Adesso Riad gioca con i fiori, un petalo dopo l'altro, e ne fa un mazzetto che spiaccica sulla panchina. Ha due anni e questa notte ha dormito senza svegliarsi, per la prima volta da due mesi, nella casa azzurra davanti alla basilica di Santa Maria in Trastevere, nel lettone in mezzo a mamma e papà. Masa lo rimprovera in arabo e lui mette su una faccia che ti raccomando. Masa ha otto anni e mentre saliva la scaletta dell'aereo del Papa, ha guardato dritta negli occhi la madre: «Oggi torniamo a casa?». Riad, Masa, Omar, che di anni ne ha sei, e Kudus, sette, sono i più piccoli. Gli altri due, Rashid e Abdalmajid, sono più grandi e si rammaricano di non poter finire quest'anno la scuola. Soprattutto Rashid, che a Damasco ha lasciato un diploma all'ultimo anno. Nessuno si conosceva tra loro, stravolti nei campi dei disperati dell'isola di Lesbo.
Sono tre famiglie, genitori e bambini, portati da Francesco, il primo capo di Stato di un Paese europeo ad aver aperto un corridoio umanitario per i profughi siriani. Finora il corridoio umanitario è stato un'iniziativa della Comunità di Sant'Egidio e dei protestanti italiani. Da sabato 16 aprile, la frontiera blindata del Mediterraneo e il filo spinato steso dall'Europa, con l'accordo scellerato tra l'Unione e la Turchia, sono stati tagliati da Jorge Mario Bergoglio, e in mezzo c'è passato il suo aereo con a bordo Hasan e Nour assieme al piccolo Riad, Osama e Wafaa con i due figli Masa e Omar, e, infine, Ramy e Suhila unitamente a Abdalmajid, Rashid e Kudus.
Sta qui il valore politico del gesto del Papa, che non è affatto simbolico, ma tremendamente concreto. Adesso loro raccontano nel cortile della scuola di italiano della Comunità di Sant'Egidio, a cui Francesco ha chiesto di occuparsi della prima accoglienza in attesa di una casa in Vaticano, la tragedia alle spalle e lo stupore dell'accoglienza. Nour, microbiologa, 31 anni, dice d'un soffio in francese: «Siamo musulmani, ma nessun uomo religioso islamico, nessun presidente arabo ha fatto come il Papa, ha sentito la nostra sofferenza, è andato a vedere e ha aperto le porte di casa sua». Lo ripete da giorni. Stessa frase. Lo dice in arabo e in francese alle televisioni.
Suo marito, Hasan, ingegnere agrario, lo fa in inglese. Parole scandite davanti alle telecamere di tutto il mondo, perché sia chiaro che la sofferenza non ha colore, né etnia, né religione: «Ma il Papa è l'unico ad averlo capito». Questo ripetono come una cantilena che inchioda la coscienza del mondo anche Osama e Wafaa, tipografo lui e parrucchiera lei a Damasco, finché una bomba non ha centrato la loro casa: «La pace non ha religione».
Ramy, 51 anni, insegnante, e Suhila, 49 anni, impiegata in una sartoria hanno ancora negli occhi la brutalità dei miliziani del califfo nero. Vengono da Deir Azzor, una cittadina a sud di Damasco occupata dall'Isis e purificata con la violenza: «Hanno fatto esplodere le case, terrore puro nelle strade. In poche ore ci siamo trovati senza nulla». Il destino comune è una strada senza orizzonte, soldi passati di mano, ore e ore sul cassone di un camion verso la frontiera turca, in mezzo all'orrore con la paura di essere presi e uccisi, lì, sul ciglio polveroso di una pista perché il tuo velo lascia scoperta una ciocca di capelli, perché un bambino piange, perché il tuo sguardo è troppo diretto e sostiene quello del miliziano con la fusciacca nera.
Nour e Hasan un giorno erano dagli amici a Damasco, capriole di normalità, mentre cadevano le bombe e aerei s'incrociavano in cielo, Mig russi e siriani. Racconta con pazienza: «Sono venuti di corsa a chiamarci, della casa non rimaneva nulla; solo noi, vivi». Continua Hasan: «Ho cercato una via legale per l'estero. Ma non c'era che il camion, quello del trasporto del bestiame, un pertugio per l'aria in alto, e Riad che piangeva sempre. Quindici ore di paura, posti di blocco, un miliziano che mi urla perché Nour aveva l'impermeabile sopra il velo, burka non formale. Basta poco per finire con la gola tagliata».
Il racconto si ripete uguale per tutti: sempre un camion, sempre soldi, sempre il terrore che non ti abbandona. Fino a Smirne, fino alla costa dei pirati, gommoni in fila pronti a traversare il mare, sgonfi, sempre troppo affollati, motori precari, singulti di eliche che forzano l'onda. Quello di Nour si blocca in mezzo al mare, due ore alla deriva con l'angoscia che quella barca che si accosta fosse turca e allora devi ricominciare tutto daccapo: «Invece era greca». Ma la salvezza è un campo da incubo, tende leggere, pianto e freddo, file per i documenti e un timbro, finalmente.
Poi arriva venerdì 15 aprile. Del Papa non sapevano nulla, troppo impegnati a sopravvivere tra cibo scarso e speranza zero. Racconta Hasan: «Eravamo andati in centro a Lesbo a comprare qualcosa. Al ritorno Stavos, il responsabile del campo di Karatepe, ci ha detto che era venuto qualcuno e aveva scelto tre famiglie». Erano le dieci della sera. Gli emissari di Sant'Egidio avevano fatto l'impresa
Alberto Bobbio
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