«Sant’Egidio ha svolto una iniziativa di pedagogia civile, nel mondo e nel nostro Paese che ha bisogno di solidarietà, di sentirsi comunità, di avvertire i vincoli che tengono insieme e non che separano e fanno guardare con diffidenza e ostilità. Vi è una quantità di povertà diverse da affrontare e questa Comunità ha accompagnato il Paese intervenendo attivamente, lenendo ferite». Sono parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il mezzo secolo della Comunità fondata a Roma da Andrea Riccardi e da altri ragazzi nel 1968.
In questa storia lunga mezzo secolo, non ci sono solo i bilanci sorprendenti (60.000 aderenti attivi in 73 Paesi, tra questi 29 solo in Africa). C’è il ritratto di quell’Italia poco rumorosa ma attivissima, capace di ritrovarsi intorno a un progetto, di organizzarsi e di lavorare. Metodo ottimo per tante piccole industrie o per recenti Startup. Ma che ha funzionato magnificamente per Sant’Egidio che ha indirizzato la sua energia in tanti e diversi campi: i centri per anziani, le case alloggio per i malati cronici e i senza fissa dimora, le famose mense per i poveri, gli ambulatori medici per gli immigrati o per chi soffre di disagi psichici, le scuole pomeridiane per i bambini, le case famiglia per adolescenti in difficoltà, i centri di prevenzione e cura dell’Aids, l’assistenza ai detenuti, le scuole di lingua e cultura italiana per gli stranieri, le adozioni a distanza. Tutto questo in Italia e nel mondo. E si potrebbe continuare.
Ieri pomeriggio a Roma, nella sede di Trastevere, il capo dello Stato Sergio Mattarella ha voluto incontrare i vertici dell’associazione insieme ad anziani, persone con disabilità, alcuni senza dimora, profughi arrivati in Italia con i corridoi umanitari. È il «popolo di sant’Egidio», la ragion d’essere della Comunità nata dall’intuizione di Andrea Riccardi e del suo gruppo cinquant’anni fa. Tutto cominciò nel 1968, in parallelo con «il Sessantotto» politico e studentesco: stesso fondale di partenza ma diverse sintesi finali. Il cinico scetticismo che attraversa le nostre esistenze, rendendole impermeabili ai sentimenti e agli ideali, spesso ci impedisce di «vedere» ciò che di straordinario accade accanto a noi. Per esempio le scelte di vita altrui che migliorano la nostra, semplicemente perché la riguardano: in una città si vive meglio, se qualcuno si prende cura degli anziani, dei senza casa o degli immigrati.
Ma nel bilancio di mezzo secolo, non c’è solo l’attenzione ai margini. Sant’Egidio si è conquistata anche un posto sulla scena internazionale dei conflitti, nel segno della pace (Mattarella ha parlato ieri di una «vocazione glocal» della Comunità). Il primo successo fu, nel 1992, l’accordo di Roma per la fine della guerra civile in Mozambico. Poi il patto di pace per il Guatemala nel 1996 e nel 1997 l’intesa per le prime elezioni in Albania dopo lunga anarchia, nel 2010 l’accordo per la democrazia in Guinea. Ora la chiamano l’Onu di Trastevere perché la Comunità è diventata un punto di riferimento internazionale per quella diplomazia parallela che preferisce la sostanza di un confronto aperto alle freddezze dell’ufficialità e del protocollo.
Altro capitolo, il dialogo tra le religioni. Un esempio per tutti, la ricorrenza della razzia nazista nell’antico Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 ogni anno è ricordata con una fiaccolata che riunisce insieme Sant’Egidio e la Comunità Ebraica di Roma. E poi la battaglia contro la pena di morte. C’è la Fede, naturalmente, la preghiera e il richiamo al Vangelo cristiano. Ma la caratteristica di sant’Egidio è non confondere il proselitismo con le attività sociali. Chi è assistito, non ha obblighi di alcun tipo. Meno che mai confessionali: quella è materia che riguarda i membri della Comunità. Un approccio, è il caso di dirlo, modernamente «laico». E anche questo va riconosciuto, nel bilancio.
Paolo Conti
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