Già Rabbino Capo di Irlanda, AJC, Israele
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A partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II i rapporti ebraico-cristiani si sono trasformati in maniera considerevole. Senza dubbio non esiste nella storia umana un altro fenomeno paragonabile a questo.
Una comunità che un tempo era condannata e considerata come maledetta da Dio, colpevole di deicidio, nemica di Dio e in complotto con il Diavolo, ora è considerata dalla Chiesa, secondo le parole del beato Papa Giovanni Paolo II, come “i prediletti fratelli maggiori della chiesa, il popolo dell’alleanza irrevocabile, e che non sarà mai revocata”.
Sia il beato Giovanni Paolo II che Benedetto XVI hanno affermato ripetutamente che il rapporto della Chiesa con l’ebraismo è unico e non può essere equiparato al rapporto che il cristianesimo ha con le altre religioni, poiché riguarda le radici stesse della Chiesa. In questo modo essi richiamano la dichiarazione conciliare n.4, Nostra Aetate, che ha dato inizio a tale rivoluzione.
Le linee guida per l’attuazione della dichiarazione "Nostra Aetate", promulgate nel 1974, dissertano ampiamente su questa nuova visione dei rapporti con il popolo ebreo, prendendo in considerazione sia la storia passata che quella presente e invitano a sviluppare il dialogo.
La Santa Sede istituì una Commissione Pontificia per i rapporti religiosi con l’Ebraismo e una struttura formale per il dialogo, nota come Comitato Internazionale di collegamento ebraico-cattolico, che quest’anno ha celebrato il 40° anniversario dalla sua fondazione durante un incontro tenutosi a Parigi.
Il beato Giovanni Paolo II ha dato un notevole contributo a questo cammino di riconciliazione. Durante il suo pontificato furono, infatti, pubblicati documenti che hanno aiutato in modo significativo l’evolversi positivo di questo processo; inoltre, le sue dichiarazioni hanno avuto un’importanza estrema. Tuttavia, forse, Giovanni Paolo II è stato principalmente un maestro di gesti simbolici.
Fu probabilmente la sua visita al Tempio Maggiore di Roma nel 1986 a far giungere al mondo un messaggio ancora più profondo, altrettanto importante fu l’istituzione di relazioni diplomatiche ufficiali tra la Santa Sede e lo stato d’Israele, favorite dall’impegno personale del papa stesso.
Inoltre, fu probabilmente il pellegrinaggio del papa in Terra Santa a dare la dimostrazione decisiva di quanto i rapporti ebraico-cristiani fossero mutati.
Le immagini del papa, viste da milioni di persone, mentre sostava commosso in pensosa solidarietà con la sofferenza del popolo ebraico al Memoriale dell’Olocausto Yad Vashem, oppure quando, raccolto in preghiera al Muro del Pianto nel rispetto della tradizione ebraica, deponeva il testo della preghiera composta in occasione di una cerimonia penitenziale svoltasi in Vaticano poco prima del viaggio stesso, nella quale il papa implorava il perdono divino per i peccati perpetrati contro gli ebrei in nome del cristianesimo lungo i secoli, hanno avuto un impatto enorme sul mondo ebraico e credo anche sul mondo cristiano. In effetti, il papa ha espresso con la sua persona non solo l’amicizia, ma anche la riscoperta della fratellanza.
Con lo stabilirsi della Commissione bilaterale del Gran Rabbinato di Israele con la Santa Sede, frutto appunto del viaggio papale, abbiamo visto che il dialogo e l’amicizia hanno raggiunto un nuovo livello.
Questa commissione ha lavorato alla scoperta dei valori e degli insegnamenti comuni più profondi pur nel rispetto delle diversità. In pratica, cerca di identificare il messaggio comune all’ebraismo e al cristianesimo per il bene dell’umanità nel suo insieme.
Oltre ad approfondire il processo, abbiamo due importanti compiti. Il più laborioso, ma forse anche il più essenziale, è quello di far arrivare in modo estensivo questa trasformazione alla base, alla gente e anche a quelli tra i pastori e nella gerarchia che a volte ancora pensano, insegnano e pregano condizionati dalla vecchia “cultura del disprezzo”, o perlomeno dal suo spirito.
In realtà, se guardiamo alla nostra storia, la trasformazione che è avvenuta è qualcosa di nuovo, e dobbiamo superare almeno due millenni di indottrinamento negativo.
A parte l’ignoranza, la cosiddetta “teologia della sostituzione” è ancora abbastanza prevalente e spesso altri fattori esterni, quali ad esempio il conflitto in Medio Oriente, sono utilizzati per evitare o per ostacolare un’effettiva diffusione delle nuove intese teologiche nei pensieri e nel cuore dei fedeli cristiani nel mondo.
In aggiunta, come il papa Benedetto XVI ed altri eminenti prelati e teologi hanno sottolineato, le implicazioni teologiche della Nostra Aetate non sono ancora state del tutto scandagliate.
Qui c’è il secondo compito o l‘altra sfida che abbiamo davanti, che è quella di sviluppare una seria teologia di collaborazione tra cristiani ed ebrei, insieme ad una maggiore comprensione della complementarità delle due religioni. Sono già stati fatti dei passi avanti, tra cui la considerazione della complementarità del ruolo di giudaismo e cristianesimo: difatti da una parte gli ebrei concentrati sull’alleanza comune con Dio, dall’altra i cristiani sulla relazione individuale, possono servire l’umanità e allo stesso tempo compensarsi l’un l’altro.
Altri hanno visto la complementarietà di questa relazione nel fatto che i cristiani hanno bisogno degli ebrei per ricordare che il regno di Dio non è ancora compiuto, mentre gli ebrei hanno bisogno della consapevolezza dei cristiani che in qualche modo il regno di Dio è già venuto, qui e ora.
Un’altra visione della reciproca complementarità considera il giudaismo come una costante ammonizione alla cristianità sui pericoli del trionfalismo; allo stesso modo il carattere universalistico del cristianesimo può avere un ruolo essenziale nel mettere in guardia l’ebraismo sul pericolo dell’isolazionismo.
Rispetto ai principi impliciti di quest’ultimo, si discute se non sia proprio l’universalismo del cristianesimo ad essere messo in crisi dalla realtà culturalmente pluralistica del mondo moderno. L’autonomia collettiva che l’ebraismo afferma, si dice, può costituire un modello più appropriato in una società multiculturale, mentre il cristianesimo può rappresentare una risposta migliore all’alienazione individuale nel mondo moderno.
Inoltre, teologi ebrei e cristiani hanno scritto riguardo l’aiuto reciproco in materia teologica. Ebrei e cristiani possono aiutarsi reciprocamente nel superare il peso della storia.
Si è anche sottolineato come la riconciliazione ebraico-cristiana abbia avuto un impatto sulla società che va ben al di là del dialogo bilaterale. Serve sia da esempio di riconciliazione che come fonte d’ispirazione al dialogo, in maniera particolare con l’Islam, andando ben oltre l’incontro interreligioso.
Sì, anche l’ammissione diffusa che i nostri valori etici condivisi e le nostre responsabilità morali ci richiedono di collaborare e cooperare – oggi più che in passato, poiché ci confrontiamo con le sfide di una cultura secolarizzata dominante nelle quale tutte le religioni sono minoritarie - ha delle implicazioni teologiche per i nostri rapporti.
Il beato Giovanni Paolo II ha espresso tutto ciò meravigliosamente affermando che “Ebrei e Cristiani sono chiamati (come figli di Abramo) ad essere una benedizione per l’umanità. Per poterlo essere abbiamo bisogno di essere prima una benedizione l’uno per l’altro”. Quali sono le implicazioni teologiche di tale benedizione reciproca?
Tutte le idee fin qui esposte sono dei suggerimenti sulla sfida sostanziale che tutti noi che lavoriamo con amore in questa vigna dei rapporti giudaico-cristiani siamo chiamati ad affrontare con crescente candore e profondità.
In effetti, questi cambiamenti ci richiedono di andare persino oltre il dialogo e l’amicizia.
Come possiamo non solo comprendere l’integrità di ciascuno di noi, ma ancor più capire ciascuno il ruolo dell’altro nel piano di Dio per l’umanità e intendere la nostra relazione in questa prospettiva? Cosa ci dice Dio a questo riguardo e in che modo possiamo trarre beneficio ciascuno dall’altro? Come possiamo diventare ciascuno una benedizione per l’altro nel senso più profondo possibile?
Il fatto che noi apparteniamo ad una generazione che può porsi queste domande e cercare una risposta è un dono che i nostri predecessori, cioe tutti quelli che hanno vissuto nei duemila anni prima di noi, possono solo ammirare con stupore. Rendiamoci degni di questo privilegio. |