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7 Septembre 2009 16:30 | Hotel de Ville de Cracovie – Salle B

Contributo



Marco Gnavi


Communauté de Sant’Egidio, Italie

Premessa: il tema della pena di morte non appartiene alle organizzazioni esperte di diritti umani, perché è un tema radicalmente connesso alla vita, alla vita di tutti e alla giustizia che dovrebbe tutelarci e di cui vogliamo godere. E’ un aspetto – non l’unico – della battaglia fra la morte e la cultura che la sostiene e dall’altra parte le ragioni dell’umanità, della fiducia in essa, della sua capacità di proteggersi attraverso il diritto, la parola, la pena riabilitativa. La sua presenza negli ordinamenti penali, e ancor più nel pensiero corrente o nelle pulsioni spaventate o aggressive di chi la invoca come garanzia di sicurezza, rivela in realtà una debolezza. Uno stato che utilizzi la pena capitale, è uno stato fragile che non fonda la forza del diritto sul consenso, ma utilizza l’arma pericolosa e incerta della paura.


Discutiamo di pena di morte a Cracovia, non lontano da Auschwitz e Birkenau: abisso del male, dove ha regnato l’orrore. Lo facciamo in Polonia, dove la guerra ha mietuto innumerevoli vittime. In guerra il male è sempre libero e qui è giunto alle sue espressioni più feroci e impensabili. La guerra non è mai “ordinaria” e autorizza sempre il dominio della morte, di cui anche le esecuzioni sono prassi consolidata. Se vogliamo, la pena capitale è una sanzione inflitta dallo stato che, attraverso di essa, mostra di essere in guerra contro un nemico. Ma proprio nel 1989, quando noi ci raccoglievamo a Varsavia a 50 anni dallo scoppio della II guerra mondiale, si stipulava un trattato internazionale noto come Secondo Protocollo Opzionale al Patto dei Diritti Civili e Politici, che così recita: “Nessuna persona soggetta alla giurisdizione di uno Stato Parte del Protocollo può essere giustiziata. Ogni Stato Parte adotta le misure per l’abolizione”. Forse non è un caso: per noi e non solo per noi, rifiuto della guerra e rifiuto della pena di morte sono così intrecciate l’una all’altra. Se il percorso verso l’abolizione della pena di morte ha radici lontane e rimanda a Cesare Beccaria, esso ha conosciuto uno sviluppo che in larga parte coincide con il secondo dopoguerra, scaturendo dalla volontà di edificare un’Europa pacificata e civile, fino a farne poi un fatto identitario della stessa Unione Europea. Afferma Luigi Ferrajoli, docente di filosofia del diritto: “Credo ci sia molto di più di un semplice nesso o di una mera somiglianza tra pena di morte e guerra. Pena di morte e guerra sono la stessa cosa: la negazione della vita e perciò la rottura del patto sociale di convivenza che alla tutela della vita è finalizzato, l’una nel diritto interno, l’altra nel diritto internazionale; l’una all’interno dello Stato, l’altra nelle relazioni tra Stati”. Così Ferrajioli. Beccaria nel suo volume “Dei Delitti e delle Pene”, scrisse: “Non è dunque la pena di morte un diritto…ma è una guerra della nazione con un cittadino”.


E’ quindi una sfida universale, ed è per questo che la nostra discussione prende vita a buon titolo nel contesto dello Spirito di Assisi: la ricerca tenace e profetica della pace e della riconciliazione è sempre battaglia paziente, tenace e coraggiosa contro la violenza e le sue radici, di cui la stessa pena capitale è tragico simbolo e realtà. E’ nello spirito di Assisi, che la comunità di Sant’Egidio cominciò la sua battaglia di opinione, stendendo un appello alla moratoria universale siglato da oltre 5 milioni di persone in più di 150 paesi del mondo, fra cui di shintoisti giapponesi, la firma dell’allora presidente indonesiano Wahid, la firma del rabbino David Rosen, dell’allora presidente del Consiglio Metodista Mondiale Francis Alguire e molti altri. Questo appello fu infine consegnato il 2 novembre 2007 a Srjian Kerim, Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quale preludio alla storica votazione del gennaio della Risoluzione del 18 gennaio di quell’anno. Sull’impegno di Sant’Egidio in merito alla Risoluzione e al contributo del suo successo tornerò più tardi. Nello spirito di Assisi, durante la preghiera per la pace che ebbe luogo ad Assisi nel settembre 2006, un appello volto a salvare la vita di tre cristiani indonesiani condannati a morte venne ufficialmente redatto dall’Ayatollah Muhammed Taskiri, di Teheran, dal Dottor. Halabi Habbas della comunità drusa libanese, dal Dr.Saoud Maoula della Fondazione Shamseddin per il dialogo e dal Dr. Mohammed Sammak, consigliere politico del Gran Mufti del Libano. Per noi, per le nostre comunità, non esistono barriere. Sidi Musda, una teologa islamica di Giakarta è con noi in questi giorni e ha postulato con coraggio la necessità di abolire la pena capitale.


Janna Arendt, ci è stato ricordato ieri, ha affermato che appartiene alla facoltà dell’uomo fare miracoli, e non c’è niente di più certo nella nostra stessa radice cristiana e nella spiritualità della comunità di Sant’Egidio: siamo chiamati a fare miracoli. La debolezza si trasforma in forza: forza dei miti e dei feriti della vita che, come Tamara Chikunova, divengono protagonisti di battaglie molto più grandi di loro. Potremmo leggere sinotticamente quanto ieri ha affermato Andrea Riccardi a proposito della guerra e del dialogo, a proposito della battaglia per l’abolizione della pena capitale. Ha detto: “Uomini e donne che hanno sofferto nella guerra sono spesso maestri”. Nella guerra degli stati contro i condannati a morte, noi abbiamo trovato maestri di umanità, proprio in molti di loro, nella loro resistenza all’abbrutimento indotto dai sistemi carcerari, nella loro vicenda umana, rivelatrice dell’assurdo di una morte che ha il volto freddo della legge, dell’arbitrio innanzi all’impossibilità di una difesa equa; di una pena che uccide il futuro. Maestri in numerosi parenti delle vittime, particolarmente negli USA, che chiedono che nessuno venga ucciso in loro nome. Abbiamo sperimentato la forza storica della preghiera, quando questa ha cambiato la fisionomia di tanti bracci della morte: penso al carcere di Tchollirè in Camerun, ove al suo interno, condannati a morte di quel paese hanno sostenuto nella preghiera Dominique Green, il nostro primo amico condannato a morte in Texas. Migliaia di km di distanza, situazioni lontane, strette da una fraternità impensabile, orientata dalla preghiera. O penso al ruolo del movimento degli amici, movimenti di disabili fisici e psichici della comunità di Sant’Egidio, nel sostegno a Jhonny Paul Penry, lui stesso disabile americano, finalmente esonerato nel gennaio 2008, dopo 26 anni di braccio della morte in Texas, grazie alla loro voce, che si è fatta preghiera e insieme, campagna internazionale e coinvolgimento di tante associazioni nel mondo, per un caso divenuto simbolo negli Usa.


La stagione che si è aperta dopo l’11 settembre 2001, è stata – lo abbiamo ascoltato da Andrea Riccardi – una stagione di dura prova per le ragioni del dialogo e della pace. Lo è stata anche per le ragioni della vita e la pena di morte è stata evocata o assurta a vessillo di molti partigiani dello scontro.  Ovunque, li dove la scorciatoia della contrapposizione e del conflitto è apparsa appetibile, sono cresciute le ragioni per identificare nemici – nazioni, singoli, etnie, gruppi religiosi, contro cui scagliarsi per dimenticare che il male ha radici nel cuore dell’uomo – di tutti gli uomini – e che nel cuore, nella cultura di tutti questa va combattuto ed estirpato. Ma Andrea Riccardi ha anche affermato, “abbiamo tenuto duro!”. E’ vero per il dialogo fra le religioni e le culture. E’ vero per la battaglia contro la pena di morte. Fra il 2004 e il 2008 abbiamo convocato tre convegni internazionali dei Ministri della Giustizia. Il tema affrontato è lo stesso che ci raccoglie oggi: non c’è giustizia senza vita. No alla pena di morte. E l’ultimo: dalla moratoria internazionale alla sua abolizione. Il nostro potere di persuasione nasce dalla vita della Comunità. Se è stato evocata ieri dal Vice Presidente del Burundi l’azione della Comunità nei negoziati ad Arusha, l’Africa può testimoniare il nostro patto d’amore, che si fa cura dell’AIDS, forza di riconciliazione fra i popoli e le etnie, e tanto altro. Per questo, quando parliamo di abolizione della pena di morte non parliamo un linguaggio ideologico, ma reale. Anzitutto le nostre comunità sono africane e europei e africani assieme possono disegnare un presente e un futuro migliori per l’umanità intera. Nazioni con un peso economico specifico irrilevante e carichi di sofferenza, oltre che di dignità, quali il Rwanda, il Burundi, il Togo, o l’Albania nei Balcani, Kirgistan e Uzbekistan in asia Centrale, insieme ad altri hanno maturato la determinazione a favore della risoluzione ONU per la moratoria universale della pena di morte, nel contesto della nostra azione e di questi convegni, determinando la differenza di voti necessari alla vittoria della Risoluzione. Un nuovo protagonismo, all’insegna del coraggio di un nuovo umanesimo, ha fatto si che l’Unione Africana si eprimesse successivamente nella stessa direzione.


Ricordo il ministro del Gabon, che a Roma, nel corso di questi incontri, comprese la forza di questa battaglia e tornò nel suo paese affermando “Voglio convincere il Presidente”. Il Gabon è divenuto co-sponsor della risoluzione e l’ha difesa di fronte ai tentativi dei paesi retenzionisti.
I politici sono uomini: i destini della storia non passano al di fuori dei cuori e degli spazi aperti dal dubbio. In queste assisi, che prevedono sessioni pubbliche e sessioni a porte chiuse, non di rado emergono con sincerità domande vere, richiesta di motivazioni e sostegno giuridico dall’Europa, insieme a disperate richieste di aiuto a fronte di emergenze, quali le condizioni inumane delle carceri o la deriva terribile rappresentata dalle esecuzioni extragiudiziali, i linciaggi, la violenza di massa, anche nei paesi abolizionisti de facto o dei iure. Ricordo come, mentre si ponevano questi problemi, in Guinea Conakry, la mattina stessa della nostra riunione, veniva lanciata in  un villaggio di questo paese una caccia all’uomo per catturare un evaso, che trovato, fu bruciato vivo davanti alle porte del carcere. Sant’Egidio, in America latina e in Africa combatte con le sue armi, una battaglia contro questa deriva.  Quando si parla di pena di morte, si toccano in profondità – sempre – le corde più profonde della società e si aprono scenari più larghi. Per questo non si può essere indifferenti a questa sfida.


L’indifferenza è già di per sé pericolosa. Ieri ci è stato ricordato, come ci sia bisogno della forza “civile” dell’Europa. L’Europa, dal punto di vista del Diritto e dei suoi fondamenti, rappresenta un bastione di difesa contro l’istituto della pena capitale. Il suo ripudio è conditio sine qua non senza la quale non è possibile aderirvi. Tuttavia, occorre vigilare. Proprio qui in Polonia si è acceso un dibattito per la sua reintroduzione e l’affanno per il quotidiano, la crisi economica, e lo spaesamento sono motivi per ritenere questo tema lontano dalle priorità. Occorre sempre, invece, a fronte delle ragioni della cultura della morte, rifondare le ragioni di una fortissima cultura per la vita. Il parlamento europeo si è ridisegnato nelle ultime elezioni, mostrando la crescita di partiti e tendenze xenofobe o ultranazionaliste, mentre il mondo si globalizza. In Ungheria, il partito Jobbik, che ha raggiunto il 15%, predica antisemitismo e antigitanismo, insieme a vittimismo e nazionalismo. E’ votato da molti giovani. Come Jobbik, altre espressioni impaurite e violente in Europa vanno dandosi visibilità e si radicano nei popoli. La pena di morte non è difficile immaginare faccia parte del loro bagaglio ideologico.


Per questo dobbiamo lavorare con fiducia e tenacia. Non siamo spaventati. Siamo convinti che è tempo opportuno per un’epidemia di intelligenza e compassione, per un’epidemia di cultura. Scriveva Kennetth, un uomo eseguito a 30 anni, il giorno del suo compleanno, a un’amica della Comunità di Sant’Egidio che lo ha accompagnato e sostenuto in questi anni: “Non dimenticherò mai il giorno della condanna a morte. Avevo 22 anni e non ero mai stato arrestato… Quando il giudice ha letto la sentenza, un grido ha tagliato l’aula e il mio corpo, un grido che poteva essere stato emesso solo da una madre, da mia madre. Oggi a distanza di anni sento ancora quel grido. E’ lo stesso di molte madri che perdono i loro figli”. E nell’ultima lettera prima dell’esecuzione, sempre a questa nostra amica, Kenneth confessa:  “Sono molto grato a te e a tutti coloro che mi stanno aiutando… Non c’è rabbia nel mio cuore. Capisco cosa vogliono farmi. Ma Dio mi ha mostrato che si può cambiare e che si può avere fiducia in lui. Ho avuto la benedizione della tua amicizia e un giorno ci vedremo faccia a faccia. Ho imparato che dobbiamo guardare il bene e il male in noi stessi e cambiare le cose di noi che non ci piacciono e costruire un carattere compassionevole. L’amore è un grande potere. Ma prima di poter amare, dobbiamo perdonare noi stessi e gli altri e Dio toccherà il nostro cuore. Allora saremo liberi”. Anche noi, come Kenneth, non vorremmo più udire il grido di una madre cui è strappato il figlio. Anche noi come Kenneth, crediamo che l’amore è un grande potere: può sradicare il male in noi stessi, può trasformare la storia, può restituire il volto umano ad ogni uomo, ogni donna, perché tutti meritano la vita.

Grazie.


Cracovie 2009

La salutation du pape Benoît XVI à l'Angelus


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