Nel 2000, al passaggio del millennio, qualcuno sognò il futuro con il brivido dell’utopia. Oggi, in pieno secolo XXI, non si vedono troppe novità. Abbiamo imparato a parlare del Novecento come del «secolo scorso» (fino a ieri lo si diceva per l’Ottocento). Ma come si prospetta il 2000? Proviamo a guardare al decennio passato. Non è facile. Siamo in una stagione abbagliata dalle luci cangianti della cronaca, in cui si fatica a capire il nostro tempo. In passato si è abusato della retorica dei fatti storici, oggi sembra invece che la nostra cronaca tumultuosa non riesca a spiegarsi come storia. Così si fa fatica a capire gli anni vissuti.
Lo storico Eric Hobsbawn parlava del Novecento come del secolo breve tra il 1917 e il 1989. Il 2000 sarebbe cominciato presto. Il XXI secolo in realtà è iniziato quasi giusto. La sua drammatica apertura è stata l’11 settembre 2001, quando il terribile attentato a New York ha mostrato la forza dell’islamismo terrorista. Si confermava la diffusa teoria che la storia fosse fatta dello scontro epocale di civiltà e religioni. Questa visione ha ispirato o spiegato politiche e conflitti. E il terrorismo globale giocava le sue carte proprio sulla logica dello scontro. Tutto appariva semplice e drammatico: bisognava attrezzarsi a combattere.
Le identità (di tutti i tipi) sono stati rifugi per donne e uomini spaesati di fronte a un mondo smisurato. La gente sentiva il freddo di una vastità quasi siderale e si rivestiva di identità antiche e rinnovate. Si sono moltiplicati gli antagonismi. Gli Stati nazionali hanno sofferto anche delle correnti di una globalizzazione invadente. I primi dieci anni del 2000 hanno mutato gli Stati più di quanto non si dica. Anche l’Italia. Le società sono divenute non facilmente componibili in una sintesi. Stenta il decollo di forti leadership nazionali. È difficile una leadership non congiunturale senza una visione, che si forgia anche nella lettura del passato.
Lo scontro tra civiltà vuol spiegare un universo complesso, senza Occidente né Oriente, i punti cardinali di quasi mezzo secolo di guerra fredda. Due mesi dopo l’11 settembre, l’11 novembre 2001, la Cina entrava nel Wto, l’organizzazione internazionale del commercio. Pochi ne hanno scritto, ma l’evento è epocale: rivela l’ascesa economico-politica della Cina, il G2, l’eclissi dei tradizionali grandi. L’Occidente è ridimensionato, mentre i Paesi europei vanno indietro e l’Unione stenta. Però, fino alla recente crisi economica, al di là dei conflitti e degli spostamenti di potenza, si è sperato molto nella natura buona, quasi provvidenziale, del mercato globalizzato, che doveva portare tutti ai lidi della democrazia e dello sviluppo.
Un evento tragico ha segnato l’inizio del secondo decennio del 2000: 35 secondi di terremoto ad Haiti, il 13 gennaio 2010. Lo tsunami del 2004 aveva fatto circa 230 mila morti, in vari Paesi dell’Oceano Indiano, suscitando un’ondata di solidarietà (parecchi occidentali conoscevano le regioni colpite). I morti sono di più ad Haiti, concentrati in una parte di questo poverissimo Paese. Tutti abbiamo visto le immagini della tragedia. Nel nostro Paese non c’è stata però l’impennata di solidarietà di altri momenti. Haiti è lontana. Aiutarla è complesso. C’è un senso di impotenza misto alla sensazione che le tragedie sono troppe.
La reazione americana, malgrado talune polemiche, è stata pronta e generosa. Va colto il segnale degli Stati Uniti (esprime una visione positiva e partecipata della globalizzazione): l’evento di Haiti chiede una solidarietà larga. Dove andranno e che faranno i tre milioni di haitiani colpiti? Si scopre un’incredibile interdipendenza, per cui il dramma del mio vicino è un po’ il mio dramma. A questa realtà non corrispondono né visioni né politiche.
Non sarà proprio il 13 gennaio 2010 a offrire una chiave per leggere il passaggio di decennio? Indica infatti agli Stati la necessità di una politica estroversa e generosa, di una solidarietà da costruire nel mondo globalizzato: l’interdipendenza dei popoli chiede una visione dell’interesse comune e domanda scelte agli Stati. La grande tragedia di Haiti non può essere archiviata come un’emergenza, ma dev’essere un evento che inquieta e prospetta una via.