Dal Vangelo di Luca 2, 25-33
Cari fratelli e sorelle,
del bellissimo testo che vi è stato letto – il Cantico di Simeone, al quale lo Spirito Santo rivela che quel bambino, di appena sei settimane di vita, che lui aveva preso in braccio, sarebbe stato il salvatore del mondo e la gloria del suo popolo – di questo bellissimo testo, desidero soffermarmi qualche istante insieme a voi non sul bambino, non sui genitori del bambino, che sono i personaggi principali, ma proprio su Simeone, su questa figura. E anzi, su un solo aspetto di questa figura: quello che l'evangelista Luca descrive quando dice che Simeone «aspettava la consolazione di Israele».
Simeone era vecchio, aveva aspettato tutta la vita e aspettava ancora. Diventando vecchio, non aveva perso la forza dell'attesa, una attesa lunga quanto la sua lunga vita. Simeone aspettava insieme al suo popolo, il popolo ebraico che è per eccellenza il popolo dell'attesa. Lo era già allora, da alcuni secoli, lo è ancora oggi dopo venti secoli. Nessun popolo è - come quello ebraico - popolo dell'attesa; nessun popolo sa aspettare come gli Ebrei colui che deve venire. Ma anche la chiesa è popolo dell'attesa: per questo abbiamo quattro domeniche di Avvento, per ricordarci quello che così facilmente dimentichiamo: e cioè che siamo anche noi come gli Ebrei – e in un certo senso: con gli ebrei - popolo dell'attesa. Il popolo cristiano e il popolo ebraico sono entrambi popoli dell'attesa. Con una differenza: che Simeone e il popolo ebraico aspettano il Cristo, il Messia che deve ancora venire, mentre noi cristiani aspettiamo il Messia che è già venuto.
E questo è un grande mistero. Si parla tanto – e giustamente – del mistero di Natale, il mistero della incarnazione di Dio nel bambino di Betlemme: Dio Diventa uomo, la parola diventa carne, l'invisibile diventa visibile, l'inaccessibile diventa accessibile, l'eternità diventa tempo, l'infinito diventa finito, l'immortalità diventa mortale… Grande mistero.
Ma c'è un altro mistero di cui si parla poco: il mistero della attesa di colui che è già venuto.
Che senso ha attendere ancora colui che è già venuto? Se è già venuto, perché attenderlo ancora? Eppure lo attendiamo. Non solo: ma attendiamo anche colui che ci ha detto prima di tornare al padre: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dell'età presente».
Ma se è ogni giorno con noi, non dovremmo più attenderlo! Se voi invitate qualcuno a casa vostra, lo aspettate finché viene; ma una volta che è venuto, non lo aspettate più. E invece lo attendiamo: attendiamo colui che è già venuto. Attendiamo colui che è con noi tutti i giorni fino alla fine dell'età presente.
Già un grande teologo della chiesa antica, Gregorio di Nissa, diceva: «Ecco un tema che meriterebbe una lunga riflessione: capire come viene colui che è sempre presente, capire il mistero dell'Avvento, capire il mistero della fede cristiana che è nello stesso tempo memoria di Gesù che è venuto, esperienza di Gesù che è presente, attesa di colui – di Gesù – che viene».
Se Gesù non fosse venuto, sarebbe sensato aspettarlo; se Gesù non fosse presente sarebbe sensato aspettarlo. Ma dato che è venuto, dato che è presente con noi tutti i giorni, che senso ha aspettarlo ancora? Perché lo aspettiamo ancora, come il vecchio Simeone? Non solo in questo tempo dell'Avvento, ma ogni giorno della nostra vita, ogni anno della nostra vita?
Perché – malgrado il fatto che è già venuto e che è presente con noi tutti i giorni – lo aspettiamo ancora e non possiamo fare altro che aspettarlo sempre di nuovo?
Lo dobbiamo aspettare perché è venuto, sì, ma è anche tornato al Padre. È con noi tutti i giorni, sì, ma in un modo che lo dobbiamo ogni giorno invocare.
L'ultima parola della Bibbia, che racconta tutta la storia di Dio con l'umanità, con Israele, con la chiesa, dopo aver raccontato tutta questa storia: qual è l'ultima parola della Bibbia? L'ultima parola dell'Apocalisse è: «Vieni Signore Gesù!»: l'attesa di colui che deve venire.
Perché lo dobbiamo invocare? Perché dobbiamo invocare colui che è presente? Perché la sua presenza non è ovvia, non è scontata, non è garantita: è ogni volta un atto di grazia, un dono, una decisione di amore! Ecco perché lo dobbiamo sempre di nuovo attendere, proprio lui che è sempre presente: perché non lo possediamo; né nelle nostre chiese, né nelle nostre liturgie, né nelle nostre preghiere, né nelle nostre omelie. Le nostre mani sono vuote, ma si uniscono nella invocazione decisiva della vita cristiana: «Vieni Signore Gesù!».
Sì, siamo come Simeone, come il popolo ebraico: popolo dell'Avvento, popolo dell'attesa. Perché noi crediamo in Dio ma non lo possediamo, lodiamo Dio ma non lo possediamo, preghiamo Dio ma non lo possediamo, serviamo Dio ma non lo possediamo; ci fidiamo di lui, fratelli e sorelle, ci fidiamo di lui, ci fidiamo della sua promessa: la promessa più bella. È quella di essere con noi tutti i giorni.
Perciò noi, fidandoci di lui, lo invochiamo; e invocandolo, lo aspettiamo. Non siamo il popolo che possiede Dio: siamo il popolo che lo invoca perché lo aspetta.
La fede non ci ha reso proprietari di Dio: ci ha insegnato ad aspettarlo, ci ha insegnato a invocare. Come dice il Salmo 130: «Io aspetto il Signore, l'anima mia lo aspetta. Io spero nella sua parola. L'anima mia anela al signore più che le guardie non anelino al mattino, più che le guardie al mattino». Sì, questa è la nostra preghiera: «vieni Signore Gesù!».
Paolo Ricca
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