Comunità di Sant'Egidio, Rwanda
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Eccellenze, Signori e Signore, buon pomeriggio.
Vorrei innanzitutto ringraziare la Comunità di Sant’Egidio per l’invito a partecipare a questo incontro internazionale per la pace. Il tema, così ricco di senso e di contenuto – Vivere insieme in un tempo di crisi. Famiglia dei popoli, famiglia di Dio – interpella noi tutti in questo secondo decennio del XXI secolo. È per me quindi un onore e una responsabilità parlare qui e, attraverso la mia esperienza personale e quella della mia generazione, vorrei cercare di comprendere insieme a voi i sentimenti dei giovani africani, che vivono le speranze e le angosce della loro generazione.
Ieri, alla cerimonia d’inaugurazione, il Professor Andrea Riccardi ha giustamente posto questa domanda: “Cosa sarebbe il mondo oggi senza dialogo?” Credo che potremmo porci questa stessa domanda anche a riguardo del lavoro e dell’impegno della Comunità di Sant’Egidio, che prosegue ormai da vari anni, per abolire la pena di morte nel mondo e promuovere una cultura della vita.
Lungo questi anni, con pazienza e tenacia, la Comunità è riuscita a conquistare degli spazi di speranza e di umanità in un mondo in cui regna la cultura della morte e della violenza. Basta pensare al lavoro della Comunità nelle carceri africane: dalla distribuzione del sapone e dei medicinali, alla liberazione dei minori in Burundi, Ruanda, Congo, Camerun, Guinea, alla liberazione dei condannati a morte, una vera resurrezione per moltissimi africani.
Venendo dal Ruanda, paese nel cuore del continente africano conosciuto soprattutto per il terribile genocidio che ha provocato circa un milione di vittime ed ha chiuso il secolo passato; e vedendo le nostre società attuali dell’Africa e del mondo, viene da domandarsi se abbiamo veramente imparato qualcosa dalla lezione della storia! Infatti continuiamo ad assistere a una violenza diffusa e in crescita nelle nostre città e nelle nostre società. Spesso si pensa che per frenare questa violenza sia necessario utilizzare una violenza equivalente o addirittura maggiore. Si vede sempre di più la diffusione di una forma di “giustizia popolare”, ossia il linciaggio, una sorta di pena di morte che si produce al di fuori della legge. E verifichiamo sul terreno come questo non arresta in alcun modo la violenza ma anzi la fa aumentare. La violenza è infatti come una droga: più la si utilizza più se ne diventa dipendenti.
Abbiamo vissuto questa esperienza in Ruanda nel 1994. La violenza è sfociata in genocidio e ha condotto gli uomini ad alzare le armi contro i propri fratelli, considerati dei nemici solamente perchè appartenenti ad un’altra etnia: gli Hutu contro i Tutsi. La violenza sembrava l’unica soluzione a tutti i problemi, si diceva che non si poteva fare altrimenti! Ma i terribili massacri che ci sono stati hanno lasciato un vuoto profondo nel popolo ruandese (sia nelle vittime che nei carnefici). La domanda che ciascuno di noi può porsi è: era possibile abolire la pena di morte in Ruanda? Non bisognava forse imporre ai responsabili del genocidio e agli autori di questa morte terrificante, un’altra morte che, in nome della giustizia, si chiama pena di morte?
Ricordiamo che nel 1997, tre anni dopo il genocidio, 12 persone sono state pubblicamente giudicate e condannate. Si credeva che questo avrebbe potuto “sanare” le ferite e restituire un po’ di serenità alla popolazione. Ma con grande sorpresa la sera di quel giorno, dopo le esecuzioni, un grande silenzio è sceso sul paese: un silenzio pieno di rimorso che ci ha portato a comprendere rapidamente che la morte non era la soluzione e che l’applicazione della pena di morte sarebbe diventata fonte di nuove vendette. Bisogna ricordare che, prima dell’abolizione della pena di morte nel 2007, in Ruanda si trovavano nel braccio della morte circa 800 persone e che un centinaio di migliaia di persone erano in attesa di giudizio! Potete immaginare come l’esecuzione di quell’enorme quantità di persone avrebbe potuto essere la causa scatenante di una spirale di odio e di violenza inarrestabile.
Visitando il centro memoriale di Kigali ci si può rendere facilmente conto di come non può esistere una giustizia senza vita perché la vera giustizia è quella che assicura a tutti una vita degna. Infatti il genocidio è stato come un’immensa pena di morte applicata in modo indiscriminato a una parte della popolazione ruandese. Dire “Never Again” o “Plus jamais” significa anche dire che più nessuno ha il diritto di condannare a morte un suo fratello o una sua sorella.
Perdonare e chiedere perdono non significa dimenticare, ma stabilire un dialogo tra la vittima e il carnefice per acquisire una diversa memoria del passato al fine di gestire meglio il presente e guardare il futuro con ottimismo. Il perdono crea un nuovo rapporto. Significa donare al di là di ciò che esiste, al di là di ciò che la giustizia esige. Significa poi offrire al colpevole un’opportunità di vita e al tempo stesso liberare la vittima dallo spirito di vendetta e di odio. A quel punto entra in gioco l’orgoglio di perdonare, che consiste nel non rispondere alla violenza con la violenza, perché l’autentica esigenza delle vittime non è la vendetta, ma il fatto che questa barbarie non si riproduca.
Si tratta di una decisione politica molto coraggiosa, quella di adottare una visione moderna della giustizia, basata sui principi della sacralità della vita e dell’inviolabilità della persona. La campagna per l’abolizione della pena di morte, sostenuta dalla Comnunità di Sant’Egidio, è una battaglia fondamentale per il progresso comune dei cittadini e soprattutto per la difesa dei diritti umani. Una giustizia che lavora per edificare società più giuste ed umane.
C’è ancora molto da fare, nel senso che nella nostra società, dove la cultura della violenza è diffusa, la vita non ha molto significato. Purtroppo questa è l’esperienza quotidiana in molti quartieri delle grandi città africane. Nella disperazione, è facile volersi far giustizia da soli e questo riguarda sopratttutto le generazioni più giovani e senza speranza. Per fare un esempio, è sufficiente rubare una cosa di poco valore come un telefono cellulare o del cibo in un supermercato e, se qualcuno grida al ladro, si viene facilmente accerchiati e pestati a morte. È il fenomeno del linciaggio, cioè la pena di morte comminata senza alcuna forma di giudizio.
La violenza che viviamo è il frutto di una grande disperazione. La Comunità di Sant’Egidio, sempre a fianco ai poveri e agli emarginati, sente questa grande disperazione della gente. I bambini soldato che imparano ad uccidere in giovane età, i bambini di strada che vengono educati alla violenza quotidiana e che debbono difendersi ogni giorno. Le persone anziane, che non rappresentano più la tradizione e la storia, sono lasciate da sole e da tutto questo nasce la disperazione di un domani senza orizzonti e senza futuro. Per esempio, quando si incontra un bambino di strada che si droga, egli risponde facilmente: “tanto sono già morto e non c’è nulla da fare. Non ho nulla da salvare”. Ecco un’altra forma di condanna a morte. La vera giustizia contro la disperazione consiste nel ripensare il nostro sistema giudiziario secondo una logica della vita e del futuro perché ogni forma di pena di morte non dà futuro e senza futuro non c’è giustizia.
La lotta della Comunità di Sant’Egidio contro la pena di morte nasce dall’amore per la vita; prima di tutto perché la vita umana deve essere rispettata dal suo inizio sino alla sua fine. Questo è anche il senso del nostro lavoro per i poveri: la difesa della vita di coloro che sono i più deboli. Partendo dalla difesa della vita dei più deboli, noi impariamo anche a difendere la nostra vita. Il nostro futuro dipende dalla saggezza delle religioni che in questi giorni qui a Barcellona ci ricordano che “chi salva una vita, salva il mondo intero”.
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