"Corriere della Sera", Italia
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Mi occupo del Medio Oriente da oltre trent'anni. Professionalmente, come giornalista. Ma questo non basta a spiegare il mio coinvolgimento. Infatti, ho sempre avvertito un'attrazione fatale per quella regione tribolata e affascinante e per i suoi problemi irrisolti. Ho frequentato fin quasi alla noia questa domanda: "E' possibile la pace?". Era nel mio bagaglio a mano, oltre a quello che spedivo, mi accompagnava come un'ombra rassicurante e insieme sinistra. Era diventata quasi un'amica quella domanda ossessionante. La domanda che mi sono sentito rivolgere non so quante volte, e che mi sono posto ogni volta che, davanti a una pagina bianca, cercavo di esporre qualche idea, ormai fa parte della mia vita. Come il giornale, il notiziario radio della Bbc, le immagini e i servizi della TV alla news Al-jazeera, il Black Berry e l'Ipad.
Se seguissi i binari della stanchezza, dopo troppe attese deluse e troppe speranze violentate, la risposta che potrei dare a quella domanda è una sola: un sonoro No, non è possibile. Voglio ricordare per l'ennesima volta quanto mi disse Giulio Andreotti, un leader politico che conosceva come pochi i meandri e i sottoscala del mondo. A quella domanda mi rispose con un mezzo ghigno: "Guardi, io non credo che vedrò la pace tra israeliani e palestinesi durante la mia vita". Ghigno subito diventato intero con il seguito: "Ma temo che non la vedrà neppure lei".
Se guardiamo lo scenario di oggi, dobbiamo ripetere quel No con determinazione. Non ci sono luci all'uscita del tunnel, e forse ha ragione il presidente di Israele Shimon Peres quando dice che non c'è neppure il tunnel. Israele ha un governo non proprio autorevole, anzi prigioniero di se stesso. Ha un premier ambizioso ed egoista, Benjamin Netaniahu; ha un ministro degli esteri che nello stesso Israele viene definito da molti impresentabile, cioè Avigdor Lieberman, estremista di destra con derive razziste; ha cooptato nel governo l'acrobata della politica Ehud Barak, ex laburista. Uomo con un passato eroico, indubbiamente coraggioso e sperimentato, che esprime (esprimeva?) la forza della volontà ma ora sembra diventato uno scettico che accetta lo status quo. Più volte ha parlato di una necessità minima, la cosiddetta gestione della crisi. Significa non fare in modo che l'assenza di risultati provochi un pericoloso collasso.
Se si guarda nel campo palestinese, il quadro è quasi speculare. C'è un presidente dell'Anp, cioè poco più di mezza Palestina, Mahmoud Abbas, detto Abu Mazen, che è stanco, sfibrato, malato e deluso. I suoi poteri sono poco più di quelli del sindaco di Ramallah, in Cisgiordania, e sono limitati da un nugolo di ragioni: le difficoltà in casa propria, soprattutto con i fratelli separati di Hamas, e le difficoltà altrove, perché nonostante le promesse il leader non è stato aiutato né incoraggiato: prima di tutto da Israele ma anche dagli Stati Uniti. Tante parole ma pochi impegni concreti. Abu Mazen ha un primo ministro bravo e volonteroso, Salam Fayyad, che in attesa dello stato che non c'è ancora si comporta come se ci fosse, realizzando giorno dopo giorno una costruzione, mattone dopo mattone, delle future istituzioni. Sforzo ammirevole, ma ci vuol altro per risalire la china.
Appena le due parti provano ad avvicinarsi, ecco le scintille dell'incomprensione. Lo sanno gli israeliani, lo sanno i palestinesi, lo sanno le amministrazioni americane. Quel grande, coraggioso e temerario patto realistico - terra in cambio di pace - che aveva avuto come promotori il premier israeliano Yitzhak Rabin e il presidente palestinese Yasser Arafat, si è sciolto nell'acido degli egoismi di parte. Rabin è morto, ammazzato da un estremista ebreo. Arafat non c'è più. Il mondo, indebolito, non è più quello di prima. Si parla di prossimi negoziati, ma non si può dire che si è pronti a trattare se poi Israele non ferma l'espansione degli insediamenti che invece dovrebbe pensare ad abbattere se vi sarà un giorno un accordo, e se i palestinesi non sono in grado di impedire ai loro estremisti di compiere attentati, magari con alleati che si nascondono nel Sinai, come è accaduto recentemente a Eilat.
Torniamo alla domanda. "E' possibile la pace?". Credo che sia saggio dubitarne, perché mi pare che le parti siano come immobili, in attesa del prossimo passo, cioè quello che i palestinesi desiderano (l'autoproclamazione del proprio stato, con il sostegno dell'Onu) e che gli israeliani aborriscono. Non è però questa la strada che può portare al necessario compromesso, perché questo - non mi stanco di ripeterlo - è un conflitto tra due diritti: quello di Israele di essere riconosciuto e di vivere in pace entro frontiere riconosciute e sicure; e quello dei palestinesi di avere il loro stato. Insomma che entrambi possano vivere in pace e sicurezza, l'uno accanto all'altro. E in questa sede non entro nel merito degli ostacoli più noti, il futuro di Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati, le frontiere, la condivisione delle risorse idriche, in quella regione semidesertica più essenziali che altrove.
Detto questo, la mia risposta alla domanda iniziale è sempre No. Lo dico pur essendo sostenitore, sempre e comunque, dell'ottimismo della volontà, anche quando la ragione impone un nero pessimismo. Ma lo dico anche perchè non vedo davvero una seria via d'uscita, a meno che accada qualcosa di straordinario.
Qualcosa che, in parte, forse è già accaduto. Le primavere arabe hanno diffuso una nuova consapevolezza nella mente e nel cuore di popoli abituati ad obbedire senza reagire. Alcuni regimi sono caduti, altri cadranno. Ma questa rivolta globale non ha lasciato insensibile Israele. Perché l'effetto domino l'ha raggiunto. I ragazzi israeliani, stanchi di retorica, non si accontentano più di avere libertà e democrazia. chiedono lavoro, affitti meno cari, diritto a potersi sposare, ad un futuro migliore. Le grandi manifestazioni di protesta a Tel Aviv, che in questi giorni sono diventate davvero oceaniche, hanno scheggiato, fino a creare autentiche crepe, antiche certezze. Il Medio Oriente non è più quello che siamo stati abituati ad analizzare per decenni. E forse in quest'atmosfera nuova, lontana dai rigidi, vecchi e talora rassicuranti schemi del passato, può produrre davvero quel miracolo di convivenza. Sì, perché è nelle mani dei giovani e dei giovanissimi questa speranza. I ragazzi del Terzo millennio possono portarci la buona novella. Che potrà offrire finalmente la risposta che tutti aspettiamo, e che per ora ci pare impossibile. Che è quella che abbiamo timore persino a pronunciare: "Sì, la pace è possibile".
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