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Травень 4 2013

«Ora non ci sono più scuse per l'Occidente»

Intervista a Mario Giro

 
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ROMA. La guerra in Somalia ha oscurato la tragedia di un popolo. Ora la comunità internazionale non ha più giustificazioni. E l'Italia deve cogliere le opportunità di un Paese che si apre allo sviluppo: grazie a una cooperazione pubblica che può contare su nuovi fondi, e ad aziende italiane pronte a portare il loro know how. Alla vigilia della Conferenza sulla Somalia (a Londra la prossima  settimana) il sottosegretario agli Esteri Mario Giro - già  consigliere per la Cooperazione dell'ex ministro Andrea Riccardi, e responsabile per le relazioni internazionali della Comunità di  Sant'Egidio - traccia la rotta dell'impegno italiano per il Corno d'Africa. «È una tragedia del silenzio. La Somalia sta uscendo dal buio di decenni di guerra, di cui solo ora vediamo le conseguenze. Violenze e carestie hanno causato una carneficina che poteva essere fermata prima, ma le armi e la crisi politica hanno coperto tutto. Questo oggi ci deve far impegnare ancora di più per la rinascita di un Paese che dal '92 è  finito in un cono d'ombra. Le conseguenze della guerra saranno terribili. E a pagarle è sempre la povera gente».

Ma la guerra può  bastare a giustificare l'inazione dell'Europa nei confronti di  questa tragedia? 
No. Linazione è stata quasi una costante di questi anni. Anzi, io parlerei più di un agitarsi  senza risultati. La comunità internazionale si è dimenticata, a fasi alterne, di questo problema. Tra i somali stessi, poi, c'è chi  ha fatto la sua parte, soprattutto i  signori della guerra. Tutto ciò ha portato a un certo punto all'assuefazione: una grave tentazione, per noi occidentali, quella di abituarsi anche alle tragedie, che "non fanno più notizia". Quando si faranno i conti reali della lunga guerra somala, ci troveremo di fronte a una vera catastrofe. Una guerra non viene mai senza conseguenze pesantissime, che distorcono l'animo di un popolo. Violenze che uccidono tanto. E uccidono a lungo.

C'è un motivo per questo silenzio? La mancanza di interessi forti?
Non credo ce ne  sia stato solo uno, le ragioni sono tante così come le complicazioni oggettive. C'è semprestata una  grande volontà di"fare" per la Somalia, soprattutto da parte dell'Italia.  Il problema è che non basta la volontà di un Paese: le soluzioni devono essere globali per una crisi come quella. Poi ci si sono aggiunti tanti fenomeni. Pensiamo  alla pirateria.

Ecco, a volte sembra che l'Occidente abbia guardato con preoccupazione in Africa più al terrorismo, che minacciava i suoi interessi, che ad altre emergenze.
Il terrorismo è una cartina di tornasole che allarma facilmente la comunità internazionale. Se comunque allarghiamo lo sguardo dalla Somalia vediamo che nonostante i diversi teatri di crisi, come nel Kivu in Congo, c'è  un Continente che cambia, che è entrato nella globalizzazione, che cresce. Anche in Somalia ci sono notizie positive, vedi la ricostruzione a Mogadiscio. È un quadro in chiaroscuro. È l'unico Continente che non ha sofferto - forse insieme all'America Latina - la crisi finanziaria dal 2007 a oggi, continuando a crescere del 5-8% l'anno. È che a volte manca una massa critica di impegno internazionale. 

E l'appuntamento della Conferenza sulla Somalia, martedì a Londra, porterà risultati concreti?
Io  penso che questo sia sicuramente il momento  opportuno per sostenere la volontà somala di uscirne veramente e definitivamente. Perché c'è anche chi di guerra ci vive. Naturalmente chi paga è sempre la popolazione.

A proposito di povertà: ci può essere, nonostante le esigenze di bilancio, una ripresa della Cooperazione italiana allo sviluppo in Africa, dopo anni di tagli?
Quest'anno i fondi sono aumentati di 100 milioni grazie all'attività del ministro Andrea Riccardi, nel passato governo. Chi avrà la responsabilità della Cooperazione italiana ora potrà contare su questo aumento. È un'inversione di tendenza che ora noi dovremmo confermare. Alla cooperazione a dono bilaterale, fra l'altro, andrà la parte più consistente: c'è stata una programmazione per tipologia di spesa, di intervento ai area geografica. Ed è una novità che ci permette di guardare  più lontano: nella cooperazione le cose vanno costruite nel tempo, non bastano "interventi spot". Ciò che ha reso debole la nostra cooperazione è stata l'incertezza sui fondi disponibili da un anno all'altro.

Ma l'Italia può interpretare un ruolo guida nei tavoli per lo sviluppo della Somalia? 
L'Italia è sempre stata molto ascoltata sulla Somalia. Con le idee potremo far valere questa nostra influenza ai tavoli internazionali. Io credo che per la Somalia possa arrivare il momento del cambiamento. C'è fra l'altro tutto un settore privato pronto a lasciarsi coinvolgere. Il tentativo deve essere quello di fare sinergia tral'impegno pubblico , naturalmente prioritario, e quello privato. Dobbiamo fare sistema, come fanno altri Paesi. Noi abbiamo bisogno di crescita e in Africa il modello della piccola e media impresa italiana è molto ricercato. Noi abbiamo il know how che gli africani ricercano. E l'Italia non ha un profilo minaccioso, l'ideale per creare partnership  politiche ed economiche. Anche grazie alle  tante esperienze di cooperazione dei territori.


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