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19 Février 2015

Crisi libica, le risposte che urgono

Più forti della paura

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Caro direttore, la Libia è vicina. Daesh, il cosiddetto Stato islamico del Levante, entra nelle nostre case, sui nostri computer con l'orrore. Spaventa i nemici, attrae altri. E fa diventare tanti esperti dell'ultima ora e apprendisti stregoni. «Alle bombe si risponde con le bombe». Riguarda anche le forze politiche. È quello che vuole Daesh: «Bombardateci e tanti si uniranno a noi contro i crociati e i colonialisti ricchi che ci umiliano da secoli». Chi dice che l'Is è l'islam e che tutto l'islam è terrorismo regala un miliardo di persone a Daesh e dichiara una vittoria che non ha. Il jihadismo attrae in azioni di vendetta europei marginali, come a Parigi, europei arrabbiati che scelgono una rivoluzione cupa e sanguinosa e diventano foreign fighters, mostrando anche una crisi delle nostre società. Ma l'orrore cresce, come il nostro dolore. Per i 21 egiziani copti, sgozzati in maniera rituale e ancestrale, per fare arrivare a tutto il mondo islamico questa dimostrazione di forza, capace di umiliare i signori occidentali, come i giornalisti, americani, francesi, giapponesi, i nemici traditori, nelle loro categorie. E per fare arrivare a noi il messaggio del Mediterraneo che diventa rosso di sangue, quello dei "crociati".
Questo è il tempo di un'assunzione, forte, di responsabilità. Ha ben detto Renzi ricordando che in Libia "non c'è una invasione islamica". Tanti commentatori parlano di guerra, di atti di forza. Gli stessi che l'hanno invocata contro Saddam, Assad, Gheddafi, tre regimi autoritari. E non hanno mai fatto autocritica. Ma la distruzione e la frammentazione di quei tre Stati ha liberato il totalitarismo sanguinano che vuole prendere l'egemonia nel mondo islamico.
La guerra è stata la debolezza degli ultimi vent'anni, la prova muscolare invece di quella politica. La rinuncia alla diplomazia ha grandi responsabilità negative per come è il mondo oggi. La guerra senza un'idea del "dopo" crea disastri. Il caos libico è figlio della guerra insana di quattro anni fa, in un Paese che era un arsenale, fondato sull'equilibrio tra le tribù. La Libia non è solo due governi: è molte tribù, divisioni religiose, gruppi armati, almeno tre zone diverse.
Chi scrive viene da un mondo che ha fatto di tutto per trovare alternative a quella politica sbagliata e a quella guerra. Noi non siamo pacifisti, siamo pacificatori. Consapevoli che, oggi, la paura può far fare errori ancora più gravi. Respingere gli immigrati li può "regalare" all'Is. I bombardamenti egiziani rischiano di compattare verso le bandiere nere i gruppi e le tribù libiche che si sentono comunque sotto attacco di un Paese confinante. L'avanzata dei jihadisti è fatta di successi militari con pochi uomini e di tanti musulmani che preferiscono all'eliminazione la sottomissione, e i vantaggi di sicurezza che comporta. Ed è basata su una idea semplice, quella del Califfato, esportata con tecniche di comunicazione post-moderne.
Dobbiamo dare una risposta forte. Non quella della paura o dell'ignoranza. L'Italia, Bernardino Leon, lavorano nella prospettiva giusta, quella di costruire un embrione di legalità e di ricucitura delle tribù e dei diversi governi e gruppi libici. Ma non basta ancora. Ci vuole davvero l'Onu. E abbiamo bisogno di un ruolo attivo, sinergico, di Paesi come Turchia, Qatar, Emirati Arabi, Algeria, Egitto, Tunisia, che hanno visioni divergenti sulle diverse componenti della società libica e sui diversi territori in cui è cresciuto l'Is. Serve una grande iniziativa diplomatica di Europa e Usa, abbiamo bisogno come partner dei grandi soggetti mondiali, la Russia per prima, mentre dobbiamo evitare che il Libano e la Giordania implodano, sotto il peso di due milioni di profughi siriani. Serve un'Italia in prima linea perché vi sia una forte risposta europea e della comunità internazionale. Forte non vuole dire "guerra". Forte è la proposta avanzata da Andrea Riccardi di Romano Prodi come inviato speciale della comunità internazionale, accanto al lavoro prezioso di Bernardino Leon, per questo gigantesco lavoro diplomatico, che può avvalersi anche di chi in questi anni ha creato canali di comunicazione con quella complessità.
*
Deputato di Per l'Italia-Centro democratico e presidente del Comitato diritti umani della Camera


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