«Ecco che, avendo cercato di incontrarci l'uno con l'altro, abbiamo incontrato, insieme, il Signore. E lui verrà a unirsi al nostro cammino e ci indicherà la via da seguire».
Con queste parole, il 5 gennaio 1964, il patriarca ecumenico Athenagoras si rivolgeva a Paolo VI. Sono passati cinquant'anni dallo storico abbraccio tra il Papa e il Patriarca che quella sera a Gerusalemme rompeva secoli di distanza e di estraneità tra la Chiesa di Roma e la prima sede dell'ortodossia, Costantinopoli. Nove secoli prima si erano reciprocamente scomunicate, ora si riconoscevano sorelle: Quell'abbraccio veniva da lontano: era nato dal sogno dell'unità tra i cristiani vissuto da Athenagoras nel confronto con le aspre sfide del nazionalismo e delle trasformazioni storiche del Novecento, che rendevano incerto il futuro delle comunità cristiane orientali. Era stato coltivato da Angelo Roncalli; nei lunghi anni trascorsi in Oriente, a contatto con i «fratelli separati».
Era il frutto del Concilio Vaticano II e del coraggio di Paolo VI che, Papa da poco più di sei mesi, aveva deciso di iniziare il suo pontificato con un pellegrinaggio alle radici del Vangelo. «Porteremo sul Santo Sepolcro e nella grotta della Natività - aveva detto - i desideri di coloro che piangono, che hanno farne e sete di giustizia».
Attorno a questo viaggio, che non ha precedenti, si era creata una immensa mobilitazione. Tutto il mondo - non solo cattolico - segue i passi del Papa che, primo nella stona, sale la scaletta di un aereo per raggiungere i Luoghi Santi e pregare sulla pietra del Santo Sepolcro.
«Stiamo assistendo - si legge su un quotidiano italiano - a uno dei fatti più commoventi della storia: è Gesù che dopo duemila anni torna nella terra sUa». Stampa e teleVisiOne mandano nelle case le immagini del Papa, della terra che attraversa e degli uomini che incontra: cristiani cattolici e ortodossi, ebrei, musulmani. Accanto a Paolo VI, la figura di Athenagoras, un anziano maestoso, con una lunga barba bianca, diventa familiare oltre i confini del mondo ortodosso. Questa diffusione conferisce un valore aggiunto al pellegrinaggio del Papa: "l'altro" fa irruzione nel panorama italiano ed europeo e il dialogo ecumenico non è più un opera di speciialisti, né un colloquio bilaterale tra leader, ma un evento di popolo. Sono i fedeli cattolici e ortodossi che ricevono - è la prima volta che accade - la benedizione impartita insieme dai due patriarchi. Sono le folle che accompagnano il Papa ad ogni passo.
Nel luogo in cui era sorta la Chiesa indivisa, il Papa e il Patriarca cercano le vie dall'unità. Dice Paolo VI: «Un'antica tradizione cristiana ama vedere il "centro del mondo" nel luogo dove fu alzata la croce gloriosa del nostro Salvatore. Era opportuno - e la Provvidenza ce lo ha permesso - che in questo centro benedetto e sacro, pellegrini da Roma e da Costantinopoli, potessimo rincontrarci e unirci in una preghiera comune. Da una parte all'altra le vie che conducono all'unione potranno essere lunghe e cosparse di difficoltà. Ma queste due vie convergono l'una verso l'altra e, in definitiva, raggiungono le fonti del Vangelo».
Non è un'esagerazione affermare che tanto, forse tutto è cambiato da quell'incontro nel rapporto tra i cristiani d'Oriente e d'Occidente. Iniziava il «dialogo della carità» e si apriva una stagione di riavvicinamento che vide negli anni seguenti momenti di forte contenuto teologico e storico: la reciproca cancellazione delle scomuniche, il 7 dicembre 1965. Poi, nel 1967, il primo scambio di visite: il Papa si recava a Costantinopoli e il Patriarca ecumenico a Roma.
Ripartendo da Gerusalemme, a chi lo interrogava sui tempi e i modi dell'unione, Athenagoras rispondeva con parole che ancora oggi indicano ai cristiani la via da percorrere: «Se noi sapremo restare grandi, l'unione si farà». E grande è l'eredità che l'incontro di Gerusalemme ci consegna. In quell'abbraccio rinasceVa la fraternità cristiana.
Quella fraternità che, ha ricordato papa Francesco nel messaggio per il nuovo anno, è fondamento della pace.