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24 Junio 2010

Testimoni del dialogo

William Quijano Zetino. Seme di pace nelle bande del Salvador

 
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È una storia tragica e bellissima, quella di William Alfredo Quijano Zetino, operatore salvadoregno di 21 anni in una scuola di pace della Comunità di Sant’Egidio. La storia di un martire, ammazzato a pistolettate perché annunciando l’amore e il Vangelo ai ragazzi di strada metteva in crisi il monopolio violento delle gang. E le bande non gliel’hanno perdonata. Cambiano i nomi e i luoghi, ma la vita e la morte di questi apostoli della nonviolenza si somigliano in modo impressionante. William contro le maras nei barrios del Salvador come padre Pino Puglisi contro le cosche di Brancaccio a Palermo.

Janeth Marlene Zetino, che ha perso il marito quando William aveva 13 anni, stringe tra le mani un fazzoletto seduta nel cortile dell’ex convento trasteverino che ospita la Comunità di Sant’Egidio. Oggi ritirerà il premio Colombe d’oro della pace che Archivio Disarmo dedica alla memoria di uno dei suoi quattro figli. Non ha ancora capito esattamente chi lo abbia premiato, ma è commossa e consolata dall’eco che quel suo figlio stupendo ha suscitato scavalcando un oceano. «William – racconta commossa – lavorava in comune ad Apopa, una cittadina dove le maras sono molto radicate. Mio figlio – continua – aveva capito che solo dal Vangelo può venire una speranza di pace e amore. A 18 anni ha conosciuto la Comunità di Sant’Egidio e ha cominciato a fare volontariato con i bambini e a distribuire il cibo ai poveri. Era alto e forte, i ragazzini gli si buttavano addosso. Per loro era un punto di riferimento. Perfino quelli delle maras lo rispettavano, anche perché erano cresciuti assieme». Finché qualcuno decide di prendere possesso del quartiere e capisce che William è un ostacolo: «I ragazzi lo seguivano, era una voce di speranza. Io penso che è stato ucciso per invidia, perché aveva tanti amici, dai ragazzi agli anziani».

La sera del 28 settembre 2009 William chiede alla mamma un bicchiere di Coca Cola. «Sono andata a prenderla. Ho sentito i colpi. Mai avrei pensato fossero per mio figlio, che non faceva del male a nessuno. Invece l’ho sentito gridare “aiuto, aiuto”».
L’ospedale è lontano, inutile la corsa all’ambulatorio della Croce Rossa. «Al funerale sono rimasta stupita vedendo tutta quella gente che piangeva. Un bambino di 11 anni singhiozzava e tremava: “No, non dovevano uccidere lui”. Allora ho smesso di piangere, l’ho abbracciato e consolato». Ignoti gli esecutori e gli eventuali mandanti. La giustizia in Salvador, 12 omicidi al giorno, apre inchieste solo su un terzo delle denunce. Janeth saprà poi che due ragazzi di 15 e 18 anni, sospettati dell’omicidio, sono stati picchiati a morte dai passeggeri esasperati di un autobus che i due balordi avevano cercato di rapinare.

Accanto a Janeth c’è Jaime Aguilar, responsabile per il centroamerica della Comunità di Sant’Egidio, arrivata in Salvador dopo l’assassinio di monsignor Romero. «Andrea Riccardi, il fondatore di Sant’Egidio, dice che la guerra è la madre di tutte le povertà. E il mio Paese dopo la guerra civile è senza infrastrutture, con l’economia a pezzi sostenuta solo dalle rimesse degli emigrati, un milione e mezzo su sei milioni di abitanti, con mezzo milione di armi in giro. Anche quei due ragazzi, i presunti omicidi, sono vittime della spirale di violenza che avvelena il Salvador. Il governo vuole usare la mano dura, ma la repressione da sola non risolverà nulla».
Janeth si asciuga le lacrime: «William è morto nel corpo ma è vivo nel cuore di tante persone, in Salvador e in Italia. Ho perso un figlio ma ho trovato una grande famiglia – dice stringendo la mano a Jaime – e ad Apopa dobbiamo continuare a fare quello che faceva mio figlio. L’amore è l’unica via».


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