E' preoccupato. Molto. «Bisogna far capire ai politici che le loro parole incitano all'odio e possono scatenare la violenza nelle teste calde. Devono stare attenti a ciò che dicono: serve una coscienza culturale che non contribuisca ad aizzare il branco», commenta così al Sir monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma, l'aggressione a sfondo razziale avvenuta la notte fra sabato e domenica nel centro della Capitale, in piazza Cairoli. Quando un diciassettenne, tre diciottenni e un diciannovenne, che abitano in zona Laurentina, nel quadrante sud di Roma, hanno insultato un ventisettenne del Bangladesh e un egiziano (lavorano entrambi in un ristorante del centro storico con regolare permesso di soggiorno), poi li hanno riempiti di botte.
«Quando avvengono questi episodi mi chiedo le ragioni per cui questi ragazzi agiscano con tanta violenza gratuita - continua Feroci -. Senza giustificarli, penso che molti ragazzi che vivono nelle periferie, senza Stato e senza famiglia, spesso ascoltano e ripetono quello che sentono dall'alto». Dunque «sono anche loro vittime degli agitatori politici che affermano le solite falsità sui migranti: "Ci rubano il lavoro, la casa, ci invadono". Il rischio è che per guadagnare quattro voti in più poi si aizzino queste teste calde». Piuttosto, sempre i politici facciano «uno sforzo di conoscenza del fenomeno migratorio, altrimenti si fomentano delle guerre tra poveri in una società che annaspa nel malessere di non avere casa e lavoro». E «chi si sente forte davanti al debole, in questo caso poveretti inermi, agisce per far vedere chi è che comanda», conclude il direttore della Caritas romana.
Anche monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore dell'Ufficio Migrantes della diocesi di Roma, dopo l'aggressione ai due cittadini stranieri, dice: «È inconcepibile assistere ancora oggi a gesti di violenza di ogni genere a danno di chi è consideriamo diverso», violenza «spesso dettata da pregiudizi e da un linguaggio aggressivo. Da qui la necessità di politiche di integrazione nel rispetto dell'identità di chi si incontra».
Il fondatore di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, ieri pomeriggio all'ospedale San Camillo di Roma ha incontrato il giovane bengalese: «Ho riconosciuto in lui un uomo mite che si guadagna la vita lavorando in un ristorante - ha detto -, un cittadino bengalese di religione induista, che merita dalla città in cui vive un comportamento corretto e una riconoscenza». E per la stessa Comunità di Sant'Egidio «la violenza, accompagnata da un linguaggio di disprezzo, è spesso il frutto di una predicazione dell'odio nei confronti di chi si ritiene diverso, alimentata da pregiudizi e ignoranza o da colpevoli strumentalizzazioni», si legge in una nota.
La Procura di Roma ha intanto chiesto la convalida, con ordinanza di custodia cautelare in carcere, per Alessio Manzo, il diciannovenne protagonista del pestaggio insieme con altri quattro giovani, contestandogli il reato di "tentato omicidio con l'aggravante dell'odio razziale". Nella sua abitazione sono stati trovati, durante una perquisizione, simboli fascisti. Gli investigatori vogliono approfondire anche gli eventuali legami dei cinque giovani coinvolti, tutti tifosi della Roma, con gli ambienti del tifo organizzato giallorosso.
La posizione di Manzo sembra essere più grave rispetto a quella degli altri aggressori, tutti denunciati a piede libero anche per lesioni (il minorenne sarà poi giudicato dal Tribunale competente), per essersi avventato sul bengalese, dopo l'iniziale pestaggio, colpendolo ripetutamente con calci alla testa e al corpo, mentre il ragazzo egiziano riusciva a evitare le botte. Il gruppo avrebbe urlato contro l'uomo, che ha riportato gravi lesioni e fratture al viso con una prognosi di trenta giorni, insulti e frasi come «negro» e «tornatene a casa tua».
Pino Ciociola
|