta provando a voltare pagina. Emancipandosi dalla prigionia della «terza guerra mondiale a pezzi», più volte citata da papa Francesco.
«Forze oscure hanno cercato di rendere la religione un'arma di scontro. Il mio popolo, però, dopo momenti di grande difficoltà, è riuscito a non cadere nella trappola. A capire che la pluralità di fedi è parte del nostro Dna di nazione». Ne è convinto Faustin-Archange Touadéra, presidente eletto lo scorso febbraio 2016. Il voto - fortemente voluto dalla comunità internazionale - ha inaugurato il dopo-guerra e avviato il faticoso processo di stabilizzazione e riconciliazione. Di cui Toudéra, di religione cristiana, s'è fatto garante. «La strada è lunga. Ma la gente ha la ferma volontà di percorrerla», racconta il leader ad Avvenire al termine del suo intervento all'assemblea inaugurale di "Sete di pace. Religioni e culture in dialogo", in corso fino ad oggi ad Assisi.
L'evento - organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio, dalla diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e dalle Famiglie Francescane a trent'anni dallo storico incontro voluto da San Giovanni Paolo II - riunisce 511 leader delle religioni mondiali, esponenti del mondo della cultura credenti e non. Uniti da una comune "sete di pace". E dalla volontà di edificarla. Il Centrafrica, che su tale impegno sta costruendo il suo futuro, dunque, non poteva mancare. «Lakuanga è la dimostrazione che possiamo farcela. Là, islamici hanno cominciato a riparare la moschea. E i cristiani hanno voluto dare loro una mano. Altrove è accaduto il contrario: i musulmani stanno contribuendo alla riedificazione delle chiese. Ci sono decine di casi. Sono questi i segni più autentici della ricostruzione nazionale.
«Perché -prosegue Touadera - dove c'è un luogo di culto si può pregare e dove si prega sboccia la pace».
Con questo spirito, papa Francesco ha scelto di visitare la nazione, il 29 novembre scorso. Nella capitale, il Pontefice ha spalancato la Porta Santa, anticipando l'inizio dell'Anno della Misericordia. «Con il suo gesto forte, la sua presenza, la scelta di incontrare i giovani islamici nella grande moschea, il Papa ha demistificato l'inganno di quanti volevano strumentalizzare la religione per giustificare la violenza. Il viaggio di Francesco ha segnato uno spartiacque tra la guerra e un futuro di riconciliazione possibile», sottolinea il presidente. Certo, la pace in Centrafrica è ancora fragile. «Abbiamo necessità del sostegno internazionale. Durante il conflitto, in tanti - in primis Sant'Egidio il cui aiuto, nel pieno della bufera, è stato fondamentale - ci sono stati accanto. Ora è importante che il mondo non ci lasci soli».
La cooperazione - pubblica e privata- gioca un ruolo cruciale nel sostenere la stabilizzazione. Non a caso, il presidente ha voluto incontrare ad Assisi l'associazione "Amici per il Centrafrica - Carla Pagani", impegnata nel Paese dal 2001 con progetti sanitari e educativi. E ha ringraziato l'Italia. «La scelta di aprire, ad ottobre, per la prima volta, un ufficio di cooperazione a Bangui è un segnale di speranza».


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